Siamo degli umili fiorellini avvezzi alla dolce tutela della stufa, che l'aria libera uccide.

Giovanni Verga

 
Il suo nome è scritto sulla pietra millenaria della storia, le sue gesta calcistiche ce le ricordiamo ancora oggi, nonostante la fugacità di una carriera che poteva e doveva essere più longeva e di gran lunga più fruttifera, in termini di  vittorie e di riconoscimenti. 
Era per tutti l’Imperatore.
Ma per me, Adriano Lete Ribeiro è stato la capinera del calcio mondiale: sotto le spoglie d’una imponente aquila reale si celava in realtà un uccellino dalle ali troppo fragili per svettare lassù, dove solo le vere aquile osano.
Eppure, è tutt’oggi ricordato, emulato, preso a modello. Qualche giorno fa, per esempio, Marcus Thuram, il nuovo attaccante dell’Inter (squadra dove il brasiliano si è espresso al meglio delle sue gigantesche potenzialità), ha dichiarato: “Adriano, il mio idolo". Segno, appunto, dell’impronta indelebile che, nonostante la brevità della sua vita calcistica, ha lasciato sul selciato del tempo. 
E che fosse uno comunque destinato all’Olimpo dei grandi, s’era già capito sin dal giorno di quel gol. 
Era niente più che un’amichevole estiva, ancorché contro il mitico Real Madrid (è il trofeo Bernabeu).
Raccontiamolo. Anzi no, lasciamolo raccontare a lui: 
“Il 14 agosto 2001 entro al Bernabeu. Ho la maglia dell’Inter, di fronte c’è il Real. Già così poteva bastare. E invece entro in campo. Non penso a nulla, gioco come se mi fossi trovato sul campo di terra battuta a Vila Cruzeiro. Dribbling, tunnel. Mi riesce tutto. Mi procuro una punizione, dalla panchina mi invitano a tirarla. Mi avvicino al pallone. Dietro di me c’è Materazzi, mi dice: ‘No, no. La batto io’.
Potevo a malapena capire che cosa mi stava dicendo, perché ancora non parlavo italiano.
Poi è intervenuto Seedorf e ha detto: ‘No, lascia tirare il ragazzino’. Nessuno discute con Seedorf. Quindi Materazzi si è fatto da parte e la cosa divertente è che se guardate il video potete vedere Materazzi con le mani sui fianchi che pensa: questo ragazzino di sicuro la manda in curva. 
Ricordate quel sinistro che allenavo in casa e per strada, quello che faceva impazzire mia mamma? Ecco, l’ho presentato al mondo con quella punizione, dicono andasse a 170 all’ora!".
 
C’è tutto in quel tiro: potenza, precisione, classe pura, talento innato. Chi poteva immaginare che nel petto di quell’aquila imperiosa battesse un cuore da capinera? 
La verità è che un uomo è ciò che sono le sue origini. Per comprendere Adriano è da lì che bisogna cominciare, dalle sue origini, la sua famiglia, la sua favela, le sue strade, il suo mondo. 
 
Tutto ha inizio a Rio. 
È il 17 febbraio del 1982 quando Rosalida, moglie di Almir Leite Ribeiro, dà alla luce un maschio, che chiamano Adriano. La città natale è Rio de Janeiro, la zona è quella della favela di Vila Cruzeiro, inclusa nel famigerato Complexo do Alemão.
 
Situata nel quartiere di Penha, la favela di Vila Cruzeiro è detta così per via della croce che svettava dalla collina dov’essa si è sviluppata già nel XIX secolo. I primi residenti di Vila Cruzeiro erano schiavi neri in fuga, che ivi trovarono protezione grazie a un prete della vicina chiesa di Penha. La comunità crebbe sensibilmente dopo gli anni ‘40 del secolo scorso, fino a diventare, oggi, una delle aree più popolose (ci vive in gran parte gente di colore), oltre che disagiate e violente, di Rio de Janeiro. Rua Santa Helena e la sua scalinata (oggi trasformata in un fiume con grandi disegni di pesci, acqua e pietre) è stata scenario di innumerevoli atti di violenza, legati soprattutto al narcotraffico.
È qui che cresce Adriano, in questo groviglio ammatassato di casupole, rifiuti, muri pittati, motorini sgangherati e strade segnate di sangue, polvere e sole. Cresce qui: tra baracche ove un padre si becca una pallottola vagante; dove il Comando Vermelho spadroneggia indisturbato; dove “tutto fa colore, rifiuti e povertà”; dove svetta il profilo della chiesa, come a ricordare che, nonostante tutto, quello non è un posto dimenticato da Dio. 
Sì, Dio lì c’è, è presente in ogni azione, in ogni pensiero, in ogni paura, in ogni sorriso. 
 
