Se la memoria non mi inganna, l’unico calciatore in grado di vincere il Pallone d’Oro con la maglia del Napoli fu un certo Diego Armando Maradona. El Diez è stato strappato alla vita troppo prematuramente, circa un anno fa, mentre il covid falcidiava le nostre esistenze con una forza terribile e la sua perfida mannaia. Non fu l’orribile virus a portare via El Pibe, ma i giorni tremendi che stavamo trascorrendo rendevano l’enorme tragedia ancora più perfida. Eravamo chiusi in casa, impotenti davanti all’addio del grande campione. All’ombra del Vesuvio si pianse parecchio e nacquero dei cortei spontanei in suo onore. L’amore della gente era troppo forte per essere contenuto. Presto il “San Paolo” ha assunto il nome del suo eroe che, alla fine del decennio tra il 1980 e il 1990, aveva condotto la squadra sul tetto d’Italia e a importanti trionfi europei. In terra partenopea, nessuno è mai riuscito ad eguagliare le sue imprese degne della mitologia. L’anima dell’argentino aleggia su Napoli quasi come un angelo protettore. È praticamente impossibile trovare un atleta tanto amato da una data comunità. Basti pensare all’impressionante numero di bambini campani che, in quel periodo furono chiamati Diego.

Garella; Bruscolotti, Ferrario, Reneca, Ferrara; De Napoli, Romano, Bagni; Maradona; Giordano, Carnevale. Questo 4-3-1-2 non sarà mai dimenticato. È storia. È icona per la Città di Napoli e patrimonio per il calcio. Tale formazione è un simbolo sociale. È il segno del riscatto del sud in grado di domare l’Inter di Trapattoni, rappresentante del potente e ricco nord. Il pallone è lo sport più amato d’Italia e quest’ultima disciplina ha una valenza enorme all’interno della comunità. È settore fondamentale della sua economia, ma pure del benessere psicofisico e della cultura. Nel 1987, quel gruppo di uomini guidati da Bianchi porta lo Scudetto in Meridione ed è il primo nella gloriosa storia azzurra. Corrado Ferlaino, presidente di quella favola incredibile, acquista Diego dal Barcellona facendo un colpo pazzesco che mette una piazza nella migliore condizione per sognare soltanto udendo il suono della parola. Coadiuvato dal tecnico e da capaci dirigenti, attorno al sudamericano, il patron costruisce una squadra tagliata su misura in cui però il singolo si cala nel collettivo. Insomma, El Diez riesce in ciò che ultimamente si rimprovera alla versione bianconera di Ronaldo, secondo molti reo di non essersi amalgamato alla rosa. “Uno per tutti, tutti per uno” dicevano i moschettieri di Dumas. A differenza di CR7, El Pibe pare riuscire nell’intento. La squadra gioca per lui, ma con lui. Giuliani; Ferrara, Corridani, Renica, Francini; De Napoli, Fusi, Alemao; Maradona; Carnevale, Careca. Come noterete, il modulo è lo stesso così come l’allenatore e il condottiero. Cambiano soltanto alcuni interpreti e questa compagine dona una gioia europea praticamente sconosciuta al sud Italia. Tale undici vince, infatti, la Coppa Uefa 1988-1989. Il 1990, con il secondo Scudetto, segna la fine dell’epopea azzurra. Giuliani; Corradini; Ferrara, Baroni, Francini; De Napoli, Fusi, Crippa; Maradona; Carnevale, Careca. Stavolta, il mister è Bigon. Osserverete subito una particolarità. Si tratta del libero. L’ultimo baluardo prima del portiere. L’uomo che aiuta lo stopper. Quest’ultimo va in marcatura mentre il primo copre l’eventuale fuga avversaria. Insomma, dev’essere un giocatore dell’infinito senso tattico. È icona di quel periodo che oggi non esiste praticamente più. Nella stagione successiva, Maradona lascia Napoli con il tricolore sul petto e, come spesso avviene agli eroi, lo fa nella bufera giudiziaria, ma ricoperto dall’amore della gente. Durante l’estate precedente, gran parte di essa aveva preferito il suo idolo alla maglia azzurra. Tale fatto è parecchio indicativo. È uno spaccato calcistico e sociale non indifferente. La kermesse si disputa proprio in Italia. Sono le celebri “Notti Magiche” di Bennato e Nannini. Uno scherzo del destino decide che, al “San Paolo” in semifinale, si devono affrontare azzurri e argentini. Lo stadio è diviso a metà e, ai rigori, vincono i sudamericani che eliminano una nazionale già designata al trionfo. Una gran fetta di Napoli è contenta e gioisce con il suo mito. Ciò è esplicativo di quanto, alle nostre latitudini, i club abbiano un valore eccezionale anche rispetto alla rappresentativa del Paese. Il tifo è ancora largamente campanilistico e il caldo appassionato fatica ad esultare insieme ai rivali di sempre. Non voglio cadere nel discriminatorio. Non è assolutamente il mio intento, ma ciò è piuttosto emblematico anche del fatto che buona parte della realtà campana si senta estranea a certe situazioni. Probabilmente, questa è pure una naturale reazione a talune forme di emarginazione verbale patite.

