Nessuna italiana nelle migliori otto d’Europa.
Se ci pensate bene non è nemmeno uno scandalo dato il trend degli ultimi anni, solo la Juventus nell’ultimo decennio e l’Atalanta lo scorso anno hanno provato ad invertirlo. Certo c’è modo e modo di uscire dalla massima competizione europea e in nessuno dei tre ottavi di finale c’è stata la sensazione di potersi aggrappare a qualcosa, salvare la prestazione, essersi lottati la qualificazione o aver perso immeritatamente. È questo il bello della Champions League, passa il turno chi se lo merita. 
Se era difficile chiedere di più ad Atalanta e Lazio eliminate rispettivamente dalla squadra più titolata a livello europeo, il Real Madrid, e dal Bayern Monaco attuale campione in carica, discorso diverso va fatto per le altre due squadre iscritte al torneo, nelle quali riponevamo le maggiori speranze. 

La Juventus, massima esponente del nostro calcio, quella che è stata la nostra rappresentate in Europa negli ultimi 8/9 anni, nelle ultime tre edizioni della Champions League è arrivata al massimo ai quarti di finale, tristemente agli ottavi negli ultimi due anni; l’Inter che è prima in classifica nel nostro campionato è uscita addirittura ai gironi, per il terzo anno di fila.  
Questo fa riflettere, l’intero movimento calcistico italiano dovrebbe farsi delle domande e trovare rapidamente delle risposte. Accettare che la Serie A sia solo l’ombra del prodotto che tutto il mondo ci invidiava poco più di un decennio fa è il primo passo per trovare queste risposte, che sono lì, alla luce del sole o illuminate dai riflettori, se solo ci sforziamo di analizzare quello che vediamo. Sono tre i principali fattori da considerare per questa analisi, tre aspetti fondamentali, uno conseguenza dell’altro: culturale, economico e tecnico.

Aspetto culturale 
C’è un interrogativo che mi viene da sottoporvi prima di sviscerare questo punto. Amate più il calcio o amate più la vostra squadra?
È un punto fondamentale da cui partire, perché da qui si deve iniziare per capire cosa non funziona nel nostro calcio. Il tifo oltranzista non tiene conto delle analisi, tiene conto del risultato, il desiderio più grande è la vittoria, a tutti i costi, e la sconfitta dell’avversario vale quanto un trionfo personale.
Questi tifosi prendono spunto dalle débâcle sopracitate per sfottere di più, per tirare fuori il petto e trasformare quello che potrebbe essere un discorso costruttivo in mero campanilismo. Lo juventino sfotte l’interista per l’eliminazione ai gironi, l’interista fa lo stesso per l’eliminazione bianconera contro il Porto, il romanista prende il giro il laziale per essere uscito con il Bayern e il tifoso biancoceleste aspetta con ansia che la Roma esca dall’Europa League (speriamo il più tardi possibile) per poter avere la sua vendetta. Lo sfottò fa parte del tifo e i tifosi sono l’anima, il cuore pulsante del calcio, ma il tifo per come lo concepiamo nel nostro paese non è sano, non c’è sportività e così non si cresce. Vedere la propria squadra come un’estensione di se stessi va bene se trasmette passione e gioia nel sostenerla, il calcio è fatto per unire, non per dividere e usare la propria squadra per rivendicare fallimenti personali. Il calcio è fonte di gioia, non di odio. 

Lo sanno bene gli Inglesi, che dopo gli anni bui degli hooligans offrono al mondo e si godono in prima persona uno spettacolo unico. La Premier League prima della pandemia offriva uno spettacolo senza precedenti: stadi moderni, capienti e gremiti fino all’ultimo seggiolino, non più di hooligans ma da famiglie intere. Famiglie che non hanno paura di portare i figli allo stadio perché ognuno dei paganti segue lo spettacolo a modo suo, cantando per la propria squadra, esibendo sciarpate rappresentanti i propri colori e sfottendo l’avversario senza mai oltrepassare il limite  della decenza e sopratutto senza sconfinare nell’odio.

Forse la pandemia ci ha fatto dimenticare quanto la questione stadi sia stata un tasto dolente negli ultimi anni in Italia. Stadi fatiscenti che si riempivano solo nei match di cartello, un servizio scandente per i tifosi che a volte per primi rendevano il prodotto ancora più becero con scontri fuori e dentro lo stadio. Tranne pochi esempi, quali l’Allianz Stadium e San Siro vedere stadi pieni in Italia era ormai un ricordo lontano. La triste verità è che l’affluenza dipende dall’andamento della squadra, se si vince tutti sul carro mentre se si perde gli stadi rimangono deserti. La risposta alla domanda dell’inizio per alcuni è: nessuna delle due.