Adriano cresce per strada, miseria è la sua condizione di normalità, la violenza circostante idem, giocare a pallone il suo evidentissimo talento, a scuola un disastro (ripete tre volte la quinta elementare). È un bambinone ben sviluppato, alto, capelli crespi, occhi vivi, le spalle larghe, il sorriso bonario. È uno di quei tantissimi bambini brasiliani che vanno in giro a petto nudo e quasi scalzo e che passano gran parte delle loro giornate per strada, spensierati, allegri. 
 
Una strada, cento strade tutte uguali, che nell’immaginario collettivo assomigliano agli inferi (e per certi versi lo sono davvero), ma che in realtà sono pure isole felici per chi ci vive. Perché se è vero, come è vero, che non è tutto oro ciò che luccica, è pure vero il suo contrario, cioè che non è tutta putrida l’acqua che ristagna. Ne è testimone lui stesso:
“Quando ripenso a come sono cresciuto nella favela, a dire il vero penso a quanto ci siamo divertiti. Penso agli aquiloni, alle trottole e a quando giocavamo a pallone nel vicolo.  Avevo sempre il pallone tra i piedi. Ce lo ha messo Dio. Un’infanzia vera. Io ero circondato dalla mia famiglia, dalla mia gente. Sono cresciuto in una comunità. Non ho sofferto. Ho vissuto”.
 
La sua famiglia. E sua nonna, punto di riferimento fondamentale, fin dai suoi primi vagiti; lei che non riesce a pronunciare bene il suo nome, che chiama “Adirano” il suo bambino. 
 
Un bambino prodigio! Troppo bravo col pallone tra i piedi per non fare qualcosa. Ha 7 anni quando i parenti raccolgono dei soldi per permettergli di giocare nella scuola calcio del Flamengo, la escolinha. Dalla favela al Flamengo è un bel viaggio, destinazione paradiso. Ma è anche un lungo viaggio, pure structu sensu, e farlo tutti i giorni può diventare una sfacchinata infernale. Il tragitto da Penha a Gavea (dove si trova la scuola calcio) è infinito, specie se devi farlo in autobus e se sei negli anni ‘90, periodo in cui non c’è ancora la Linea Gialla e si devono perciò prendere due autobus. Non solo, ma Adriano è ancora troppo piccolo, perciò ha bisogno di qualcuno che lo accompagni: è la famosa nonna che storpia il suo nome, proprio lei. 
 
La nonna materna di Adriano si chiama Vanda, è una signorotta tarchiata dalla pelle color del cappuccino ed è, per definizione stessa del nipote, un personaggio leggendario. La persona forse più importante della sua vita: “Dovrei fare il segno della croce ogni volta che parlo di lei”. 
È lei che lo accompagna, tutte le sante volte, agli allenamenti. Il tempo di abbigliarsi con le vesti semplici, di preparare i popcorn o, al massimo, una fetta di pane con lo zucchero sopra (perché questo è ciò che ci si poteva permettere) e via, sull’autobus, a macinare chilometri di strade della speranza, che un giorno diverranno del riscatto. Giunti al campo, la nonna se ne sta lì, a guardare suo nipote giocare, per ore. Poi di nuovo sull’autobus, a dissertare sulle sue prestazioni, e a casa. Questa è la routine di un bambino brasiliano e della sua preziosissima nonna, per 8 anni. Tutti i giorni, sempre insieme. Io non lo so se il pallone glielo abbia messo Dio, la nonna certamente sì. 
 
Anche il papà, Almir, segue le  vicende calcistiche del figlio, ma non può accompagnarlo, perché sgobba tutto il giorno, fa il messaggero d’ufficio e il tecnico delle riparazioni; è lui l’ispiratore della colletta familiare, che rende possibile l’iscrizione alla scuola calcio. 
 
La famiglia è insomma tutto il mondo di Adriano. Che ha un fratello minore, Thiago Ribeiro, a cui vuole molto bene. Un mondo che gli crollerà addosso e gli spezzerà le ali, segnando la sua carriera e la sua vita. 
Un mondo che, nel frattempo, comincia a girare tutto intorno al ragazzino del Flamengo, che inizia … pensate un po’ … facendo il terzino sinistro. 
 