Chiusa l’epopea maradoniana, gli azzurri galleggiano per parecchie stagioni. Per circa 15 anni rimangono ai margini della serie A con più di un’apparizione in cadetteria. Nel 2004, con il fallimento, la società va incontro a uno dei periodi più cupi della sua storia. Ma, come canta De Andrè, “dal letame nascono i fiori”. Il riferimento è alla situazione, non di certo alla società dell’epoca. È proprio in quell’anno che Aurelio De Laurentiis diventa il patron del Napoli Soccer poi tornato a essere Napoli. I campani ripartono dalla serie C e, nel 2005-2006, conquistano la promozione. Il 2006-2007 vede una serie B considerabile come una naturale estensione della massima categoria. Azzurri, Genoa e Juventus sono le assolute protagoniste tanto che riescono ad accumulare un distacco dalle rivali utile a evitare il disputarsi dei playoff. Quello è il passo verso una nuova era. La mia strana mente mi propone un paragone piuttosto particolare. Vi chiedo uno sforzo. Ne sono consapevole. Provate a immaginarvi il tempo e i trofei. Ora pensate all’Inter post-Calciopoli e alla Juventus degli ultimi 10 anni. Che differenza c’è? Qual è la più vincente? Come potere rispondere! Guardando ai semplici numeri si nota che la Vecchia Signora ha portato a casa molti più trionfi dei nerazzurri, ma ne manca uno che, per lei, è praticamente un’ossessione. Il riferimento è alla Champions League che, al contrario, Mourinho condusse a Milano. Lo stesso paragone si può fare tra il Napoli di Maradona e quello attuale. Quale preferire? È difficile. Il primo fece letteralmente volare una Città trasportandola oltre l’atmosfera. Questo è meno soave, ma più duraturo.

