Sono passati quasi 3 anni esatti dall’ultima volta in cui Gasperini uscì vittorioso da Liverpool con la sua Atalanta. Era il 23 Novembre 2017, e i nerazzurri fino a quel punto erano ancora considerati la cenerentola d’Europa; ma da quella sera al Goodison Park tutti si accorsero dell’Atalanta di Gasperini. Erano i gironi di Europa League, l’avversario era l’Everton, “l’altra” squadra della Merseyside (non ditelo mai se capitate nella parte blu della città) e il risultato fu roboante, 5-1 per i bergamaschi. Beh, a tre anni di distanza Gasp le ha suonate, nella città dei Beatles, al Liverpool di Jurgen Klopp. Una prova di maturità, della continuità di un progetto che sembra crescere di anno in anno, spinto da un popolo, quello bergamasco, che del duro lavoro fa un credo, uno stile di vita. Questo senso del dovere viene di conseguenza proiettato in campo dalla squadra e lo si può toccare con mano vedendo quanto corrono. All’Atalanta i calciatori diventano bergamaschi in tutto e per tutto.  

IL CANTIERE DELLA DEA 

Il progetto Atalantino è ormai diventato un esempio se non in tutta Europa sicuramente in Italia: una società umile, paziente con idee chiare e una cultura del lavoro ferrea. Poi ci sono i fatti, perché non basta essere una società virtuosa per arrivare a questo livello. I fatti hanno spesso dei nomi e dei cognomi, due su tutti? Alejandro Gomez e Josip Ilicic. 

Il Papu venne acquistato tra l’indifferenza generale. Quando un giocatore esplora campionati minori (magari per soldi) viene dato per finito, e invece, dopo l’esperienza in Ucraina il Papu torna arricchito. In tutti i sensi. Arricchito di ambizione, probabilmente anche più libero di testa, e pronto ad essere il leader su cui costruire un progetto vincente. Ma l’Atalanta dell’epoca non aveva fretta, così stagione dopo stagione, aggiungeva dei piccoli tasselli ad un assetto di squadra che iniziava a prendere forma: la difesa a tre, mediana fisica e di corsa, terzini propositivi e fantasia sulla trequarti. “Che fantasia suggestiva sarebbe vedere Ilicic finalmente consacrarsi”.  Questo era il pensiero che probabilmente balenava nelle menti dei dirigenti della Dea. Detto fatto. Nel luna park nerazzurro Ilicic diventa il perno della ruota panoramica, trova finalmente la sua dimensione e diventa uno dei giocatori più importanti nel suo ruolo. 

Il bello dell’Atalanta però, è che non si ferma, c’è un progetto che tende ad aggiungere ogni stagione nuove attrazioni al parco divertimenti; da qui derivano risultati sempre graduali, quasi pianificati, come se sulla vittoria avessero il totale controllo.
Anche le infrastrutture stanno crescendo di pari passo con la squadra, il Gewiss Stadium è quasi ultimato, pronto ad ospitare (si spera presto) un totale di 24.000 spettatori. Il settore giovanile non sta a guardare, frutta quasi più introiti della prima squadra, vedi le cessioni da 40mln l’uno di Kulusevski e Traorè; due che in prima squadra non ci hanno praticamente messo piede, e non vanno quindi ad impoverire l’assetto della Dea.

Queste sono le basi e i principi del successo bergamasco, ma non si vince 2-0 ad Anfield contro questo Liverpool solo con il duro lavoro e la programmazione. No, al timone serve qualcuno che sappia dirigere i lavori. L’Atalanta che prese in mano Gasperini era un cantiere in costruzione, e lui da sapiente costruttore di imprese adesso può affacciarsi dal piano più alto del palazzo per ammirare la vista. Oggi più che mai.