A un certo punto, però, il sogno sembra infrangersi, Adriano è sul punto di sbaraccare e rimanere per sempre incollato alla sue baracche. Ha 15 anni, il Flamengo sta per mandare via quel terzino sinistro gigantesco. Sì, perché 
alla fine di ogni anno gli allenatori mettono tutti i ragazzi in linea e poi li dividono in due file: fila sinistra, a casa; fila destra, si resta. Indicano Adriano per la fila sinistra. Solo che, mentre s’incammina mestamente verso la fila degli esclusi, uno degli allenatori lo ferma, dicendo: “Adriano no, lui per il momento rimane”.
Lui dice che è stato Dio a mettere le mani sulla sua vita, io dico che qui Dio non c’entra. Anzi no, c’entra eccome, perché è stato Lui a donargli il talento che non poteva non essere notato. 
Lo spostano avanti, è la sua ultima possibilità.
Il terzino sinistro si trasforma in attaccante. E “quando sei un attaccante - parole sue - non è mai solo una sfida. Ogni volta che ti arriva la palla, hai due difensori centrali giganti che vogliono ucciderti, quale sfida. È una battaglia. Di quelle da strada. E allora che potevo fare? Ho abbattuto tutti i giganti bastardi che mi sono trovato di fronte”. 
 
E così l’aquila comincia a svettare, imperiosa, sulle teste di tutti gli altri e a tirare autentiche cannonate.
 
Un paio d’anni dopo, a 17 anni, inizia ad allenarsi con la prima squadra. E subito la svolta. È una partita di allenamento, 11 contro 11, non succede niente. All’improvviso, gli arriva la palla al limite dell’area di rigore, uno spiovente dal cielo. Due difensori gli si fanno addosso, lui li spinge via, si gira, la porta è davanti a lui, il pallone sul sinistro. La sagoma è quella di una creatura poderosa perfettamente in sintonia con la natura, la coordinazione di un’aquila reale, l’istinto di un killer infallibile, la potenza di un Dio adirato … la rabbia di anni di sacrifici e lacrime e sudore, tutta concentrata in uno scarpino da calcio. Colpisce la palla più forte che può e la palla colpisce il palo che più forte non si può. Una sfera di cuoio che inizia a volare in aria, proprio come un uccello, 
rimbalzando fino alla linea di centrocampo, mentre le facce degli astanti sono fotogrammi di stupore. Giocatori, allenatori, spettatori: tutti storditi da quel rumore sordo del pallone che impatta sul palo, da quella traiettoria aerea della stessa sfera che torna a centrocampo, dalla spontaneità d’un gesto che non è tecnico e non è di forza, è sovrumano. 
Nonna Vanda se la ride, al padre viene un luccichio agli occhi, lui ringrazia Dio perché sa che quella partita d’allenamento è la svolta. 
Torna a casa felice, torna alla sua favela, alla sua gente, al suo mondo. È ancora quello il suo mondo. 
 
Un mondo che fa presto a tingersi di verde e oro.
Vince infatti il mondiale under 17 del 1999, che si svolge in Nuova Zelanda tra il 10 novembre e il 27 novembre 1999. La sua partecipazione è da titolare, ma senza gol.
 
Torna in Brasile e si prende il Flamengo, quello dei “grandi”. Il 6 febbraio del 2000 esordisce, ancora minorenne, in prima squadra. Viene buttato in campo dall’ex commissario tecnico del Paraguay  Carpegiani, nel secondo tempo di una sfida con il San Paolo, che conduce sul Flamengo per due reti a uno. Al primo lancio da centrocampo, il ragazzone controlla al volo, scarta a sinistra per dribblare il difensore, si accentra un po’, accomoda la palla come meglio crede, lascia partire una scudisciata e infila il nazionale Rogério Ceni. Il telecronista urla: “Adriano! Que talento!”. I rossoneri  segnano poi altri tre gol nello stesso scontro, uno di questi su assist dello stesso Adriano. E il Clube de Regatas do Flamengo vince 5-2.
 
