Le donne… 
Dopo aver vissuto un lungo periodo di immensa popolarità grazie al successo  di “Chi ha incastrato Roger Rabbit” e la saga completa di “Ritorno al futuro”, nel 1992 Robert Zemeckis consegna alle sale cinematografiche “La morte ti fa bella”.  E’ una black comedy scritta da Martin Donovan e David Koepp, discreto film, ma niente a che vedere con i precedenti che hanno segnato un’epoca. 

Gli sceneggiatori, purtroppo per l’ennesima volta nella storia del cinema, tirano fuori dalla polvere il canovaccio trito e ritrito del bel maschio (Bruce Willis) conteso da due donne (Goldie Hawn e Meryl Streep, entrambe peraltro bravissime) talmente diverse tra loro da essere praticamente… uguali. Durante i 100 abbastanza noiosi minuti di durata della pellicola, lo spettatore assiste inerme allo stucchevole accapigliarsi del binomio femminile (con annesso elenco completo di tutte le nefandezze possibili ed immaginabili prodotte dal contorto scibile umano) che ovviamente beneficiano di fortuna alterna nell’affannoso tentativo di superarsi l’un l’altra, e di default vede le novelle arpie, Hawn-Streep, valicare senza soluzione di continuità, sfacciatamente ed immoralmente qualsiasi ostacolo si frapponga al raggiungimento del loro obiettivo; che però, e questo è il vero “coupe de theatre” del film di Zemeckis, non è più quello originale rappresentato dalla conquista del metaforico scalpo del conteso “Maschio non-alfa” (il povero Bruce Willis che impersona, non a caso, un chirurgo estetico) ma invece si è trasformato ed è divenuto il tentativo di sconfiggere in maniera definitiva il quanto mai umano incubo di invecchiare e, alla fine della lunga battaglia, di morire. E per questa ragione, restare “per sempre” attraenti, affascinanti ed… immortali, le nostre eroine negative non si fanno scrupolo di compiere anche il passo decisivo verso il punto di non-ritorno ed accettare infine, dalle mani dalla fattucchiera di turno… l’elisir di lunga vita.

I cavallier…
Ma anche i maschi…
E chi più di Achille, il più celebre fra gli eroi sia greci che troiani cantati da Omero, incarna, per antonomasia, la figura del guerriero invincibile da quando mamma letteratura è nata? Figlio di Peleo e Tetide, nel vano tentativo di renderlo immortale, viene immerso dalla madre nello Stige. Secondo la leggenda viene affidato al centauro Chirone che gli insegna tutto quel che c’è da sapere per essere insuperabile nelle conoscenze più varie e singolari, ma anche di essere dotato di una ferocia quasi animalesca (la famosa ira funesta) che lo rende imbattibile nei combattimenti; al punto che al solo apparire della sua armatura i guerrieri troiani fuggono terrorizzati.
In effetti di lui sappiamo tutto o quasi, anche che è bellissimo e quindi non è certamente una pura coincidenza che per interpretare il ruolo di “Achille piè veloce” nella versione cinematografica più recente (Troy di Wolfgang Petersen) sia stato scelto il bello hollywoodiano per eccellenza: Brad Pitt! Eppure questo personaggio nato dalla penna di Omero, bellissimo, coltissimo, sprezzante del pericolo… sta comunque antipatico ai più. Potremmo affermare con estrema sincerità che il re dei Mirmidoni è quasi il simbolo di quel tipo di persone che non si amano ma si temono; quelle che rispettiamo solo perché ci incutono una paura fisica! 
Confessiamolo serenamente: se fossimo in uno stadio, nel duello fra lui ed Ettore, che è proprio il suo opposto, generoso ed altruista, forte anche nelle debolezze dell’amore, che nutre teneramente verso il figlio e la sua dolce e devota Andromaca, faremmo tutti, o quasi tutti, il tifo per l’eroe troiano. Perché è “umano”! Per battere Achille, invece, ci vuole per forza qualcosa di soprannaturale e quindi la freccia scoccata da Paride  dev’essere guidata dai poteri di un dio, come in un videogioco, perché deve colpire l’unico punto vulnerabile dell’eroe greco.
La sua morte però, incredibilmente, ci sorprende ed arriva comunque inaspettata; e solo in quel momento, quando muore, proviamo “umanamente” pietà di un guerriero che ci appare sconfitto ma non vinto. Achille, a questo punto, ci diventa persino simpatico e ci intristiamo per la sua fine, al punto da dimenticare o addirittura “cancellare con un colpo di spugna” il suo passato e le sue truculenti efferatezze, come aver ucciso tutti e sette i fratelli della affettuosa Andromaca o aver trascinato e fatto scempio del corpo del suo fiero avversario.
Perché?

