"Non provo a cambiare me stesso per impressionare qualcuno. Sono solo chi sono". (Tim Duncan)  

Questa è una storia ordinaria di semplicità, di valori e di raziocinio. Ma forse l'America è talmente grande da non avere spazio sufficiente per l' autenticità d'un caraibico.  

C'era una volta un ragazzino che scorrazzava  ridente, per i prati rigogliosi dell'isolotto di Saint Croix.  

Il ragazzino all' anagrafe è Timothy Theodore ma tutti lo chiamano Tim, mentre per i grandi amici dell'atollo è semplicemente Timmy. E questo Tim di cognome fa Duncan. Nasce il 25 aprile 1976 a Santa Cruz nelle beate Isole Vergini, dunque cresce nel paradiso della terra più verde e fiorente. Da casa sua non ci vuole neppure molto per raggiungere il mare. Sua madre si chiama Ione e gli dedica gran parte del proprio tempo, suo padre William fa il muratore di professione. Poi ci sono le due sorelle maggiori: Tricia e Cheryl, nuotatrici notevoli.  
Si deve celebrare l"infanzia del ragazzo che ha avuto il privilegio di essere segnato dalla normalità più semplice. La madre è amorevole, il padre è presente, non un alcolista delle solite famiglie auto-distruttive, Tim non è lo sfortunato che cresce nei quartieri poveri scappando dalle baby gang. Piuttosto la famiglia è immersa in un' aurea di armonia assoluta, appunto quella delle Isole Vergini. Magari Tim si impegna a scuola, magari Tim è un ragazzo timido con un gran cuore, magari Tim rincorre le farfalle, magari Tim ha paura degli squali. Magari Tim sfiora i due metri di altezza. È vero, sono quasi due metri all'età di quattordici anni.

Quando nel 1988 a Seul, sua sorella Tricia già partecipa alle Olimpiadi, contemporaneamente Tim ottiene il miglior tempo delle Isole Vergini nei 400 metri in stile libero, poi ha ottimi numeri anche sui 200, honoris causa dei continui allenamenti in vasca con mamma Ione. Dunque il ragazzo sta scalando una montagna di nome "Nuoto", avvicinandosi tanto alla vetta da riuscire a vedere un panorama di stampo gaudiano giù per la vallata. E quella non era la carta da parati della cameretta di Tim. Duncan, infatti, avrebbe partecipato alle Olimpiadi del '92, destinazione Barcellona da sedicenne prodigio. I numeri, la matematica ed il tempo sarebbero stati dalla sua parte. Eppure, quando nel 1989 Tim stava già preparando le valigie per la gita spagnola con tre anni d'anticipo, che s'accorse di come qualcuno gli avesse nascosto uno dei suoi tre aiutanti, riposti con tanta attenzione sul comodino.  

"Numeri?" "Siamo a rapporto, signore!"  
"Matematica?" "Sissignore, a disposizione!"  
"Dov'è la mia Clessidra?" "Signore, o signore! Accade che la Clessidra pare essersi convertita con il nemico".  

