Nell’immaginario collettivo, l’idea che la morte di uno sportivo popoli di straordinarie giocate gli stadi del Paradiso è quasi consolatoria.
È il modo di avvicinare a sé l’altra dimensione
, fors’anche di anticipare la nostra dipartita, per sentirci meno soli una volta di là, o forse perché già in noi, di quella, ci sono le radici. Perché un campione che lascia questa terra, così come un nostro caro, rende l’infinito un po’ più allettante, meno tenebroso.
Questa volta è toccato a Vialli, poco dopo Mihajlovic e poco dopo Pelè. Tre calciatori diversi tra loro, ma tre campioni che hanno riempito di entusiasmo le cronache calcistiche. Chissà se Rossi abbia già formato le squadre per il big match, per la grande abbuffata di colpi ad effetto, con Maradona già pronto a scaldarsi e tutti assiepati per il dopo partita. C’è sempre una sensazione di tristezza quando ci lascia un campione, uno che ha dato bellezza al gioco del calcio, allo sport praticato, uno che ha unito generazioni sotto la calotta del bello, ma è sempre chi splende che dà un calcio a quella stessa tristezza.

È la bellezza più che l’impresa a unire la gente, perché nella vita, nella nostra vita aggrovigliata di morte è sempre la felicità il carburante che muove il mondo. Lo diceva Dostoevskij: “la bellezza salverà il mondo”, non la malattia, non l’angoscia, ma è la bellezza a stamparsi nella memoria dell’uomo. “Era così bello, era così buono!” sono le espressioni più gettonate durante le esequie.
Dentro le lacrime c’è sempre un seme di bellezza che non muore, che spinge il pensiero a dimenticare gli errori, perché nell’uomo, se respira, è il positivo a sedimentarsi, quasi a implorare il buon Dio che su quello deve esprimere il giudizio.
Cos’è la vita se fosse solo angoscia?

Vialli me lo ricordo bene. Mi ricordo bene i suoi sorrisi, il suo sorriso in campo, quel sorriso che non gli ha permesso di sconfiggere il tumore, ma gli ha permesso di guardarlo in faccia, con rispetto, ma anche lucidamente, con la certezza che al di là del male c’è sempre una luce più forte, definitiva, infinita, contrapposta alla cattiveria finita del male.
Non ha mai fatto proclami, non ha mai detto che la sua battaglia sarebbe finita con la vittoria, ma ha sempre sostenuto quanto ci fosse di umano in quella malattia: le cose che contano, gli affetti, la famiglia, gli amici. È questo il testamento di Gianluca.

Certo, negli annali rimarranno i suoi 167 gol, gli scudetti vinti, le coppe alzate al cielo, la coppa campioni con la Juventus, i trionfi al Chelsea, ma nulla sono, rispetto alla determinazione, alla classe e al sorriso messi in campo.
Era il campione della squadra, mai il campione fine a se stesso; sempre a servizio del gioco, dell’armonia, del gruppo. Era un grande bomber, senza essere mai stato un goleador spietato.
Li ricordo i suoi errori sotto porta, ma ricordo anche quella personalità che non lo abbatteva nemmeno davanti ad un gol mangiato. Ricordo quando nella finale di coppa dei campioni saltò il portiere e noi esultammo pensando al vantaggio, mentre lui chiudeva troppo il tiro e la palla finiva sull’esterno della rete. Senza abbattersi, ripartiva incitando i compagni a fare meglio.

Era un acrobata dell’aria, come se non avesse peso, come se Dio gli avesse dato le ali: saltava di spalle alla porta e con un gesto di perfezione aerodinamica, chiudeva l’azione con una rovesciata che sembrava il gesto più naturale di questa terra. Che campione, che atleta, ma soprattutto che uomo, l’uomo che sapeva sorridere nel bene e nel male.
Parlavo in questi giorni con l’amico Raimondo Bonu, milanista simpatizzante del Genoa, e mi raccontava che più di una volta si ritrovò al Ferraris di Genova per assistere alle partite della Sampdoria di Vialli e Mancini, perché lì, diceva, “c’erano lezioni di calcio”. La classe oltre la bandiera!

Poi c’è quel gesto, quell’abbraccio con il gemello del gol, mister Mancini, quel gesto dove il campione piange, perché non esiste sensibilità più grande di un uomo che sa piangere, che riconosce l’amicizia, quel piangere che nasconde più di mille sorrisi, più di mille parole e più di mille gesti.
Così diceva Baudelaire: “non disprezzate la sensibilità di nessuno. La sensibilità è il genio di ciascuno di noi”.
Grazie Gianluca.