Francamente fa un po’ ridere osservare come tanti commentatori e addetti ai lavori, di fronte all’ufficializzazione della SuperLeague fondata da 12 tra le più importanti società calcistiche continentali e mondiali come alternativa alla Uefa Champions League, cadano dal pero (ma non sarebbe il loro lavoro inseguire e anticipare le notizie?) e si indignino, riempiendosi la bocca di frasi fatte e luoghi comuni come “il calcio del popolo”, “la meritocrazia dello sport”, “il tifo dei campanili” eccetera eccetera.

Era da almeno tre anni che questo progetto andava avanti in risposta al sempre più intransigente dispotismo della Uefa nella gestione del danaro proveniente dalla vendita dei diritti televisivi delle competizioni continentali per club, una cui sempre più cospicua parte rimane a Nyon, e all’evidente opacità nell’applicazione del Financial Fair Play, strumento utilizzato in modo sempre più politico dalla Uefa per penalizzare certi club e favorirne altri (uno, ricchissimo, su tutti), secondo logiche che di sportivo non hanno proprio nulla.
Ricordiamo che la Union of European Football Associations non è nient’altro che una società privata, di diritto svizzero, che nel lontano 1954 le tre federazioni nazionali di Italia, Francia e Belgio decisero di costituire per l’organizzazione delle competizioni per squadre nazionali continentali. Nel tempo vi hanno aderito tutte le federazioni nazionali europee e alcune anche non europee e il suo ruolo è cresciuto a dismisura, invadendo anche il campo dei club, con l’organizzazione di vari trofei continentali. Di questi tornei la Uefa gestisce i diritti, con l’impegno a ripartire il ricavato ai club. La Uefa, quindi, non è un ente pubblico, non ha poteri stabiliti dalla legge ed esiste solo in quanto i suoi associati le riconoscano una legittimazione. Liberamente i club di calcio aderiscono ai tornei da essa organizzati e liberamente possono decidere di non aderire più.
Questa situazione, che vedeva uno squilibrio sempre più marcato nella distribuzione delle risorse da parte della Uefa in danno dei club più importanti, ha quindi raggiunto un punto di rottura con la crisi economica scatenata dalla pandemia, che ha azzerato le entrate da stadio dei club e ridotto quelle da sponsor a livelli non più sostenibili, creando drammatici disavanzi di bilancio in queste società.

Per capire la dinamica di questa rottura, bisogna però partire da una considerazione di fondo tanto banale, quanto oggettiva: le società di calcio non sono tutte eguali tra loro, perché ce ne sono alcune che hanno un pubblico decine di volte superiore a quello di tutte le altre e che di fatto determinano il valore di mercato dei diritti televisivi continentali. In altre parole, questi club, con la loro storia e il loro radicamento sociale, hanno costruito nel tempo un vero e proprio patrimonio fatto di persone disposte a spendere danaro per vedere le loro partite: le loro però… Si parla di una dozzina di società che insieme raccolgono l’80% del pubblico e che per questo sono più ricche delle altre. Sono questi club che di fatto determinano anche il valore dei diritti televisivi delle competizioni nazionali cui partecipano, di cui beneficiano anche società che hanno tifoserie quantitativamente irrilevanti.

Queste stesse società hanno alimentato negli ultimi 20 anni la crescita esponenziale del settore, sia in termini di ricavi globali, sia in termini di costi, in particolare quelli del cosiddetto calciomercato, caratterizzato da transazioni sempre più onerose e ingaggi sempre più alti per accaparrarsi le prestazioni sportive dei migliori calciatori. Calciatori che poi i club sono anche obbligati a prestare gratuitamente alle federazioni nazionali perché giochino nelle competizioni tra squadre nazionali senza ricavare nulla.
Sono queste le società che in questo frangente storico nefasto rischiano più di tutte il fallimento, con debiti enormi, e sono queste le società il cui fallimento distruggerebbe l’intero sistema. Se infatti fallisce un club di campanile, sia con centomila tifosi, sia con un milione, poco cambia. Se invece fallisce un club con decine di milioni di tifosi, il valore del prodotto calcio cala drasticamente e ci perdono tutti.

Ebbene, di fronte alla situazione pesantemente sperequata descritta sopra, la ridicola risposta della Uefa alla richiesta di lasciare una volta per tutte la gestione dei diritti direttamente ai club è stata invece quella di allargare il numero dei partecipanti alla Champions League, cioè, di fatto, allargare la platea dei soggetti cui distribuire i proventi della vendita dei diritti, inventare un’altra competizione continentale per club di livello tecnico infimo, la Conference League, e imporre anche la Nations League delle nazionali, il tutto per aumentare a dismisura il numero delle partite di cui vendere i diritti, ma senza mollare l’osso e a tutto discapito dei suddetti club.

Mi sembra quasi ovvio che a tutto questo gli stessi club che di fatto creano il maggior valore del calcio continentale, sull’orlo del baratro, abbiano detto addio alla Uefa una volta per tutte. Perché l’obiettivo della SuperLeague non è – come qualcuno stupidamente sostiene – dar sfogo alla bieca avidità dei fondatori a scapito del merito sportivo (semmai di fronte alle nefandezze di Figc e Uefa possa ancora parlarsi di meriti sportivi…), ma salvare se stessi e tutto il sistema che la protervia e l’ingordigia di una società di diritto privato svizzera – la Uefa – stanno annientando. E quindi annientare la Uefa stessa se non cederà la gestione dei diritti.