Pochi mesi dopo, ha già compiuto 18 anni, la nazionale maggiore.
All’epoca vive ancora con i suoi genitori, nella favela. Quando annunciano la lista dei convocati alla tv, lui si sta riposando. La madre entrata in camera e grida: “Adriano! Adriano! Figlio mio! Sei stato convocato! O mio Dio!”.
Lui è incredulo, si alza dal letto, guarda la tv, vede il suo nome in quella lista, strabuzza gli occhi, ringrazia il cielo, tra le cui nuvole e il cui azzurro gli sembra di camminare, di scoppiettare come i pop-corn che gli preparava sua nonna, di volteggiare come gli aquiloni con cui giocava da bambino. 
È un’aquila, il cielo è suo. 
 
Cosi, esordisce con la principale maglia verdeoro il 15 novembre del 2000, contro la Colombia (partita valevole per le qualificazioni ai mondiali del 2002). 
Si gioca a San Paolo. Al minuto 78, con la maglia numero 18, su disposizione dell’allenatore Emerson Leão, entra al posto di França, normalissimo attaccante centrale di cui non si ha memoria. Ma quello è un Brasile fortissimo, è un Brasile che schiera i vari Rivaldo, Cafu, Edmundo, Juninho Pernambucano e Roque Junior (autore del gol - vittoria, di testa). La sua prestazione è anonima, ma resta l’esordio tra i grandissimi del calcio, gente che, fino a qualche tempo prima, Adriano guardava solo in televisione. 
 
Quell’anno, nel Flamengo, tra campionato statale e campionato carioca, totalizza 26 presenze e 8 gol. 
 
E gol ne segna tanti nel Campionato sudamericano di calcio Under-20, che si disputa in Ecuador tra il 12 Gennaio e il 4 Febbraio del 2001. Anzi, tantissimi: con 6 gol è il capocannoniere della manifestazione, vinta proprio dal Brasile. La finale 
è contro l’Argentina.
E arriva l’Inter. 
Adriano sbarca a Milano (accompagnato dalla nonna, sempre lei), nell’estate del 2001, grazie a uno scambio con Marcos André Batista Santos, detto Vampeta, ricordato come uno dei più grandi bidoni della storia nerazzurra, oltre che per la sua pettinatura anni Trenta e il baffo alla Clark Gable e per aver posato discinto per una rivista gay. 
Tutti lì a chiedersi chi diavolo sia questo Adriano, lì che di attaccanti fenomenali, Fenomeno compreso, hanno gli occhi pieni; e in qualche caso anche le tasche piene. Ma mai piene come per Vampeta, perciò, chi sia sia, questo Adriano per tutti meneghini ha già un merito, quello di aver agevolato il ritorno in patria del centrocampista suo connazionale.
 
Sì, ma chi è questo Adriano? 
Il 14 Agosto la risposta col famoso gol al Real. 
Il 9 settembre, poi, l’esordio in serie A, quando subentra a Nicola Ventola, nella trasferta di Parma, conclusa sul 2-2. 
Il 16 settembre la risposta definita, col suo primo gol (siglato al 93simo), che consegna, ai meneghini la vittoria nella sfida col Venezia.
Quindi, il buon debutto in Europa: scende in campo nella partita del 20 settembre contro il Braṣov, valevole per la Coppa UEFA.

E a San siro si comincia a cantare:
Che confusione
sarà perché tifiamo
Un giocatore
che tira bombe a mano
Siam Tutti in piedi
per questo brasiliano
Batti le mani
che in campo c'è Adriano…
 
Adriano è ora l’imperatore!
Sono giorni di gloria, benedetti dal successo e dal denaro. Benedetti da Dio, direbbe lui. 
La sua famiglia va a trovarlo e lui scopre cosa vuol dire essere un giocatore dell’Inter ed entrare nelle grazie di Massimo Moratti.
Meglio che la racconti lui:
“Mi ricordo quando tutta la mia famiglia veniva a trovarmi da Rio e quando dico tutta la famiglia mi sa che non capite bene cosa voglio dire. Intendo la mia famiglia. Alla brasiliana. Non stiamo parlando di mamma e papà, stiamo parlando di 44 persone! Cugini, Zie, Zii. I miei amici. 
Su quell’aeroplano c’era tutto il vicinato.
La voce era arrivata anche al Presidente, che ha fatto noleggiare un intero pullman. Uno spettacolo. È stata una festa. Questo è il motivo per cui non parlerò mai male di Moratti o dell’Inter. Tutte le società dovrebbero essere così. Lui si preoccupava per me come persona”.
 
Va tutto a meraviglia, ma gioca poco rispetto alle sue potenzialità, che l’Inter vuol sapientemente ottimizzare. Perciò, nel mercato di gennaio, viene ceduto in prestito alla Fiorentina.
 