Allora il tempo crudele e maledetto tira, ad un Timmy tredicenne, due sberle con la forza d'un orso kodiak. Due avvenimenti gli negheranno il suo sognatissimo giro del mondo, in 365 giorni. Mamma Ione è malata di cancro al seno e da subito la situazione pare assai critica, mentre nel 1990 l'uragano Hugo si abbatte sull'isola di Timmy devastando qualsiasi forma vistasi all'orizzonte. La piscina dei mille allenamenti è distrutta come tutto o quasi sulla sua terra, invece il funerale della madre arriverà poche settimane dopo. Tim, ovviamente sofferente, non gareggerà mai più una gara di nuoto. Scelta. Sicuramente scatta qualcosa a livello psicologico, Tim che aveva vissuto d'acqua e bracciate si chiude in sè stesso, fa anche sapere che non si sarebbe allenato di certo nel mare. E perchè? Perchè nuotano gli squali, e a Timmy l'animale preferito di Steven Spielberg incute una gran paura. A Timmy gli squali fanno paura.  
Tim non ha nulla da coltivare con passione, è anche un po' soletto. Finalmente arriva una distrazione dalla sorella Cheryl che, sorprendendo il fratellino, porta con sè, sotto il braccio, un canestro da appendere ad un qualche muro. No! Ma possibile che Tim Duncan abbia potuto dire "cosa essere canestro?" solo all'età di quindici anni? Cioè quel fenomeno di Duncan non aveva mai giocato prima? Ehm, sì... esattamente. È andata proprio così.
Ma poi, a motivare Duncan giunse la seconda "sorpresa" della sorella Cheryl: il marito Ricky Lowery, ex playmaker dell'università di Columbus. Duncan è grezzo nel gioco, come è lapalissiano che sia, dunque ecco che davanti a Rick si pone l'unico motivo per cui il proprio glorioso cognome possa essere ricordato dal mondo intero. Gli mostra qualche passo, gli dà qualche suggerimento ed il gioco continua. In America si direbbe "he got game". Infatti, in Timmy avviene una metamorfosi sportiva notevole, in un arco di tempo anche molto breve. Da predatore delle acque, ma inferiore allo squalo nella catena alimentare, dunque da "coccodrillo buono" avviene l'evoluzione in bipede dall'habitat terreno.  

Un giorno sull'isola di Sant Croix giunge Alonzo Morning per un evento benefico, allora giovanissimo centro dei Charlotte Hornets in NBA. Duncan ha ancora sedici anni e gioca a basket da una dozzina di mesi. E lì fu la fortuna che come raccontanto più volte da Tim, sarà "Dio a restituirgli, dirottandolo sulla strada giusta". Un, due, tre possessi di fila in cui Duncan riceve la palla di spalle al centro NBA, nell'iconica posizione di post alto. Poi cadendo un poco indietro si gira e spinge il pallone appena con i polpastrelli della mano, dolcemente. E se accade una, due e tre volte, è normale che gli amici lì con Alonzo incomincino a deridere la star sull'atollo. Poi: "Questo qui è bravo, ma non ha borse di studio. Nulla. Perchè non lo mandiamo dal mio amico Dave Odom in North Carolina?"  
Qualche mese dopo Tim fa le valigie, si presenta all'ingresso della Wake Forest University. Arriva una telefonata a Dave Odom: "Qui c'è un ragazzino di 2 metri e 11 centimetri, all'ingresso. Non sa dove deve andare." Ovviamente Dave risponde: "e chi è?", dall'altra parte del telefono arriva un "mmmh, dice di chiamarsi Tim Duncan". Si erano dimenticati che sarebbe dovuto arrivare il futuro del basket NBA, il miglior giocatore del decennio '00! Maledetti! Ma poi lo trattono per bene, Duncan ebbe un impatto ultraterreno a livello collegiale. E scelse la numero 21 in onore del cognato Rick Lowery, stesso numero. Una sera ottiene una laurea in psicologia, la sera dopo giocava ed era primo nella sua Conference per le voci quali punti segnati, rimbalzi, stoppate e percentuali al tiro. Sembra quasi un'invenzione da Forrest Gump, perchè da nuotatore incredibile ci mette molto poco a diventare il numero uno in America a livello collegiale. E nel 1997 viene selezionato con la prima chiamata del Draft NBA dai nuovi San Antonio Spurs di coach Gregg Popovich, è subito il miglior rookie dell'anno. Al termine della sua prima partita in NBA, un certo Charles Barkley dirà: "ho visto il futuro e porta la maglia numero 21". Già nella seconda stagione di Duncan, arriverà l'anello. Il primo titolo di Tim.  
Al nostro caraibico fu immediatamente affibiato il nickname "The Big Fundamental", perchè Duncan era il meno atletico ed il più lento, ma anche il più intelligente cestista del gioco, nei posizionamenti e nelle intuizioni difensive dell'intero basket NBA. Ma per quanto riguarda l'uso dei cosiddetti "grandi fondamentali"... beh, forse sarà stato il migliore nella storia.  
San Antonio in Texas, famiglia Spurs, era un posto costruttivo. Migliorare e crescere individualmente e non. Il fratello maggiore fu l' Ammiraglio David Robinson, ai suoi ultimi anni nella lega (nella stagione del 97/98 soffiò su 33 candeline) incominciò inesorabilmente a concedere più spazi sul parquet che diventò, definitivamente, di Tim. Gregg Popovich era il coach dei sogni per Duncan, giocare per lui richiedeva una grande etica del lavoro. Il Pop ancora oggi è un personaggio molto-molto severo durante gli allenamenti, ma anche molto-molto sopra le righe finiti gli esercizi. Gregg vuole vincere, ma prima di questo cerca di fare il meglio per i suoi ragazzi. È un padre che gli insegna come andare avanti. E non sono frasi di circostanza di un fan degli Spurs.  
Ad ogni trasferta o quasi, Popovich, sapendo che Duncan sarebbe rimasto nella camera d' hotel, portava al suo ragazzone una torta di carote. Parlava con lui, lo rendeva leader, ponendo di fronte al numero 21 discorsi con Timmy al centro della discussione. Ma come uomo. Critiche, complimenti? Per ammissione dello stesso Gregg, Duncan non gli avrebbe mai risposto, lui sbarrava gli occhi e si comportava come da richieste. Anche se non era d'accordo. Perchè, Gregg? "Perchè era troppo educato" dice il Pop.  

