Esultare come un invasato per aver segnato “in zona Cesarini” oppure ritrovarsi a strillare come un bambino che non vuole uscire dal negozio di giocattoli o magari deprimersi per un rigore contro o per un evidente fallo a nostro favore e non fischiato da quel “venduto” dell’arbitro. Piangere di delusione o per la rabbia ma anche sentirsi ebbri di gioia e ritrovarsi pure a fare le cose più strane ed insensate.

In una parola: TIFARE

Ma il tifo cos’è? Potremmo osare, liquidando la discussione in modo semplice-semplice, definendolo (il tifo) come il frutto naturale di una quantità “n” di reazioni istintive, per lo più diverse da essere umano ad essere umano e che, dal primo vagito in poi, immagazziniamo e successivamente elaboriamo coadiuvati in questo processo di Tesi-Antitesi-Sintesi dall’influenze familiari e dall’ambiente in cui viviamo e cresciamo nei primi anni di vita e fino all’adolescenza. Ma c’è dell’altro…
Infatti pur essendo il calcio quasi sempre osservato e considerato dagli intellettuali in cachemire e con “la puzza al naso” come un esercizio belluino nonché abbastanza stupido (cfr acciughina Allegri in conferenza stampa dopo Juve-Atalanta del 2019: “il calcio è un gioco stupido per persone intelligenti”), c’è da dire che la sua universale popolarità e, segnatamente e soprattutto, la manifestazione di “appartenenza ai colori”, cioè IL TIFO, ha incuriosito addirittura un istituto di ricerca brasiliano il D’Or Institute for Research and Education che coordinati da Jorge Moll ha condotto una serie approfondita di ricerche ed esperimenti fino ad arrivare a sofisticate scansioni cerebrali che avrebbero evidenziato perfino le regioni del cervello interessate al complicato processo risultando, più o meno, le stesse che ci fanno sentire fame e sonno. Penso che, probabilmente, non è il caso di indagare ulteriormente sulla serietà dello studio compiuto dall’IDOR e dall’equipe di Jorge Moll e, per la sua attendibilità, ci facciamo bastare la pubblicazione dello stesso su “Scientific Report” nonché l’attenzione che gli è stato riservata in Italia da “Repubblica” (articolo del 3/12/2017 a firma Sandro Iannaccone). Del resto un “prego DOTTORE, si accomodi!” da sempre non si nega a nessuno e specialmente nel Bel Paese.
In buona sostanza e scientificamente, quindi, il tifoso altro non sarebbe che il naturale sbocco di seppure complicate intersecazioni di Biologia, Antropologia e Psicologia e, per non farsi mancare nulla, condite con un pizzico di influenza di contesto abitativo/territoriale e Familiarità intesa nell’accezione che la Genetica dà al termine.
Il Tifoso insomma, secondo alcuni scienziati buontemponi, che sono tali perché si divertono a mettere a dura prova le nostre scarne conoscenze scientifiche, ha impresso i propri colori “da tifo” in un polimero di alcuni nucleotidi codificati in una sequenza di base azotata che formano addirittura una doppia elica: Il DNA!!!
Ma ammesso e non concesso che sia cosi (e lungi da noi contestare la scienza)… allora perché un siciliano tifa Inter? E perché i calabresi possono essere Gobbi? E perché esistono inscalfibili enclavi rossonere in Puglia?
Non stiamo ovviamente parlando di residenti di seconda generazione, quelli cioè che o sono stati sradicati in periodo neonatale dalla loro terra d’origine oppure, addirittura (e sono la maggioranza), non conoscono minimamente la città in cui sono nati mamma e papà se non per averci passato dei brevi periodi di vacanza d’estate o a natale. Per restringere il target e provare a capirci qualcosa dobbiamo invece orientarci sia sugli emigrati (quindi genitori e non figli) ma anche su quelli che la lacerazione violenta dalle proprie radici  non l’ha mai dovuta subire.

Per i primi, gli emigrati, forse (ma sempre col beneficio del dubbio) la questione potrebbe essere riconoscibile e spiegabile; la “illuminata” vulgata comune fa quindi discendere l’appartenenza al tifo “acquisito” come senso di riscatto ed integrazione da chi è stato estirpato violentemente dai luoghi natii. Sempre seguendo questo filo logico coloro i quali sono stati costretti all’emigrazione negli anni del boom hanno sposato l’appartenenza alla Juve (o all’Inter e al Milan) prima  ancora di trovare occupazione lavorativa. Questi gobbi, o casciavìt o bauscia, non hanno aderito al tifo per il blasone del club o, meglio ancora, per la simpatia/empatia dei colori, ma si sono semplicemente adeguati alle scelte dei “pionieri” de noantri, di quelli cioè che facendo da apripista nella grande metropoli del nord hanno fatto trovare a quelli che via via arrivavano, un pezzetto della loro terra d’origine, un posto in cui addossarsi l’un l’altro, per riscaldarsi come i celebri cow-boy del Wyoming quando trasportavano le mandrie da uno stato all’altro.

Va da sé che questo convogliato conformismo sportivo collide, ma sarebbe cronologicamente più corretto dire “collideva”, con la libertà  di scegliere autonomamente ed individualmente la squadra prediletta. Credo sia abbastanza cinico ma ritengo ugualmente che vada comunque detto che “il palazzo del potere” ha visto sempre di buon occhio nonché agevolato il formarsi di queste “sacche di tifo” arrivando, in maniera assolutamente offensiva, ad identificarle con un gregge di pecore belanti, senza identità e dunque facilmente indirizzabili e governabili.  I nuovi tifosi facevano il “loro” gioco sia politicamente che economicamente; un “panem et circenses” dei boomer o, se preferite, un Feste, Farina e Forca,  borbonica memoria del “re lazzarone”.