A Firenze scopre quanto sa di sale lo pane della retrocessione. 
Se si chiede a un tifoso viola quale sia stata la più dura stagione in assoluto, probabilmente non avrà dubbi nel rispondere che è stata quella del 2001-2002.
La situazione del club è difficile, bisogna far cassa e quell’estate vengono venduti i pezzi migliori (Repka, Rui Costa e Toldo), smantellandosi di fatto la colonna vertebrale di una formazione, che solo poche settimane prima aveva vinto la Coppa Italia. Pertanto, a gennaio si cerca di correre ai ripari, l’allenatore Roberto Mancini vuole e ottiene, seppur in prestito, Adriano; anche se non fa in tempo ad  allenarlo, perché in questo stesso frattempo il Mancio si dimette. Lo accoglie Luciano Chiarugi.
Il brasiliano si presenta in buona forma e, già due giorni dopo il suo arrivo, viene schierato titolare in casa dei Chievo, al fianco di Nuno Gomes. I veronesi sono avanti 2-1, quando proprio Adriano, ad un passo dal triplice fischio, con un gran colpo di testa trova la rete del pareggio. Una settimana dopo la storia si ripete: al Franchi il Milan è avanti 1-0, quando (siamo sul finale) Ezequiel Gonzalez serve Adriano, che di sinistro stoppa il pallone in area, resiste al contrasto di Costacurta, spazzandolo letteralmente via con una spallata, e trafigge Abbiati. Il popolo viola torna ad esplodere sugli spalti come non faceva da tempo e a credere che la salvezza non sia poi impossibile con un giocatore così in squadra. Una settimana dopo segna un altro gol straordinario contro la Roma, su punizione: un missile da 35 metri che non lascia scampo ad Antonioli e lascia stupito il giallorosso, ex di lusso, Omar Gabriel Batistuta, che di tiri potenti s’intende; la partita finisce 2-2.
Insomma, tre prodezze per soli tre punti: pochino. Segna anche nella sconfitta contro la Juventus e nella vittoria (l’unica in quel girone di ritorno) contro il Verona. Il 30 marzo successivo - destino  - proprio contro l’Inter, e al Franchi, arriva la sconfitta che sancisce una retrocessione tanto anticipata, quanto scontata.
L’avventura di Adriano in viola si chiude con sei reti in quindici partite giocate. Un bottino importante se si pensa al contesto nel quale vengono segnate. Era arrivato a Firenze per provare a salvare la Fiorentina e per dimostrare di essere un giocatore pronto per la Serie A: la prima cosa non gli riesce, la seconda assolutamente sì.
 
Forse adesso è pronto per prendersi l’attacco dell’Inter, a quel tempo - giova ricordarlo - uno dei club più ricchi al mondo. 
O forse no, forse la maturazione di quel succulentissimo frutto non è ancora completa, il ragazzone è ancora acerbo per i gusti di Milano. Ad Appiano si opta per la seconda teoria e Adriano viene dato al Parma (in compartecipazione).
Lì gioca due stagioni: dal 2002 al 2004 e con Adrian Mutu forma una coppia formidabile (la più prolifica del campionato 2002-03, anno in cui il Parma centra la qualificazione in UEFA).
 
E continua a volare, dico letteralmente, perché è ormai un punto fermo della nazionale. Nel giugno del 2003 gioca, in Francia, la Confederations Cup (torneo funestato dall'improvviso decesso in campo del camerunese Marc-Vivien Foé, durante la semifinale tra Camerun e Colombia). Torneo sfortunato per il Brasile (fresco campione del mondo), che viene eliminato nella fase a gironi; un po’ più fortunato, invece, per Adriano, il quale si mette in luce per le reti segnate a Stati Uniti e Turchia.
 
L'anno dopo - stagione 2003/2004 - subisce un infortunio alla coscia, a Brescia; è il il 2 novembre del 2003 e fino a quel momento ha messo a segno 7 gol in altrettante partite. Si ferma fino al Gennaio 2004, rientra contro l’Udinese e fa gol. Gol col quale entra nella top ten dei marcatori emiliani in massima categoria (23 centri).
Adriano è pronto, l’aquila può finalmente osare là, dove solo le aquile osano: in nerazzurro. L’Inter se lo riprende prima del tempo, nel mercato di riparazione di quello stesso Gennaio, spendendo 23 milioni di euro, più il prestito dei giovani Eliakwu e Zicu. 
E in quella seconda parte di stagione, e secondo capitolo di sua avventura all’Inter, risulta un assoluto protagonista. Col tecnico Zaccheroni, capace di favorirne la coesistenza con Vieri nel ruolo di centravanti, sigla 9 gol in 16 partite ed è il match winner della sfida proprio contro il Parma (che determina il sorpasso in classifica alla penultima domenica) e archivia il campionato con una doppietta all'Empoli, che garantisce un biglietto per la Champions League.
 