L’arme…
La morte di Sinisa mi coglie impreparato. E’ strano ma è così. Eppure sapevo, sin dall’insorgere della sua lunga battaglia contro la leucemia, e mi erano pure note le sue forti testimonianze, riportate  praticamente da tutta la carta stampata e dalle televisioni; no, non mi erano sfuggite distrattamente. Mi colpiscono altrettanto, ma solo fino ad un certo punto, le trasversali manifestazioni di cordoglio che arrivano da ovunque. Amici, colleghi, avversari, ma anche giornalisti e addirittura gran parte del mondo politico (e di quest'ultimo, sin troppo facilmente, comprendiamo la ratio). Ed anche ciò suona perlomeno strano. Perché questo campione (un grande campione sicuramente, ma non un top player) si è spesso schierato su posizioni decise, forti, che non contestiamo, ma certamente non condivisibili da tutti indistintamente.

Per tratteggiare sommariamente la complessità e la spigolosità del personaggio, cito “didascalicamente” da Wikipedia:
“dedicò (Mihajlovic) un necrologio al suo amico Zeliko Raznatovic (che era anche capo degli ultras della Stella Rossa, squadra in cui giocò Mihajlović), noto criminale serbo accusato di crimini contro l’umanità. Di Ratko Mladic generale accusato di genocidio disse: "Mladić? Un grande guerriero che combatte per il suo popolo".
Del governo di Slobodan Milosevic ebbe a dire: «Tra noi abbiamo sempre litigato, ma siamo tutti serbi. E preferisco combattere per un mio connazionale e difenderlo contro un aggressore esterno. So dei crimini attribuiti a Milošević, ma nel momento in cui la Serbia viene attaccata, io difendo il mio popolo e chi lo rappresenta».

Da calciatore, il 7 novembre 2003, fu squalificato per 8 giornate e condannato a pagare 12.300 euro di multa dalla UEFA per aver scalciato e sputato al rumeno Adrian Mutu, con l'aggravante della recidività, in Lazio-Chelsea di Champions League.
Durante la partita Lazio-Arsenal del 17 ottobre 2000, insultò il calciatore francese di origine senegalese Patrick Vieira; dichiarò successivamente di non esserne pentito, ma di non voler esser definito razzista. Per questo fatto la DIGOS presentò un esposto alla procura di Roma.
Il 28 maggio 2012, da CT della Serbia,
escluse Adem Ljajic dalla nazionale per la scelta di non cantare l’inno nazionale serbo da parte del calciatore, di etnia bosgnacca e religione musulmana.
Il 3 gennaio 2018, al termine della partita di Coppa Italia persa dal Torino contro la Juventus, venne insultato con epiteti razzisti dal deputato Massimo Corsaro, tramite un messaggio postato su Twitter; Mihajlović espresse l'intenzione di querelare l'onorevole milanese.
Nel finale della stessa competizione fu coinvolto in un diverbio con agenti di polizia che – a detta di Mihajlović – rivolsero insulti razzisti nei suoi confronti”.

Insomma, da questi fatti riportati e da tutti conosciuti si può affermare, con pochi dubbi di essere smentiti, che durante la sua intensa vita Mihajlovic abbia scelto, in maniera consapevole, di schierarsi su posizioni nette e recise, che pur non essendo da noi, lontani e non immersi in quella realtà, giudicabili (chi siamo noi per permetterci di farlo?), sono oggettivamente da considerare, talvolta altrettanto certamente, laceranti e perfino in grado di spaccare in due l’opinione pubblica.
Eppure la vicinanza unanime alla sua sofferenza prima e alla morte che lo ha colto poi, ripetiamo, è stata trasversale!
D’accordo, nel dolore di Sinisa non c’è mai stato pietismo, ma molta, tantissima “Pietà Cristiana”; quella profonda e vera (forse meglio “verista” come quella narrata da Verga in Rosso Malpelo e nei Malavoglia) che ci ha reso certamente tutti partecipi della sofferenza, comunque ci siamo ritrovati, più o meno tutti, vicini a quest’uomo forte e vero.
Però a ben vedere, probabilmente, c’è anche un altro aspetto da considerare…

