Le società di calcio professionistico odierne sono, nella stragrande maggioranza, delle S.p.a., acronimo di Società per Azioni. Per questa ragione, sono delle società commerciali in tutto e per tutto, con un capitale sociale composto da azionisti, i quali “finanziano” la società, e la ricapitalizzano nei casi di bisogno, nonché possono partecipare alla divisione degli utili, i noti dividendi. Ebbene, quest’ultima eventualità è assai rara all’interno delle società di calcio. Da questo particolare settore di mercato infatti, è molto difficile guadagnarci dal punto di vista del socio o azionista. I ricavi sono rigidi, legati a meccanismi sui generis slegati dal normale concetto che sta alla base dell’economia, ovvero quella della domanda e dell’offerta. Inoltre, i costi di queste società sono particolarmente elevati se vogliono essere competitive. I casi virtuosi di Atalanta e pochi altri sono delle mosche bianche, situazioni che si possono permettere società che hanno il tempo di pazientare, di crescere con costanza nel rispetto dei canoni di bilancio. Motivo per cui, i risultati di esercizio sono molto esigui, con Utili molto ristretti, i quali addirittura molto spesso si tramutano in perdite. Se poi prendiamo in considerazione casi monstre, come quello attuale del Milan, le perdite sono brutali.
Tutto ciò ci porta dunque a dividere gli azionisti in due figure distinte:

  • I proprietari, ovvero coloro che detengono la maggioranza, solitamente finanziatori di rischio di un club per interessi trasversali (marketing, politica, brand)
  • Gli azionisti di minoranza, solitamente molti e con una frazione di capitale molto piccola in mano, che finanziano il patrimonio netto per pura passione

Sebbene sia improprio, il sottoscritto osa avanzare una terza categoria di azionista
Il tifoso, per quanto sia più una fonte di ricavo (che non è capitale, per chi non lo sapesse), detiene infatti altre caratteristiche tipiche del socio di club. Tiene “all’azienda” anche a discapito dei risultati. La finanzia in modi indiretti, attraverso i diritti di stadio e merchandising. Dà il suo parere, anche se in maniera non ordinata e ufficiosa, sulla gestione e sulle scelte decisionali dirigenziali. L’unica cosa che dunque lo scosta dalla figura ufficiale dell’azionista, è che non detiene realmente quote della proprietà, dunque non può comparire in Consiglio di Amministrazione e non può così far sentire la sua voce in maniera ufficiale. Detto ciò, com’è facilmente intuibile, il tifoso è la principale fonte di ricavi per la società, sia in maniera diretta, che in maniera indiretta. Direttamente in quanto versa le proprie finanze nelle casse societarie attraverso i biglietti allo stadio, l’acquisto di magliette e altri gadget nei negozi ufficiali, nonché altre piccole forme di supporto. Indirettamente in quanto, più tifosi seguono la società, dunque più grande è la platea di fruitori, più sponsor e broadcast decidono di aumentare i proventi da affidare alla società.
Motivi questi sufficienti perché il tifoso meriti un determinato trattamento, almeno dal punto di vista comunicativo. Esso è infatti una sorta di azionista indiretto, potremmo dire, una figura che, sebbene non detenga alcuna quota societaria, senza la sua presenza la società non avrebbe motivo di esistere. 

Guarda caso, in realtà vicine, ma diverse da quella italiana, quella dell’azionariato popolare è un fatto, esiste nella forma e nella sostanza. In simili casi sporadici, i tifosi hanno accesso a una determinata quota societaria che, in forma collettiva e congiunta, può dare alcuni diritti, o privilegi. Il caso più eclatante si lega a uno dei club più importanti al mondo, ovvero Futbol Club Barcelona. Nel proprio capitale sociale infatti, i blaugrana contano una cosa come circa 223.000 azionisti, la maggior parte dei quali sono semplici tifosi. Ovvio, la quota di patrimonio da loro detenuta è assai esigua. Tempi addietro si attestava attorno al 9%, ora è molto meno, ma tant’è, questa è un’altra storia. Il fatto però di avere all’interno della società una compagine di tifosi, anche se minimale, priva di reali poteri decisionali, è comunque un fatto importante. Dal punto di vista comunicativo infatti, è dare un peso a una fonte di ricavo assai importante, anche se solo figurativo. Conoscere le dinamiche di bilancio, avere più facile accesso alle relazioni sulla gestione e altre informazioni riguardante la direzione aziendale. Questi sono tutti diritti quasi esclusivi dell’azionista o del dirigente, che hanno un peso specifico assai importante, di cui credo i sostenitori dovrebbero essere messi al corrente. Una sorta di trasparenza assoluta insomma. 

In Italia, l’azionariato popolare, che volendo ricalca alcuni concetti dell’azionariato diffuso, quella che in America è detta Public Company, non è molto diffuso. È una questione culturale, più che legale. Il substrato aziendale italiano infatti è sostanzialmente familiare, ovvero moltissime imprese nascono da una famiglia come caposaldo. Così come quelle societarie, prive di questo fondamento, hanno comunque una compagine sociale assai scarna, comprese le realtà molto dimensionate. All’interno del Milan per esempio, al di là della proprietà Elliot esiste anche un’Associazione Piccoli Azionisti Milan, che detiene una quota esigua. Tale associazione cerca di spingere il concetto di Azionariato Diffuso a livello sportivo, in quanto i suoi associati credono che sia la strada più giusta da seguire. Ricalcando tale proposta, sarebbe veramente possibile avere simili realtà nel calcio italiano? E con quali effetti? 