Adesso l’aquila svetta nei cieli dorati del calcio d’élite, adesso nonna Vanda può godersi il suo nipotone all’Inter, papà Almir ha un campione planetario in casa. Anche se vive lontano, padre e figlio sono costantemente in contatto, sono legati dallo stesso sangue, la stessa storia e gli stessi amori: calcio, Dio, famiglia.
Le sue ali sembrano possenti quanto le su gambe, tuttavia il peso del successo comincia a scalfire, come gocce d’una pioggia che sembra salvifica ma che cela acidità, l’animo fragile della capinera.
Ma lui continua a volare, perché per ogni momento di difficoltà c’è sempre sua nonna e ci sono sempre i consigli del padre. 
 
Fino a quegli assurdi nove giorni, dove Adriano scopre quant’è sottile il confine tra inferno e paradiso, come possa un aquila arrivare sul punto più limpido e alto del cielo e poi precipitare giù.
Nove giorni che affido alle sue parole: 
“Nel giro di nove giorni, sono passato dal giorno più felice della mia vita al giorno più brutto, dal paradiso all’inferno. Il 25 luglio del 2004 gioco la finale di Coppa America contro l’Argentina. Tutti i brasiliani si ricordano di quella partita. Erano gli ultimi minuti e stavamo perdendo contro quei bastardi. Avevano iniziato a prenderci in giro e a provocarci cercando di farci perdere la testa per perdere ancora più tempo. Luis Fabiano voleva fare a cazzotti con tutti. Il resto è una poesia. Un film. Una canzone. Non lo so cos’è, ma non può essere vero.
La palla spiove in area. Confusione. Corpi. Gomiti. Non vedevo un cazzo. Se guardate il video, vedete che in realtà avevo allargato il gomito per colpire qualcuno. Ma poi, all’improvviso, avevo la palla sul piede. Un regalo dal cielo.
Ho pensato, Oh, vieni qui bellissima figlia di puttana!
Vi mentirei se dicessi che sapevo dove volevo metterla.
L’ho solo colpita di sinistro, più forte che potevo. E buuuum! Un bacio agli argentini dal ciccione. Ha gonfiato la rete e non riesco a descrivere la sensazione che ho provato. Incredibile.
Era solamente il gol del pareggio, ma sapevamo che li avremmo distrutti. Sapevamo cosa sarebbe successo ai rigori. Ed è successo.
Eravamo noi i campioni.
E l’Argentina no.
Battere l’Argentina così, con quello che vuol dire per il mio paese, con tutta la mia famiglia che guardava … quello probabilmente è stato il giorno più bello della mia vita.
Pensateci. Il ragazzo che veniva da quelle cazzo di favelas. Come faccio a non pensare che siano state le mani di Dio a lasciare il segno sulla mia vita?
Il 4 agosto, nove giorni dopo, ero in Europa con l’Inter. Mi chiamano da casa. Mi dicono che mio padre è morto. Un infarto.
Non mi va di parlarne, ma vi dico che da quel giorno il mio amore per il calcio non è stato più lo stesso. Amavo il calcio, perché lo amava lui. Tutto qui. Era il mio destino. Quando giocavo a calcio, giocavo per la mia famiglia. Quando facevo gol, facevo gol per la mia famiglia. Quindi, da quando mio padre è morto il calcio non è stato più lo stesso”.
 
E l’aquila comincia a scoprirsi capinera. Adriano è in Italia, dall’altra parte dell’Oceano, lontano dalla sua famiglia. La depressione comincia a bussare alle porte della sua “anima fragile” e inizia a bere tanto ed allenarsi poco. Vorrebbe solo andare a casa. Ma c’è una carriera da portare avanti, costruita anche coi sacrifici del padre. E della nonna. Nonna Vanda è lì e lo aiuta ad andare avanti. 
E lui va avanti, nonostante tutto, tra alti e bassi interiori, ma, almeno inizialmente, con la prepotenza del suo talento infinito. Perché, in fondo, è pur sempre un’aquila reale. Un imperatore.
 
