Vi siete mai chiesti cosa sia il calcio?
La risposta potrebbe apparire alquanto semplice: uno sport. Per alcuni si tratta del gioco più divertente del mondo. Nutro pochi dubbi sul fatto che, in Italia, molti fornirebbero una simile risposta.
In più occasioni ho già avuto modo di lodare tale attività nata circa 150 anni or sono e sviluppatosi in maniera tanto repentina quanto impressionante. Si dice che gli inventori di questo esperimento ludico siano i britannici. In effetti, la prima “lega” fu la Football Association sorta proprio a quelle latitudini il 26 ottobre 1863. Nel periodo successivo, il “pallone” ha avuto una micidiale espansione. Qualcuno si domanderà i motivi. Beh, penso che possano essere individuabili in varie ipotesi. Innanzitutto, non ci si deve dimenticare la semplicità del gioco che necessita davvero di una scarna materia prima. Quando si dispone di un oggetto sferico, il più è fatto. Poi ci si arrangia in qualsiasi modo e maniera. Le regole sono banali. Si faccia, per esempio, un confronto con il tennis. Ritengo che quest’ultimo sport sia assolutamente magnifico e, pur non sapendolo praticare, amo seguire le sfide proposte in televisione. Comprendere la normativa che impone non è attività troppo intuitiva e pure per praticarlo occorre maggiore quantitativo di denaro.

Il calcio, però, è soprattutto emozione. Non chiedetemi perché. Non vi saprei rispondere, ma il vero motore di questo gioco è proprio il sentimento. Quando si assiste a un match è come se vi fosse un fiume di passione che scorre tra le persone. Anche chi non ama a fondo il pallone viene trascinato dall’evento perché quest’ultimo dispone di un’energia mistica in grado di accalappiare a sé con un potere particolare. La forza emotiva è essenza dell’esistenza umana. Si vive per provare sensazioni. Senza di esse, nulla avrebbe senso e presto ci si arrovellerebbe in un’inutile sterilità, veicolo di un’autodistruzione dell’anima. Il calcio ha avuto uno sviluppo così sconvolgente ed efficace proprio perché riesce a riscaldare i cuori e a muovere gli animi. A dire il vero, si potrebbero intuire pure i motivi di tale capacità. L’appassionato solitamente è guidato da un forte attaccamento alle vicende di una squadra tanto da sentirsene componente. Si rivolge alla sua compagine come se fosse membro del gruppo: “Contro chi giochiamo domenica? Ieri abbiamo vinto, ma abbiamo sofferto troppo…” L’altra parte riconosce tale appartenenza: “Oh avete avuto fortuna l’altra sera… Contro chi siete in Champions?”. Se si pensa attentamente alla situazione si comprende che è davvero particolare. Chi parla in tale maniera non è realmente appartenente a quel gruppo eppure si percepisce quasi come aderente a una stessa famiglia e, quando chi non ama il calcio fa lui notare tale bag del sistema, questi ne rimane deluso: “No, no… Anche se non scendo in campo, io sono uno di loro. Fatico con loro, corro con loro e soffro con loro”. Solo chi è appassionato può comprendere un simile sentimento. A quel punto nasce un sistema che si autoalimenta e crea una delle poche dipendenze positive della storia. Saranno tanti ad avere avuto la fastidiosa esperienza di dover uscire a cena in un “tête à tête” con un tifoso la cui squadra ha perso solo qualche ora prima. Credo abbiano vissuto serate più divertenti. Il calcio è troppo trascinante rispetto alla media di qualsiasi altra attività perché è veicolo di sensazioni forti.