Aspetto economico
Non c’è da stupirsi quindi, dato l’aspetto appena esaminato, se gran parte del flusso economico non finisca nelle casse dei club italiani. I soldi degli investitori vanno dove possono esserci ritorni importanti, i soldi vanno a chi offre un prodotto e uno spettacolo migliore.
Le squadre di Premier League hanno a disposizione un budget pressoché illimitato rispetto alle squadre della Serie A, ma non dev’essere un alibi, bensì un modello da seguire. Prima della pandemia, in Inghilterra, dal Manchester City degli sceicchi fino al neo promosso Sheffield United, tutti avevano a disposizione 120 milioni di euro solo dai diritti tv, senza contare merchandising, casse societarie, sponsor tecnici e via dicendo. Tutto questo è stato possibile grazie all’autentico show che va (andava) in scena ogni weekend, i grandi giocatori sono solo una parte dello spettacolo arricchito dai colori e i cori provenienti dagli spalti, dal colpo d’occhio degli stadi e dal fatto che nessuna squadra parte sconfitta, ogni partita è una finale.
È fisiologico dunque che un calciatore più o meno giovane, più o meno forte sia molto più stimolato a firmare per un club d’oltremanica.
Attenzione però, la Premier League è la massima esponente di questo movimento, la NBA del calcio, ma non è l’unica. La Liga spagnola e la Bundesliga tedesca non sono da meno, i migliori calciatori emergenti sempre più spesso scelgono di approdare in questi due campionati piuttosto che scegliere l’Italia, diventata purtroppo per noi appassionati la quarta scelta.

Aspetto tecnico
Quest’ultimo fattore è sia una conseguenza dei primi due sia frutto della pigrizia e del negazionismo che aleggia sul nostro calcio da anni.
Troppo bene siamo stati abituati nel recente passato per accettare di non essere più i migliori della classe. Sono finiti da oltre una decade i tempi in cui l’Europa prendeva spunto dal calcio italiano, anzi sarebbe ora che il calcio italiano facesse un passo oltre la propria arroganza e si mettesse a prendere appunti del resto d’Europa. 
In Serie A si gioca un calcio di nicchia, poco europeo, poco spettacolare, diverso.
La contaminazione di idee, di stil di gioco e di mentalità ha contraddistinto gli ultimi anni in Premier League, Liga e Bundesliga portando le rispettive squadre sul tetto d’Europa e poi del mondo. C’è più completezza negli altri campionati, più conoscenza e più coraggio, le caratteristiche tecniche e fisiche che in Italia ci sembrano dominanti in Europa le hanno anche gli altri.

Per fare un esempio vi cito Pogba, calciatore per il quale andavo fuori di testa qualche anno fa fino a quando ahimè ne rimasi scottato. 
In Serie A faceva la differenza, con le sue lunghe leve e il passo molleggiato dominava in lungo e in largo, interdizione, regia e gol, faceva tutto e lo faceva divinamente, se a questo aggiungevamo la giovanissima età non era poi così strano considerarlo un futuro confidato al pallone d’oro. Poi il ritorno allo United, se n’era andato da giovane promessa ed era tornato da fuoriclasse. Ancora oggi, a distanza di 5 anni ci stiamo chiedendo quando Pogba farà rivedere quello che ci ha mostrato nel nostro campionato. Con dolorosa presa di coscienza, vista la considerazione (sbagliata) che avevo di lui, dovetti ammettere a me stesso che quel Pogba sarebbe potuto rimanere solo un ricordo.
La Premier League fa della potenza fisica, della velocità e della tecnica le fondamenta su cui basa lo spettacolare show che manda in scena ogni fine settimana; Pogba che ha tutte queste caratteristiche, ha dovuto però parametrarle al livello medio di quel campionato. Se da noi non perdeva un contrasto, saltava gli uomini solo allungando la falcata o giocando di suola, ecco che in Premier sembra quasi lento, compassato e molle. E questo non perché Pogba sia improvvisamente diventato scarso, ma semplicemente perché si trova ad affrontare avversari con caratteristiche molto più simili alle sue. Pogba probabilmente non vincerà il pallone d’oro e non sarà un fenomeno, ma rimane un ottimo giocatore, potenzialmente anche di più, che ha creato aspettative errate complice un campionato fuorviante, la Serie A. 

