La stazione di partenza
Spesse volte abbiamo la tendenza, che potremmo tranquillamente definire “abituale”, ad essere indulgenti nei confronti di noi stessi ma, di più, anche giustificativi in modo obiettivamente allarmante, verso tutti i nostri esecrabili atteggiamenti (trascurando solo quelli che perfino noi giudichiamo veramente indifendibili), scaricando immoralmente sugli altri o, al limite, sull’ineluttabilità del fato, i rari ed eventuali (nostri) errori comportamentali. E non nascondiamoci dietro il dito dell'ipocrisia... è un esercizio che facciamo un po' tutti magari senza raggiungere livelli patologici ma, specchiarsi narcisisisticamente e dirsi che siamo "i più belli del reame" ci rende la giornata più allegra, giusto?
C’è da aggiungere che questo modus operandi lo viviamo in modo “assolutamente naturale e più o meno superficialmente consapevoli”, ed a volte addirittura senza rendercene minimamente conto.
Contemporaneamente, e seguendo inconsciamente questo per noi innato percorso, siamo portati ad ingigantire fino ad elevarla a livelli di magnificenza, qualsiasi cosa che sia frutto del nostro lavoro senza tenere in nessun conto la valutazione che “il resto mondo” dà  a questa nostra produzione fisico-intellettuale perché, parafrasando liberamente ed erroneamente Goldoni, siamo pervicacemente convinti che tanto… Così fan tutti. Solo, però, che questa nostra attività, descritta in modo superficiale ed a spizzichi e bocconi, altro non è (ad essere crudi e sinceri) che una manifestazione psicopatologica caratterizzata da un esagerato apprezzamento di sé e delle nostre capacità; è cioè, molto semplicemente, un tragicamente frequente (questo sì) disturbo della personalità.
Ed ha pure un nome: megalomania. Abbiamo la tendenza, in parole povere, ad assumere un atteggiamento di superiorità verso gli altri, a competere in maniera parossistica ed a cimentarci in imprese sproporzionate rispetto alle nostre vere forze, divorati come siamo, da un  “desiderio patologico” e dalla continua necessità di sentirci degni di ammirazione, vivendo perciò in un permanente status di eccesso maniacale. Però, per ottenere la “perfetta quadratura del cerchio”, manca ancora qualcosa. In questo stato di alterazione permanente è assolutamente indispensabile, infatti, sminuire fino alla derisione il lavoro altrui e ovviamente anche chi lo ha realizzato!

E, passando da una patologia all’altra, se il megalomane vive e si sublima nel “sempre più in alto” c’è, vicino a lui (al megalomane), qualcun altro che dà del “tu” al potere immaginifico della bugia: il mitomane.
Il mitomane, nel suo continuo andirivieni fra realtà vera e presunta si convince, per così dire, che ottenere quel che desidera che avvenga e si realizzi, sia tutto sommato abbastanza facile… in fondo in fondo è sufficiente mentire con convinzione, basta, appunto, credere fortemente nel potere assoluto e salvifico della bugia. E’ superfluo dire che (purtroppo) megalomani e mitomani sono convintissimi della via intrapresa dato che, non possiamo dimenticarlo, entrambi i sostantivi hanno una parte della parola stessa che li accomuna e li condanna: mania!

Quindi, sia il megalomane che il mitomane, in questa continua manipolazione della realtà, ottengono entrambi (o, meglio, provano ad ottenere) lo stesso risultato, ovvero l’esaltazione di se stessi attraverso la “creazione della bugia” ed hanno bisogno, perché quanto detto si concretizzi, di un impianto scenico quanto più schematico possibile, che veda inseriti, in questa sceneggiatura vivace ed elementare, quasi scheletrata, solo tre “personaggi”: la bella, il cattivo e… il buono, il tutto compreso in una metafora elementare che rappresenta in sequenza: il mio obiettivo, il mio avversario di turno e...me stesso.
Non vorrei essere giudicato blasfemo, ma facendo uno sforzo pressoché minimo mi accorgo che esiste una forma teatrale che include grosso modo tutto quello di cui ho parlato fin qui: la sceneggiata napoletana! Sempre tre soli personaggi principali (perché gli altri, di contorno, contano meno di nulla), che hanno il compito non arduo, perché siamo già predisposti ad esserne travolti, di suscitare in noi emozioni irrazionali; e le chiavi di lettura sono sempre le solite: la grandezza  delle azioni del buono/eroe positivo (leggi “megalomania”), la manipolazione della verità di quelle stesse azioni (leggi mitomania) e, per finire, la derisione e la distruzione fisica del cattivo.