Spero di essermi espresso in maniera sufficientemente chiara da consentire di comprendere cosa significhi il pallone per il vero appassionato. Come in ogni attività della vita, però, esistono le esagerazioni che sembrano nascere sovente dalle situazioni più impensabili. E’ assurdo che da un gioco possano derivare conseguenze violente e atti di inciviltà tanto barbari. Qualcuno obietterà che chi si erge a protagonista di simili azioni non può considerarsi un tifoso e soprattutto non ha alcun legame con il calcio. Non posso non concordare. Attenzione, però, perché considerare tale fattispecie come univoca rischia di divenire una pericolosa semplificazione di una vicenda molto più complessa. Esiste chi sfrutta tale gioco per altri scopi negativi o per dare sfogo a un’aggressività fine a se stessa che nulla ha a che vedere con la squadra sostenuta ma, ahimè, questa non mi pare l’unica casistica. Sino a ora ho parlato di emozione e senso di appartenenza in un’ottica assolutamente positiva. Ho affermato che il calcio crea una delle rare “dipendenze felici” della storia. Mi scuso per l’ossimoro, ma penso sia così. Occorre, però, essere in grado di gestire tali situazioni e non tutte le persone dispongono di questa capacità che sembra quasi innata. Si tratta del self control che determina anche il senso del limite, la soglia che non si può oltrepassare. In molti avranno avuto l’onore di potersi godere una partita vista dallo stadio o in un qualsiasi luogo di aggregazione. Perché quando si guarda un match ci si esprime con forme gergali o una gestualità non propriamente cordiale che, all’interno di qualsiasi altro ambiente, non sarebbe mai consentita? Nessuno si è mai posto questo quesito? E’ ancora colpa dell’emozione. In quel momento, la regina del nostro animo si impadronisce dello stesso in maniera più veemente del solito andando a influire sui freni inibitori. Si pensi un attimo di vivere la “vasca” del sabato pomeriggio tra le vie di una qualsivoglia città oppure di osservare le vetrine di un centro commerciale. E’ più raro, ma anche in questo caso può capitare di incappare per qualsiasi motivo in sensazioni forti. Fortunatamente è ancora più infrequente, ma si osservano anche situazioni verbali o non verbali simili a quelle vedute di fronte a una partita di pallone. Beh in questa ipotesi si pensa subito vi sia un problema piuttosto grave e ci si allarma immediatamente per cercare di gestire al meglio la situazione. Di fronte a un match non è così. Tutto pare normale e si prosegue come se nulla fosse. E’ chiaro che, a quel punto, ci si avvicina in maniera sempre più concreta al limite e, quando questo è così prossimo, la vicenda diviene meno controllabile. Credo che sia giunto il momento di darsi una regolata.

Spesso vengo criticato sui social perché si pensa che queste parole siano indice della volontà di levare al calcio lo sfottò e il campanilismo che sono espressioni di quel senso di appartenenza precedentemente descritto. Non è così. Questo è un meccanismo assolutamente positivo ed è il sale del calcio. E’ ciò che rende più gustoso un ottimo sugo. Occorre, però, gestire la situazione con prudenza onde evitare l’effetto contrario.
Servono norme ancora più restrittive? Non penso. Non ho mai creduto alla scuola di pensiero per la quale la sanzione avrebbe la capacità di limitare il comportamento negativo. Prima di far sobbalzare dalla sedia qualsiasi giurista cerco di spiegarmi meglio. E’ chiaro che la pena reprime l’azione. E’ fuori di dubbio. Lo ritengo, però, uno strumento davvero triste e svilente dell’umana intelligenza. E’ umiliante che per evitare il proliferare di una data attività oggettivamente negativa si debba ricorrere a simili mezzi che, come dimostrato dalla realtà, non sempre funzionano. E’ matematico: le norme esistono e le eventuali condanne non sono certo di poco conto, ma chi non le rispetta continua imperterrito nella sua condotta. L’imprenditore Jim Rohn affermava che: “la civiltà è la gestione intelligente delle emozioni umane”. Credo abbia colto perfettamente il punto e che questo possa essere riportato anche al mondo del calcio. Diventa difficile modificare l’approccio di un individuo con una personalità matura, ma si potrebbe operare sulle nuove generazioni. Con questo non intendo sostenere che si debbano creare degli automi in grado di controllare perfettamente i propri sentimenti. Sarebbe tanto assurdo quanto pericoloso. Vorrei solo sostenere la tesi di un’educazione che riportasse il pallone nei canoni di una “normalità” ormai perduta. Non chiedo di recarsi allo stadio con il medesimo aplomb che si avrebbe all’opera, ma semplicemente che non diventi il luogo in cui sono consentiti tutti i più beceri sfoghi dell’animo. Si pensi al razzismo. Le tristi espressioni di xenofobia razziale o territoriale alle quali si potrebbe assistere di fronte a una gara, giungono spesso da individui che fuori dal contesto non hanno assolutamente quel modo di pensare e che appena sfogata la sensazione si pentono amaramente di quanto accaduto. Occorre educare al calcio. E’ un processo lungo e complicato, ma può essere affrontato. Questo potrebbe aiutare quantomeno a rimanere più distanti dalla fatidica soglia che, se superata, conduce direttamente alla violenza anche chi normalmente non è propenso a tale comportamento. Mi rendo assolutamente conto che si tratta della punta dell’iceberg, ma è dalle piccole situazioni che nascono sovente grandi tragedie. Lavorando su queste si può arginare l’emorragia.