Prima di tutto è necessario fare un distinguo:

    • L’Azionariato Popolare in stile Barcellona permette l’entrata di piccoli azionisti, i quali insieme possono giungere volendo anche a una quota rilevante (ma mai di maggioranza) del capitale. 
    • L’Azionariato Diffuso vede invece il capitale sociale suddiviso esclusivamente tra piccoli azionisti. Nessuno detiene la maggioranza e ogni socio può avere al massimo il 3 o il 5%. 

Per farla breve sul primo caso, l’Azionariato Popolare non avrebbe alcun reale effetto sull’attuale gestione societaria dei club italiani. Le renderebbe probabilmente più trasparenti, se la parte popolare dell’azionariato fosse interessata in questo frangente. Il potere decisionale però rimarrebbe nelle mani della maggioranza

Ben diverso è invece il discorso legato al secondo caso, ovvero l’Azionariato Diffuso tanto richiesto da associazioni come l’APAM. Per fare un esempio concreto, sarebbe come se Juve, Inter e Milan non fossero più di proprietà degli Agnelli, gli Zhang ed Elliot, ma spezzettate tra tanti piccoli soci. Che cosa comporterebbe una simile situazione, a livello gestionale? Come ogni cosa, ci sarebbero dei Pro e dei Contro ben precisi: 

PRO - Data l’assenza di una proprietà unica e forte, il potere viene affidato a una dirigenza fidata e preparata, la quale viene valutata esclusivamente sui risultati. Se questi non arrivano, l’assemblea dei soci (che in questo caso sono molti) può esautorarla con un semplice voto. Così facendo, la gestione di bilancio e del fattore tecnico deve puntare al meglio possibile, dato che i dirigenti hanno obiettivi molto precisi da raggiungere, se non vogliono essere licenziati in tronco, amministratore delegato compreso. Ciò comporta inoltre una determinata “freddezza” nel processo decisionale, basato sui fatti e non su motivazioni emotive, come potrebbe invece accadere se la società è posseduta da una singola persona. 

CONTRO - In una società ad azionariato diffuso, gli azionisti desiderano una sola cosa, sostanzialmente: dividendi. Non partecipano per semplice amore della patria, ma per riavere indietro i proventi del proprio investimento. Si rischia così di entrare in conflitto con il Consiglio di Amministrazione che, come abbiamo visto, ha come scopo la crescita dell’azienda stessa. Senza contare che, come abbiamo già specificato, nel calcio è difficile avere dividendi, dato gli utili fanno fatica ad emergere dai bilanci. Motivo per cui, vi sarebbe una difficoltà aggiuntiva nel formare un azionariato sufficientemente ampio per coprire tutto il capitale sociale. 

Esiste dunque una possibilità di vedere, prima o poi, società calcistiche con simile caratteristiche sul nostro territorio? Chi scrive la vede assai dura, ma nel paese dove il calcio è la seconda religione più diffusa (se non la prima), chi può dirlo con certezza? E anche se fosse, migliorerebbe le cose? 

Tornando al tema principale, dobbiamo ricordarci che l’Italia, intesa come i suoi club, è stata grande anche, se non solo, nel periodo in cui fu dominata dalle grandi famiglie.
Moratti, Berlusconi, Agnelli, Sensi. Che fossero mosse dalla passione o da altri interessi, poco importa. Ciò che conta è che fecero di tutto per raggiungere i più alti obiettivi, per le loro squadre e i loro tifosi. Questo però avveniva in un’epoca diversa da quella odierna. Le società calcistiche non erano aziende in senso stretto, si poteva spendere più o meno quanto si voleva, se la proprietà aveva la giusta disponibilità finanziaria. Oggi non è più così e per questo si parla in maniera diversa da un tempo, vengono utilizzati termini nuovi: progettualità, crescita lenta, obiettivi quinquennali. Parole che nel calcio, dove c’è tifo e dove c’è passione, dove c’è effettivamente un azionariato indiretto composto da supporter, contano poco o sono difficili da interpretare. Nel Milan questa criticità si è sentita parecchio, soprattutto dato il fatto che molte promesse, da un decennio a questa parte, sono rimaste tali. L’Inter ci ha messo diversi anni per mettersi in carreggiata, così come la Juventus anche se ha battuto tutti sul tempo. Ciò che però è mancato molto spesso è stata la chiarezza. Chi siamo oggi? Dove stiamo andando? In quanto tempo ci arriveremo? Sono domande che molti tifosi si fanno e a cui difficilmente trovano risposta. Le società non possono essere guidate dai tifosi, su questo metterei la mano sul fuoco, ma dato che le società vivono su di essi, un minimo di condivisione di obiettivi e risultati sarebbe giusto

Ma queste sono storie di altri mondi e altri universi.