Ora analizziamo la personalità di Duncan. Come è possibile che un tipo come lui: schivo, riservato, controllato, timido potesse sopravvivere in un mondo di squali? Gli squali che lo avevano terrorizzato. Timmy era fin troppo vero in televisione. E sappiate che nessuno in NBA è vero. In America si punta a dilatare le serate: interruzioni pubblicitarie, cheerleader, sponsor, storie inventate interviste frequentemente incentrate sul lato comico perchè... in America non deve essere sport. Deve esserci show. Uno show per creare un motivo al tifoso americano medio, che non è poi così interessato a guardare lo sport, di aumentare l'interesse. E dunque j compagni riferiscono che lui nel privato fosse anche spiritoso, certamente non uno squalo, però. Hanno provato nelle interviste a cacciare fuori dalla bocca di Tim qualcosa da vendere. Ma lui non lo ha fatto. Gli altri sul parquet facevano spettacolo con schiacciate violente. Lui no, preferiva lasciare la palla da sotto canestro in maniera altrettanto efficace. Sempre due punti erano. E l'intera NBA tutto questo non lo poteva sopportare. I giornalisti di Sports Illustrated, al suo primo di 5 MVP (miglior giocatore della stagione) lo definirono "un calmo, noioso e dominante MVP". E questo per molti era insopportabile, infatti dal punto di vista del marketing Duncan non era cool, in pochissimi avrebbero acquistato una sua maglia, non piaceva alle masse.  

"Tim, ma perchè non fai trash talking (ndr, le chiacchiere per innervosire gli avversari che tanto piacciono negli States)?" Perso nel vuoto, Timmy guarda l'obiettivo ed ammette: "Perchè non sono cose da me".  
"Tim, sei rimasto colpito da quanto ha fatto Michael Jordan?"  Viva l'onestà! "Non sono mai stato un fan di Michael Jordan." E poi alle continue domande continua: "Non sono mai stato un suo tifoso perchè lo sono tutti. Non mi piace perchè non è il genere che preferisco. Io rispetto Michael Jordan ma sono semplicemente tra quelli che non restano impressionati al suo cospetto. In realtà, se devo dirla tutta, non c'è nessuno al mondo che mi abbia mai impressionato sotto questo punto di vista".  
E lo disse anche Shaquille O'Neal: "I San Antonio Spurs vincono grazie a Tim Duncan, un ragazzo che non sono mai riuscito a piegare. Sono riuscito a far uscire di senno Patrick Ewing, David Robinson, Alonzo Mourning. Ma tutte le volte che ci provai con Tim lui mi guardava come se fosse annoiato".  