Inizia la stagione 2004-2005, la prima stagione da imperatore (e non più principino), una stagione stratosferica. E triste, anche. Sotto la gestione di Roberto Mancini, debutta in Champions realizzando un gol in casa del Basilea; poi, la duplice marcatura nel ritorno concorre al punteggio di 4-1, che qualifica l'Inter per la fase a gironi; e fa tre gol al Porto agli ottavi. In campionato 
segna 16 reti (celebre il coast to coast contro l’Udinese). 
Fa pure due gol alla Roma, consentendo alla sua squadra d'ipotecare la vittoria in Coppa Italia. Ed è suo, infine, l'assist decisivo a Verón per la rete che vale la Supercoppa italiana, ai danni della Juventus (è il 20 agosto del 2005).
Arriva sesto nella classifica del pallone d’oro.  
Qualcosa però si è spezzato dentro di lui, sono le ali del suo cuore, del suo ardimento, della sua passione, del suo amore per il pallone e per la vita.
Lui stesso qualche tempo fa ha confessato: “Se devo essere onesto, anche se ho segnato tanti gol in quegli anni, anche se i tifosi mi amavano davvero, la mia gioia era svanita. Era mio padre, capite? Non bastava spingere un bottone per tornare me stesso”.
Sembra comunque spingerlo, quel bottone, nella Confederations Cup che si gioca nel 2005 in Germania. Adriano è capocannoniere della competizione, che vince andando a segno, ancora una volta, contro la rivale Argentina, nella finale di Francoforte.
 
Con questi alti e bassi, gioca da protagonista anche l’annata successiva, durante la quale contro il Villarreal (è il 29 marzo del 2006) segna la sua sedicesima marcatura in Champions League, eguagliando il precedente record stabilito da Mazzola. Quell’anno vince scudetto, Coppa Italia e Supercoppa italiana. Ma le panchine e le sostituzioni cominciano a moltiplicarsi, sia perché la concorrenza è sempre più spietata (adesso ci sono  Ibrahimovic e Crespo), sia perché lui risultata essere sempre più un ragazzo problematico. 
Problematico il suo stare in campo, problematico il suo approccio alla vita, problematico il suo rapporto con la stampa. 
I giornalisti si accorgono di quel ragazzone triste e non gli danno tregua, scrivendone di tutti i colori e assediandolo quasi fin dentro casa sua. Per fortuna, c’è la nonna. È lui a raccontarci un aneddoto che, per quanto possa risultare simpatico, è la misura della sua condizione a Milano, oltre che dell’amore protettivo di nonna.
 
“Una volta i giornalisti si fermarono sotto casa mia e non volevano andarsene. Mi sentivo in trappola. Mia nonna all’epoca viveva con me e sentii che stava in cucina mentre faceva bollire l’acqua sui fornelli.
Allora le ho chiesto: ‘Che succede nonna? Che stai cucinando?’
Lei mi ha risposto: ‘No, no. Non sto cucinando, amore’.
Però aveva un pentolone, di quelli che si usano per fare la pasta.
Ha detto: ‘Sto preparando un regalino per i nostri amici qua fuori … la devono smettere di rompere al mio bambino! Gli voglio dare una lezione’
L’ho dovuta calmare, faceva sul serio”.
Adriano è ormai entrato nel tunnel della depressione: alcol, feste, donne e poco campo.
 
Gioca comunque il mondiale del 2006, andando a segno contro Australia e Ghana. Ed è, di fatto, l’ultimo volo dell’aquila reale in verdeoro. Dopo, sarà un lento diradarsi di presenze e minuti, fino all'esclusione dalla lista dei convocati per il mondiale 2010 (fatale gli sarà un festino organizzato prima di un allenamento per le gare di qualificazione, protrattosi fino all’alba).
Il tunnel infatti si fa sempre più buio, non sembra esserci via d’uscita. 
Anche all’Inter la situazione precipita. Torna a segnare solamente il 23 dicembre del 2006, contro l'Atalanta, dopo un'astinenza realizzativa cominciata nel marzo precedente. Tutta colpa di una condizione fisica approssimativa che, unitamente a uno stile di vita tutt’altro che da atleta professionista, gli provoca continue esclusioni. L’imperatore è ormai un rincalzo: in quel campionato, comunque iridato per l’Inter, segna solo 5 gol.
 