C’è stato un altro caso simile, molto discusso e molto più attuale, Christian Eriksen.
Arrivato come una superstar il danese ha lentamente iniziato un declino che solo recentemente sembra essersi interrotto. Chi ha già letto alcuni dei miei articoli precedenti sa già come la penso su Eriksen, e quanto nervosismo mi ha procurato vederlo relegato in panchina per un anno. Anche quando sembrava sul punto di partire gridavo allo scandalo, poi per fortuna il campo ha fatto da garante; in difesa del danese il campo da calcio ha messo le vesti di avvocato e l’ha rimesso tra i titolari. Ci è voluto un gol nel derby a far cambiare l’idea che molti (inspiegabilmente) si erano fatti su di lui, a conferma del fatto che il tifo in questo paese condiziona i giudizi, sposta le opinioni, anche su un fuoriclasse come Eriksen, diventato tale solo perché ha segnato nel derby. Inconcepibile.

Questa giudizio “di pancia” dei tifosi unito al passo indietro di Conte rispetto alla sue convinzioni hanno riportato l’ex Tottenham più o meno al suo status. Perché dico più o meno? Perché inversamente ma ugualmente al discorso su Pogba anche l’Eriksen che in Premier disegnava calcio, entrava in gran parte dei gol degli Spurs con gol e assistenze, rimarrà un ricordo. Le realtà attuale non lo valorizza, l’Inter di Conte non è la squadra in cui può fare calcio come piace a lui, sicuramente da più lui all’Inter di quanto questa Inter possa dare a lui. Quindi siamo sicuri che sia Eriksen a non essere adatto al calcio italiano? O è il calcio italiano a non essere all’altezza dei colpi del danese? Inibire il talento non è una mossa vincente. In Champions League va avanti chi esalta il talento, non chi lo intrappola. 
Basti guardare il city di Guardiola; il secondo gol contro il Gladbach: rete di Gundogan diventato un giocatore totale come quello che gli correva affianco, Joao Cancelo. Sulla carta il terzino sinistro, se ancora si rimane ancorati ai ruoli, ma se ti chiami Guardiola i ruoli sono compiti, movimenti e occupazione dello spazio, per cui succede che su un’imbucata trovi Cancelo davanti al portiere pronto ad insaccare un assist di Gundogan che ormai come un vero attaccante lo ignora e insacca per conto suo.
Starete forse pensando che per avere certi giocatori servono soldi, molti soldi. È indubbiamente vero, ma servono anche molte idee, magari giuste. Perché Cancelo la Juve ce l’aveva ma ha preferito sacrificarlo sull’altare delle plusvalenze, sull’altare della vecchia scuola italiana (non sa difendere) sull’altare del calcio monouso della Serie A. Discordo simile lo si potrebbe fare per Kingsley Coman, altra plusvalenza da leccarsi le dita all’epoca, da mangiarsi le mani adesso, perché Coman solo un paio di settimana fa ha sverniciato la difesa della Lazio ed è ai quarti di finale con il suo Bayern, oltre ad essere campione del mondo in carica. Questi sono i giocatori da Champions League, e poteri citarne altri meno scontati; la Lazio aveva in rosa Pedro Neto un calciatore che adesso sta facendo benissimo al Wolverhampton, un altro di quei giocatori veloci, tecnici, che saltano l’uomo e creano superiorità numerica, un altro giocatore di cui la Serie A potrebbe pentirsi di aver perso. In Champions League è un’altra musica, in tutti i sensi; la trasmissione della palla viaggia veloce, il pallone fa un rumore diverso. La Champions League è questa, in due parole: tecnica in velocità.

Ora, questi tre aspetti non possono essere sanati in un battito di ciglia, serve tempo per colmare la distanza con gli altri campionati. Nelle squadre di Serie A militano giocatori facenti parte delle rispettive nazionali, non è un campionato scarso. È un campionato che non si vuole uniformare al resto d’Europa e puntualmente ne paga dazio. È un calcio in cui si esalta alla follia chi fa bene due partite di fila e si affossa chi ne perde una, dove il tifoso medio se la suona e se la canta per il +3 in classifica senza preoccuparsi di come l’ha ottenuto. Un campionato snob sempre pronto a sminuire gli altri (in Bundesliga segnano tutti), senza mai fare autocritica per poi essere bruscamente svegliato dalle scoppole in Champions. 
Speriamo solo che questa ennesima annata fuori dalle grandi d’Europa porti le varie società a intraprendere le strade giuste con il giusto mix di umiltà e apertura mentale.
Nulla è perduto, ma per passare da c......... a campioni, la strada è ancora lunga.