Non mancano aneddoti che dimostrano la bontà del cuore di Duncan. Per esempio di fronte ad un tiro stoppato all'avversario e rookie Ethan Thomas si fermò vicino al giovincello dicendogli "devi tirare più vicino a me, utilizza di più il corpo. Vedrai che non riesco a prendertelo". Pochi minuti dopo Thomas compie quanto consigliato da Duncan, sbagliando di poco. "Bene, già molto meglio. Continua ad allenarti lì".  

Duncan rimase agli Spurs a vita, giurò di ritirarsi solo quando non si sarebbe sentito utile alla franchigia, inevitabilmente legò il suo nome a Gregg Popovich ed a David Robinson, ma fece la storia con i texani per oltre un decennio con i due compagni di una vita, Tony Parker e Emanuel Ginobili, istruì anche un giovane Kawhi Leonard. Fu un uomo-squadra, unico nella sua longevità. Lasciò allora il basket giocato nel 2016. Ancora oggi la maggior parte dell'America prende più in simpatia quello spaccone crudele di Kevin Garnett, che, per tentare d'innervosire il nostro Timmy, faceva del trash talking gridando oscenità sul conto della madre morta, a ripetizione. Duncan stavolta rimase ferito nel profondo, dicono che se la legò al dito, ma in TV non diede alcun esempio negativo. Non gli hanno fatto nulla, nè una squalifica nè altro a Kevin Garnett, che, peraltro, quell'anno vinse il titolo e per molti fu un grande eroe. Strillò il celebre "anything is possibile!" davanti le telecamere, perchè lui ce l'aveva fatta. Ma Duncan ce la fece 5 volte!  

A Timmy facevano paura gli squali. Non è mai stato uno squalo, un fuoriclasse sul parquet sì. Ma gli squali da TV, da tastiera o da spiaggia erano tutto il contrario di lui. Autentico.  

Noi lo conosciamo così, oggi un quarantacinquenne che non sarebbe andato particolarmente a genio per Pirandello, perchè ha sempre provato ad esprimere le sue vere sensazioni, a dare esempi ai più giovani e senza portò maschere. Ma in America non se ne sono accorti. Sarebbe piaciuto anche a Eugenio Montale, il quale avrebbe visto come un uomo dall'anima nuda, anche vincente, potesse non essere un campione di incassi per quanto riguarda maglie e canotte. Ma l'America non lo capì. L' anno scorso è entrato nella Hall of fame, ha eseguito il celebre discorso, presentandosi con i deadlocks "marleyniani", poco prima d'un altro premiato: proprio Kevin Garnett.  
The Big Fundamental, fuori dal parquet, si vede poco ad oggi. Fonda la Tim Duncan Fundation, impegnata in vari campi, aiuta la crescita dei giovani, infine è attiva nella ricerca per la lotta contro il cancro al seno.  
Timmy è stato inserito 10 volte nella squadra dell'anno ed 8 nella squadra difensiva dell'anno, poi ha partecipato a 15 All-Star Game ed una volta ne è stato l'MVP. E nonostante tutto questo, in una lista che include anche i già citati 5 MVP (2 della stagione regolare e 3 delle Finals) ed un titolo, la sua semplicità nel gioco e nell'atteggiamento non è è intesa davvero. L' America non l'ha capito che a Timmy gli squali facevano paura. Tanta paura.  

Ce ne fossero di più di Tim Duncan, ribelle a modo suo. A volte mi pare che i pensieri della massa derivino dalla penna di Carlo Collodi. E quanti pescecani.

 

Damiano Fallerini