La teatralità
Semplifico troppo ed esagero? Chiariamo onde evitare incomprensioni e facili allusioni: detesto il genere e quindi ne farei tranquillamente a meno…però nello stesso tempo devo ammettere, a cuor ferito, che sicuramente questo tipo di rappresentazione sociale conta un seguito inaspettato e ben più importante di quanto sia lecito presumere.
Non molto tempo fa infatti, l’indiscutibile NYT ci avvertiva  che il presidente Trump, durante le sue rilassanti vacanze estive in New Jersey, per ritemprarsi aveva “in cima alla lista dei preferiti” proprio la visione attualizzata della sceneggiata italiana: Gomorra! Ed, entrando nel dettaglio, ci veniva pure riferito con enfasi, quanto il presidente fosse interessato agli intrecci fra criminalità e violenza e di come questo dualismo sfociava in odio tra coloro che, fino all’inquadratura precedente, si chiamavano vicendevolmente “fratello”; ma anche di quanto risultasse repentino il movimento di subordinazione (potremmo dire una inversione di fatto) fra valori nobili che tutti riconosciamo e nuove regole d’onore che di onorevole hanno proprio nulla (cfr rubrica Spettacolo Sky tg24 articolo Veronica Rafaniello del 24/8/2017)!

Di certo il gradimento di Donald Trump  per questo tipo di arte e per questa raffigurazione “pro domo nostra” della realtà (se prendiamo per certo quanto detto nell’articolo dalla giornalista di Sky) è solo uno degli ultimi eclatanti casi in cui i potenti s’interessano ad una, per così dire, forma deviata della verità.
Procedendo infatti a balzi secolari… forse l’adozione di questa realtà “rivisitata” iniziò con Pausania e la sua “presunta” lettera inviata a Serse in cui si promettevano liberazione di prigionieri e matrimoni d’interesse in cambio di un tradimento che avrebbe consegnato “di fatto” le città greche ai persiani (tra verità e leggenda, forse, Pausania pagò caramente questa amichevole e conciliante e-mail dell’epoca visto che fu murato vivo)…saltando qualche secolo, bisogna porre un accento alla “donazione di Costantino” che, per ringraziare papa Silvestro dalla guarigione dalla lebbra aveva a Questi “regalato” 1/3 del suo impero. A questa fake-news, del resto, aveva creduto persino Dante sublimando il fattaccio nel XIX canto dell’inferno! E così, saltellando di secolo in secolo giungiamo al pluricitato Goebbels e alle sue tragicamente note 10, 100, 1000 ripetizioni di bugia che diventano verità per il popolo che può finalmente sentirsi appagato e acquietato nella sete di grandezza sua e/o dell’eroe in cui si identifica  (pare che il famigerato ministro del III° Reich abbia anche detto che “la verità è il nemico mortale della menzogna e, di conseguenza, la verità è il più grande nemico dello stato”…e questa, personalmente, mi sembra un po’ peggio).

Il facile approdo
Poteva mai una visione della realtà, così retoricamente esasperata e continuamente manipolata fino, in taluni casi, a diventare grottesca non trovare porto di facile attracco e travasarsi nel mare magno dello sport? Potevano esser previste difficoltà di attecchire in un mondo dove il primeggiare (e, si badi bene, a qualsiasi livello!) …è l’unica cosa che conta?
Risposta scontata e da non commentare. De resto, se riavvolgiamo brevemente il nastro, ci vengono in mente subito, quasi naturalmente, il linguaggio retorico in modo esasperato usato ed abusato nelle telecronache delle partite di calcio (Carosio descriveva le partite in radiocronaca ed era “costretto” e quindi giustificato ad utilizzare un vocabolario immaginifico ed  empatico…ma i telecronisti di oggi? Vabbè…); oppure possiamo soffermarci sulle giustificazioni risibili e grottesche addotte dagli assuntori di doping quando vengono beccati con le mani nella marmellata delle varie pillolette multicolori o dell’EPO; ma a sostegno del ragionamento possiamo pure “fotografare” l’incomprensibile adozione in “modalità Bandiera”, che riserviamo a quegli eroi dello sport con cui inopinatamente ci identifichiamo, dimenticando distrattamente che i nostri mondi, il nostro ed il loro, appartengono a sistemi solari profondamente differenti, talvolta incompatibili e che, nella vita reale e nel quotidiano, raramente comunicano tra loro.
Non si tratta di fare di tutta un’erba un fascio, perché anche nello sport esistono ed operano persone degnissime ed intelligenti, ma negare che una parte non trascurabile di atleti e dirigenti, enucleati dal loro microcosmo, d’incanto diverrebbe poca cosa… mi sembra proprio disconoscere la verità fattuale per quello che in effetti è…in taluni casi “brutta ed avvilente”.
Se poi ci focalizziamo sul “mondo calcio” e per una fortunata congiunzione astrale riusciamo pure a spogliarci per qualche istante dell’amore viscerale che ci lega alla nostra squadra del cuore e, dopo esserci fatta una bella risata (o un pianto dirotto, è uguale), ci mettiamo al microscopio della razionalità, siamo ancora in grado di giustificare esternazioni variopinte come… “Una Pattumiera per cuore” (Gigi Buffon), un “Tutti fuori!!!” (zio Fester Galliani) o, per finire, ”Polsi con manette (Mou)”?  
Obiettivamente tre “recitazioni” all’apparenza diverse, interpretate da  tre “attori” profondamente differenti l’uno dall’altro ma che, alla fin fine, sia negli uni che negli altri, provavano semplicemente (tanto per cambiare), a manipolare la verità e si cercava (anche qui…tanto per cambiare) di scaricare, in modo inaccettabile ed ingiustificabile, solo colpe proprie.
Non è un caso se ho usato “recitazioni ed attori” perché, tre scene cosi, potevano essere inserite a pieno titolo in un qualsiasi dramma del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett, dove c’è il rifiuto di un linguaggio logico-consequenziale e siamo anche in presenza di azioni e dialoghi che ci risultano sconnessi, insensati e vuoti comunicativamente ribaltando, in tal modo, ogni regola teatrale.