Nell'estate 2007 rivela la sua dipendenza dall'alcol e la depressione. Rompe il suo fidanzamento con Danielle, conosciuta in un negozio di Rio qualche tempo prima. 
Sigla un solo gol nel campionato 2007-08, venendo poi ceduto in prestito gratuito al San Paolo. 
E così, la capinera se ne torna mestamente in patria. 
Trova un’accoglienza entusiasta: va subito a ruba tra i tifosi la maglietta ufficiale col nome Imperador e il numero romano X
Lì le cose sembrano migliorare: 17 realizzazioni in 28 incontri disputati. La forma fisica migliora, quella mentale pure, grazie a uno psicologo che lo aiuta a combattere la depressione.
Si sente pronto a ripartire. 
 
A prestito scaduto, torna a Milano, questa volta sotto la cura di Mourinho. Il tecnico portoghese è convinto di poterlo recuperare definitivamente e punta su di lui sin dall’inizio.
E all’inizio le cose sembrano andare bene. Durante la fase a gironi della Champions League 2008-09, va a bersaglio contro Panathinaikos e Anorthosis, divenendo il miglior marcatore del club nella manifestazione continentale. Con Ibrahimovic firma una coppia d’attacco che sarebbe leggendaria, se l’aquila non si fosse intanto trasformata in capinera; un coppia d’attacco che comunque sembra funzionare. Lui non è più quello dei tempi belli, ma la speranza che a poco a poco si stia riavvicinando a quei livelli torna ad albergare nel cuore di tutti, interisti e non.
Tuttavia non sono poche le volte in cui il tecnico lo redarguisce per la sua indisciplina. Fino alla goccia che fa traboccare il vaso: nell'aprile 2009 manca di rientrare in Italia, dopo che era stato convocato in nazionale (per l’ultima volta, a causa di quel famoso festino con compagni di squadra e un trans). Nessuno sa dov’è, neppure i brasiliani, suoi compagni di club.  
Ricompare in una conferenza stampa, che convoca proprio nella sua favela. E dice: “Non so ancora se starò per uno, due o tre mesi senza giocare. Ho intenzione di ripensare alla mia carriera. In Brasile mi sento felice, vicino ai miei amici, ai miei familiari. Non ho nulla contro l’Inter, però, non mi piaceva vivere in Italia, mi sentivo sempre oggetto di pressioni. Ho sopportato pressioni molto forti fin da quando avevo 18 anni. Chi è intelligente capirà la mia decisione. Non sono malato. Adriano non è morto, lo stavano ammazzando”.
La capinera piange, è triste, ha bisogno della sua gabbietta, dove si sente al sicuro, se non da se stessa, dalle pressioni del mondo. Che sono tante, perché il successo è l’unica cosa che nessuno è disposto a perdonarti.
Così, l’Inter risolve il contratto col calciatore. 
E si torna al Flamengo. Il suo Flamengo. Dove ri-debutta con gol e dove tira fuori una stagione da 19 reti (capocannoniere del torneo a pari merito con Diego Tardelli), che permettono ai rossoneri di trionfare nel Brasileirão. Al triplice fischio dell’ultima giornata è di nuovo in lacrime, ma questa volta sono lacrime di gioia. E si racconta: 
“Volevo divertirmi ancora. E diciamo che ci siamo divertiti. Vi dirò la verità sul Flamengo. Certe volte non andavamo agli allenamenti per giocare a calcio, ma semplicemente perché dopo si beveva. Non appena finiva l’allenamento, era subito festa, dritti al Mercado Produtor. Il giorno dopo in allenamento se qualcuno era veramente sofferente, c’era sempre qualcun altro che diceva: ‘Non ti preoccupare fratello. Lo vedo che sei fottuto. Corro io per te! Ti copro io’. Eravamo sempre insieme. E abbiamo vinto. Il primo campionato del Flamengo in 17 anni! Dai, è stato davvero speciale”.
Non è più lo stesso Adriano di un tempo, ma pare aver ritrovato l’entusiasmo perduto, anche se - come emerge da queste stesse sue parole - non ha perduto l’entusiasmo per la caipirinha!
 
Nell’estate del 2010 torna in Italia, firmando un triennale con la Roma: un fallimento! E’ sovrappeso, i tifosi lo accolgono con scetticismo e qualche sfottò di troppo (celebre lo striscione “Mo te gonfio”), totalizza 8 presenze e zero gol.
E contratto rescisso consensualmente già a marzo 2011.