Un contributo fondamentale deve sicuramente giungere dai media che rischiano di essere involontario motore di spiacevoli vicende. E’ chiaro che i mezzi di comunicazione, così come i social, hanno lo scopo di informare. E’ un’attività fondamentale e assolutamente positiva. Rappresentano una componente essenziale senza la quale il mondo del calcio non esisterebbe e ritengo un tantino arcaica la visione di chi vorrebbe un ritorno a un pallone del passato senza la presenza così ingombrante di queste strutture delle quali ormai non si può più fare a meno. Mi pare un ideale romantico, ma davvero troppo attempato per essere percorribile. Anzi, occorre ringraziare tali strumenti in grado di proporre costantemente l’amato sport sotto varie forme. Consentono ai molti di esprimere la propria opinione garantendo un brainstorming dal quale nascono interessanti riflessioni che altrimenti non riuscirebbero a emergere. I media hanno il grande privilegio di raccontare quello che il loro fruitore non può direttamente osservare. Rappresentano il nostro occhio sul mondo. Ben Parker, storico personaggio dell’Uomo Ragno, afferma che: “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. I mezzi di comunicazione devono essere capaci di gestire la situazione nella maniera migliore possibile. Il pericolo principale è quello delle “fake news”. Questo è da estirpare come il peggior male. Come detto, il compito di tale sistema è quello di informare. Se lo porta a compimento nella maniera errata, fallisce totalmente nel suo unico scopo. I media hanno poi la necessità di veicolare le emozioni senza stimolare eccessive reazioni. Ritengo che questa sia una mansione davvero molto complessa. Come il chimico, essi devono bilanciare gli elementi garantendo la corretta informazione e cercando di evitare che da questa derivi un’escalation di terribile negatività. Se però lo scienziato dispone degli strumenti per affidarsi a precisi calcoli aritmetici, l’opera dei mezzi di comunicazione risulta ancora più difficile perché si fonda sul sentimento che non è quantificabile numericamente. Credo che troppo sovente la professionalità di chi vi opera sia attaccata duramente senza rendersi conto della selva oscura nella quale essi si trovano ad agire. Nonostante ciò, non possono fallire e devono garantire un’attività sana e precisa. Solo così si eviterà il tracimare di immani polemiche che rischiano poi di sfociare in comportamenti violenti anche da parte di chi solitamente non vi è avvezzo.


Chiudo con un’ultima analisi e mi rivolgo nuovamente ai romantici di questo sport. Troppo spesso si confonde la passione con la quantità di tifosi o il seguito di una squadra. Credo che tale prerogativa non sia una realtà calcolabile numericamente. Una compagine può avere pure un solo supporter al seguito e meritare in ogni caso grande attenzione. Il risultato sportivo rappresenta l’unica oggettività del gioco. Se una squadra vince non deve sentirsi inferiore ad altre soltanto perché ha meno fan o una storia più recente. Quello che conta è assolutamente il presente. Ben vengano, quindi, quei magnati in grado di dar lustro in maniera onesta e rispettabile a una compagine, qualsiasi sia il colore della sua maglietta.