Breve nota a margine: considerato il momento e l’attualità di uno spinoso caso, ho scelto, non certo per dimenticanza, di non commentare il delirio di onnipotenza di cui si nutrono dirigenti e manager del pianeta calcio; ci sarebbe sembrato quasi un voler sparare sulla croce rossa.

L’ultimo miglio
Qual è l’ultima pennellata che manca affinché l’affresco che dovremmo chiamare “liberi tutti” (di sentirsi autorizzati a dire “la qualsiasi e di comportarsi scappando, a gambe levate, dalle responsabilità) si completi perfettamente? Ovvio… l’intervento in modalità “arma totale” dei frequentatori seriali dei social media… i webeti.

Al di là dell’attribuzione di paternità di questo meraviglioso neologismo (fra Mentana e Bartezzaghi ci renderebbe felici se questo “sostantivo mitologico” fosse stato coniato dal secondo), quello che in definitiva affascina è proprio che la parola webete rappresenta contemporaneamente sia la conclusione del viaggio estenuante dei modificatori della realtà, che la parte maggioritaria del totale dei fruitori risultando perciò la sintesi perfetta delle infinite prospettive che l’uso di internet e quindi della sua memoria artificiale contiene in sé, ivi compreso il seguito di violente discussioni di accompagnamento fra le opposte fazioni ed i loro rispettabilissimi ma opinabilissimi punti di vista; semplificando i quali ci domandiamo: Internet è il più grande fenomeno democratico mai apparso al mondo o, all’opposto, lo dobbiamo considerare una “lieve dittatura silenziosa”?
Umberto Eco, riassumendo (noi) a linee molto grosse, sosteneva che la cultura, nella sua più elevata accezione, è quella cosa che ti permette di capire quale sia, fra le mille possibilità a nostra disposizione, la risposta corretta a quel quesito che ci poniamo una sola volta nella vita, per cui Internet è proprio quell’enciclopedia che tutte le risposte contiene e, proprio considerando l’immensa mole delle risposte, perciò uno dei problemi da affrontare sicuramente “non è solo legato all’abbondanza delle informazioni, ma anche alla possibilità di selezionare la loro attendibilità…Ancora una volta la questione fondamentale riguarda il filtraggio, non nel senso di censura esterna o politica, ma come senso della responsabilità personale…su questo piano io, come moltissimi altri, navighiamo verso il futuro con tante legittime preoccupazioni e con poche soluzioni da suggerire” (intervista all’Università di Pisa del 16/09/2004).  

Con un incipit del genere (soprattutto l’impossibilità di verificare l’attendibilità delle informazioni) la genesi del “webete” (definiamolo dalla Treccani: utente che frequenta Internet mostrando faziosità e ignoranza nei suoi interventi tramite social network, forum, blog, ecc.) è stato quindi un parto assolutamente indolore e il di lui figlio, il “webete sportivo” ne è, logicamente una delle, se non addirittura… la massima e più riuscita espressione. Per loro, avere a disposizione il web, è stato come per un bambino capriccioso entrare in uno sterminato negozio di giocattoli e dare libero sfogo alla sua mania (ci risiamo) di acquirente compulsivo; per di più, sentendosi libero di scrivere qualunque nefandezza, avendo la (quasi) certezza di essere praticamente svincolato da ogni tipo di valida censura che lo possa in qualche modo ostacolare e tantomeno bloccare.
Non so se siamo di fronte ad una triste rappresentazione ma, ve l’ho detto nel titolo… è tanto per svagarci e quindi “Era caduto nelle tenebre e, come lo seppe, cessò di saperlo”.