Abbiamo forse dato sinora i natali (ma sottolineando forse, beninteso) e pure qualche spiegazione di tipo pseudo-antropologico, magari supportandola con un minimo di dati storici e pseudoscientifici, sulla nascita della mancanza di appartenenza territoriale del tifo. Ma se trasliamo ad oggi discorso e motivazioni siamo certi che queste reggano? Perché un nato nel 2000 (o nel 2022) si scopre di fede nerazzurra (i colori sceglieteli senza remore)? Non è  più, certamente, un emigrato del profondo sud in cerca di riscatto o d’integrazione etnica. Né possiamo teorizzare che su di lui, magari, influiscano il territorio in cui vive o il ceto sociale di provenienza, perché lo stadio è un luogo in cui ci s’incontra e non possiamo che considerarlo uno dei luoghi “inclusivi” per eccellenza, dove le diversità, quelle che abbiamo sin qui descritto, vengono superate ed abbattute…almeno per 90’.
Mode, omologazione all’altrui sentire e magari trovarsi a vivere epoche di dominio calcistico di un determinato club sicuramente influiscono nella scelta del cuore, ma la spiegazione claudica e non è esaustiva perché il tifoso che segue la moda della squadra che vince, magari dominando in quel preciso periodo, quando però affronterà la fase negativa, quella provocata dal buio delle sconfitte, non avrà alcuno scrupolo a voltare le spalle ai suoi ex idoli, arrivando magari, addirittura, a cambiare pure casacca come il peggiore dei voltagabbana.

Il tifo, quello vero,  significa invece perdere veramente la testa per quella squadra, per lei fare sacrifici e provare una passione che divora; sentirsi “di più” o, all’opposto, “di meno” quando puoi o non puoi seguirla; significa condividere un destino comune con chissà quante altre persone che nemmeno conosci e mai conoscerai!
Forse però, sforzandoci di ragionare molto semplicemente, magari riusciamo a capire perché un napoletano arrivi a tifare Milan o un palermitano Inter anche ai giorni nostri. Certo, magari sarà stato “folgorato” da un dribbling di Kakà o da un tiro di Zidane, da un lancio di Platini o da una “foglia morta” di Mario Corso, dallo charme dell’Avvocato o dal decisionismo rampante del Cavaliere o, forse, è stato il vocione  dalle parole indistinguibili di Moratti ad averti affascinato. Ma loro passano! Passano giocatori e presidenti, allenatori e top-player e, a mano a mano, ti rimarranno nella mente e nel cuore solo tre, indimenticabili, cose: il Nome della squadra, il suo stemma ed i suoi colori. Solo questi tre elementi, o almeno, uno di questi ti resterà dentro senza che tu sappia il perché.
Tutto molto romantico, troppo romantico.
Abbiamo infatti rappresentato il tifo dei nostri giorni, quello 2.0, solo come una cosa irrazionale ed istintiva, anche una valvola di sfogo o una consolazione ai dispiaceri, un “umano” prender l’armi contro il mare di triboli della vita e disperderli roteando una sciarpa. Appunto una scelta solo irrazionale. Abbiamo però anche “annotato a margine” che, in definitiva, Napoli a parte, non c’è mai stata una squadra del meridione che abbia assicurato nel “lunghissimo periodo” una continuità di risultati e di frequentazione delle zone alte della classifica tale da poter far crescere in modo naturale una generazione ampia di tifosi e, con la stessa naturalezza, tifosi figli di tifosi. In tal modo, cioè a causa della discontinuità di risultati di livello alto o almeno medio/alto, al sud si è persa la possibilità d’essere tifosi del club del proprio campanile. Dobbiamo aggiungere per completezza che nel bacino di tifo, per così dire, senza padrone ha pescato facilmente la pay-tv che è stata lesta ad individuare (e trasformare) il  probabile tifoso in…più che probabile utilizzatore del prodotto calcio! D’altronde la visione, tutt’altro che miope, delle TV a pagamento è stata corroborata, ed invogliata a proseguire su questa traccia di percorso, dai vari report statistici all’uopo commissionati; fra i più noti ce n’è uno di IPSOS (La serie A nel XXI° secolo….) che indica la percentuale di accaparramento delle grandi storiche del nostro calcio, manco a dirlo, Juve, Inter e Milan, che da sole conquistano il 66 % dei tifosi nati dal 2000 in poi che vengono trasformati, con un continuo bombardamento social, in “risorse” da sfruttare economicamente; nel tentativo di sdrammatizzare possiamo dire che all’alba del terzo millennio ha visto la luce un nuovo esemplare di appassionato di calcio: IL TIFOSO DALLE UOVA D’ORO . Non dimentichiamo mai, infatti, che le squadre, grandi e piccole vedono chiaro e distinto stagliarsi all’orizzonte, come una stella polare che guida il loro cammino, il profilo della prelibata torta dei diritti televisivi…non certo un “argent de poche”!

Possiamo quindi dire che la domanda finale da porsi è la seguente: sopravvive ancora, magari anche stentatamente, la possibilità di sfuggire a questa forma estrema di oligopolio di “tifo telecomandato” o siamo condannati a subirla sempre di più questa restaurazione calcistico-tecnologica?
Ci è ancora concesso di scegliere i colori per cui siamo felici di fare “cose da pazzi” o continuando a delocalizzare e globalizzare selvaggiamente anche il calcio finiremo col vedere i nostri figli tifare per il Vissel Kobe (con tutto il rispetto) perché il microchip virtuale così gli ha ordinato?
In ogni caso sono sicuro che noi tifosi, senza distinzione di casacca, avremo tutti le lacrime agli occhi!