GASPERINI NERAZZURRO
E chissà se il panorama che Gasperini vede dal “Gewiss Palace” non gli faccia scappare un sorriso, anche e sopratutto pensando alla situazione attuale dell’Inter. 
Perché le tinte nerazzurre che tutta Europa adesso ammira sono quelle dell’Atalanta e non più quelle del Biscione. E pensare che Gasp dalla Pinetina ci era passato, ma non fece in tempo ad indossare l’elmetto, a dare una sbirciatina ai lavori da fare, e chiedere qualche rinforzo che il progetto si interruppe. Bastò qualche intoppo iniziale e fisiologico, forse una differenza di vedute e così, il ben servito. Il cantiere si chiuse. 
E pensare che sembrava il perfetto inizio di una svolta sia per il tecnico che per la società milanese. 
Era l’estate del 2011, dopo anni a Genova sponda rossoblù ecco che arriva la grande chiamata, l’occasione di una vita, la panchina di una big, l’Inter. Ma durò pochissimo.

Tre partite, ecco quanto durò l’avventura di Gasperini all’Inter. Una sveltina più che un’avventura. Ma quella era l’Inter post triplete, quella che preferiva dondolarsi nell’angolo buio ad accarezzare i trofei, e piuttosto che prestare attenzione al presente ed essere lungimirante, era invece schiava del passato e terrorizzata dal futuro. Da qui scelte schizofreniche, come capita a molte grandi società in momenti difficili, quale l’esonero di Gasperini tra le tante. 
Fu così che il tecnico piemontese si dovette ridimensionare e dopo il Palermo, tornò al Genoa, e di nuovo tornò a fare grandi cose. Grandi cose che non passarono inosservate, la Dea, non bendata, anzi molto vigile, mettè sotto contratto Gasp e delle sue straordinarie intuizioni parliamo ancora oggi, era il 2015. Sono dunque 5 anni che ci stupiamo in continuazione di quello che fa l’Atalanta, in campo nazionale e non. Gasperini avrà pure fallito con l’Inter, ma la sua piccola Dea è diventata più grande delle big.

INTERNAZIO... MALE
Inter qualche rimpianto?
Perché la serata di Champions di ieri rischia di far scivolare l’Inter di nuovo in Europa League. Per il terzo anno di fila. È vero, nulla è ancora deciso, ma con la vittoria del Borussia sullo Shaktar e la scampagnata del Real Madrid Castilla a San Siro il cammino nell’Europa dei grandi si complica maledettamente.
Certo che il 4-2 a Torino di domenica non lasciava proprio tranquilli sia per come è arrivata la vittoria che per l’inconcepibile assenza dal campo dei nerazzurri (di Milano) nella prima ora di gioco. 

Non basta il furore tanto evocato da Antonio Conte per vincere partite e competizioni, anche perché più ne chiede più sembra che i giocatori vadano in tilt. 
L’irruenza di Barella sul rigore del Real, la sfuriata senza senso di Vidal, (mai capito le proteste, ancor meno adesso con il Var), la frenesia che accompagna molte se non tutte le giocate dell’Inter nella metà campo avversaria. Ultimo ma non ultimo l’oltraggio riservato ad Eriksen negli ultimi minuti di partita. Inserito solo quando non c’era più possibilità di recuperare il risultato. Segno di sfiducia totale nel danese e mancanza di rispetto per un giocatore che poco più di un anno fa giocava una finale di Champions League. Come a volerlo mettere apposta nelle condizioni peggiori, inibire il suo talento e dunque dimostrare di aver ragione sul fatto che sia inadatto. Ho sentito calciatori parlare di mobbing per molto meno. Non sarà questo il caso anche perché è probabile che il danese venga ceduto il prima possibile.

Aggiungerei però che c’è mancanza di rispetto anche nei confronti della società da parte del tecnico leccese, oltre ad Eriksen, anche Hakimi e Skriniar sono irriconoscibili, il loro prezzo di mercato sta scendendo vertiginosamente ed è un problema in quanto siano tutti e tre patrimonio della società, tra i più pregiati per giunta. 
Ora mi chiedo, ha senso scialacquare tutto questo talento in virtù dei risultati? 
E la cosa ancora più inspiegabile è che Conte non sta ottenendo nemmeno quelli, sembra godere di fiducia incondizionata. La sua fama lo precede, certo, ma precede anche il bene dell’Inter? Quanto dovrà ancora sbagliare perché venga trattato come un comune Gasperini?

A questo punto mi sorge un dubbio: chissà se Gasp avesse goduto della fiducia che ha Conte dove sarebbe ora l’Inter...
Forse non dovrei specificare di che nerazzurri sto parlando quando ne tesso le lodi in Champions League.