Gli amori
L’amore per la vita o… la paura della morte?
Poche ore fa ci annunciano che è morto Pelè e subito si muove il mondo per ricordare la sua grandezza; ma, stranamente e altrettanto sicuramente, la notizia della morte del re del calcio non ha emozionato quanto quella di Mihajlovic; e lo notiamo e ci fa strano ancora di più visto che Sinisa scontava, a suo sfavore, una statura calcistica nemmeno lontanamente paragonabile a quella della “Perla Nera”.
Certamente per O’Rey la lontananza pluridecennale dai riflettori, l’età ottuagenaria, il decorso e la lunghezza stessa della malattia ci hanno dato una visione “normale” dell’esito, ed hanno anche influito non poco nel rendere “umana ed accettabile” la sua morte. E non ci ha fatto paura! Perché di questo si tratta, null’altro che, molto semplicemente, la paura della morte che qualsiasi essere umano teme e vive.

Ed allora la bellezza, il fascino, il voler essere “sempre desiderate” delle donne (e degli uomini) ed il non accettare in nessun modo il seppur fisiologico degrado del proprio corpo e addirittura, per salvare le stesse (bellezza, fascino…), noi Goldie Hawn, noi Meryl Streep, noi… saremmo persino disposte a fare un patto col diavolo se ci donasse l’elisir di lunga vita. Perché ormai è chiaro e ce ne siamo resi conto tutti indistintamente, sia uomini che donne: il corpo che ‘imbruttisce e si trasforma in peggio ci dà prima la percezione e poi la certezza che la vita, a poco a poco, si sta allontanando da noi.
Ed anche il campione, che si chiami Sinisa, Stefano o… “quello” che noi, dal di fuori, assistiamo ed adoriamo e che guardiamo trepidi come un “dio pagano sceso in terra a miracol mostrare”, anche “Lui”, se viene aggredito da una malattia devastante, ci viene, per così dire, "svelato" per quello che è ed è sempre stato... vulnerabile come tutti quanti noi. E solo adesso ci accorgiamo ed accettiamo che somiglia tanto, ma proprio tanto, all’omerico Achille colpito dal dardo che gli toglierà la vita. E proprio la tragedia del “nostro” eroe ce lo rende vicino ed umano. Allo stesso tempo, la sua sofferenza e quella umana morte, che non avremmo mai né immaginato né tantomeno considerato potesse sfiorare o colpire “Un Dio” in cui ci eravamo identificati (e che, diciamolo crudemente, viceversa ce ne importerebbe “giusto una mazza”)… quel tormento di cui siamo chiamati a prendere atto, in quell’istante preciso, ci toglie ogni forma di coraggio e contemporaneamente tutte le ingiustificabili certezze che avevamo avuto sino a quel momento (“Lui” vincerà la battaglia contro “il Male” perché “Lui” è speciale, “Lui" trionferà sicuramente e, se ce l’ha fatta “Lui”…dovesse capitare anche a me…ce la farò anch’io!!!).
Quell’esito mortale letteralmente ci sgomenta, ci separa dalla razionalità, ci fa persino dimenticare che ogni anno in Italia muoiono di tumore, nel disinteresse generale, 180.000 persone ed è come se, ripeto, anno dopo anno, sparissero Modena o Taranto, Reggio Calabria o Perugia… un dato terribile.
E quindi questa presa d’atto non abbiamo nessuna voglia di farla perché, con molta semplicità, ci mette a nudo, e mostra quel che in effetti siamo e saremo sempre: legati alla vita e sicuramente anche un po’ vigliacchi davanti alle difficoltà piccole o immense; umani e vulnerabili e addirittura confesso che non mi dispiacerebbe accettarlo e perciò voglio continuare a provare ad essere un po’ triste e un po’ allegro, ironico e qualche volta sarcastico, comico, perfino ridicolo e, se è possibile, tutte queste cose insieme per non avere rimpianti.