La nuova epopea conduce a 3 successi in Coppa Italia e uno in Supercoppa Italiana oltre che numerose finali, presenze in Champions e lotte per la conquista dello Scudetto. Insomma, gli azzurri sono sempre lì a giocarsela con i più grandi. Hanno, ormai, l’impronta del top club ed è difficile pensare che la possano abbandonare. De Laurentiis è sicuramente un personaggio particolare. A tratti è estroso e qualche volte presenta pure idee considerabili eccessive, ma è obbligatorio e doveroso rimarcare quanto abbia dato al Napoli. Nelle ultime stagioni, più di un calciatore è accostato a Maradona. Considero errato ognuno di tali paragoni perché El Pibe non ha eredi. È unico. Ma questo continuo avvicinarlo a colleghi rende l’idea del periodo che la Città sta attraversando. Da Cavani a Mertens passando per Higuain con i numeri che realmente si avvicinano a quelli del Diez. Per Castelvolturno si muovono anche grandi della panchina come Benitez, Sarri, Ancelotti e Spalletti. È soprattutto uno che, pur non avendo vinto, lascia un’impronta assolutamente diversa. Mi riferisco al Comandante. Ancora mi chiedo come abbia fatto quella compagine a non centrare il bersaglio grosso! Tutto è scritto. Ogni singolo dettaglio è predisposto per accompagnare quel gruppo ai trionfi del passato e, invece, proprio le piccole cose fanno la differenza. Nel 2018 una Juve devastante, ma non micidiale come in passato, è in grado di star davanti davvero di un nulla. I bianconeri di Allegri conquistano 95 punti. I campani si fermano a 91. Quel Napoli sbanca pure lo Stadium, impresa mai riuscita alle altre versioni azzurre. Con quel trionfo a pochi turni dal termine, l’armata sarrista si porta a un solo punto dai sabaudi e l’occasione sembra davvero ghiotta perché gli uomini di Allegri sono alle corde. La giornata successiva, però, compiono l’impresa rimontando l’Inter a San Siro. Le polemiche sono immani, ma ancora più grande è la delusione partenopea con la squadra che va in blackout in un albergo fiorentino dove alloggia per la trasferta del “Franchi”. Poche ore più tardi si fa abbattere dal Cholito Simeone come fece la Bestia nel noto capolavoro disneyano chiamato proprio “La Bella e la Bestia”. Finché la sua innamorata non riappare ai suoi occhi, il protagonista si concede all’ira spietata di Gaston. Qui, però, Belle non c’è e il Napoli lascia lo Scudetto sul prato toscano.

Reina; Hisay, Albiol, Koulibaly, Ghoulam; Allan, Jorginho, Hamisk, Callejon, Mertens, Insigne. Questo 4-3-3 è davvero straordinario. Il portiere è di un livello eccezionale. La difesa centrale è favolosa e ben amalgamata. Il terzino destro rappresenta il sostegno alla retroguardia. Rimane più statico, molto attento ai compiti di copertura e bravo nelle diagonali. Quello sinistro, invece, si occupa della fase di spinta dove forma una grande catena con Lorenzo il Magnifico. La regia vede quello che probabilmente è in procinto di essere designato come nuovo conquistatore del Pallone d’Oro. Jorginho è il metronomo del Chelsea, trionfatore in Champions, e della nazionale italiana campione d’Europa. Al momento, nel suo ruolo, è il numero uno al mondo. Sulla destra c’è Allan a cui, purtroppo, il futuro non regala immensi successi in Premier. Sembrava, però, il nuovo Vidal. Chiaramente non ha la capacità balistica del cileno e non è nemmeno in grado di apportare il suo quantitativo di marcature, ma vanta identica tenacia, forza fisica, capacità tattica e d’inserimento. A sinistra, spazio ad Hamsik. Lo slovacco non ha necessità di alcuna descrizione. Il reparto avanzato è composto da uno dei migliori falsi nove possibili: Mertens. Si muove, crea spazio, lo occupa e ha un tiro magnifico. Dei pertugi che lascia possono giovare “cobra” come Callejon e assoluti dei della balistica come Insigne. Mamma mia! È normale che un gruppo così, sotto la guida del Maestro, abbia scatenato una Città, i più grandi intenditori e filosofi del pallone contemporaneo. Solo un mago come Allegri avrebbe potuto stare loro davanti.

E il Napoli di Spalletti? Beh… È piuttosto diverso da quello di Sarri. Nonostante un avvio di stagione monstre, sarei assolutamente stupito di vederlo sul trono d’Italia. I motivi sono molteplici. Non voglio certamente discutere le capacità de tecnico. Sono visibili a tutte. È un allenatore certamente differente da Sarri, ma altrettanto formidabile. È più pragmatico e “gestore”. Insomma, vicino ad Ancelotti. Anche il reggiano avrebbe avuto le carte in regola per fare sognare la Città, ma probabilmente non era sufficientemente comunicativo. Luciano lo è. All’ombra del Vesuvio, questo è fondamentale. Lo si nota pure dall’aspetto. Ricordate il toscano allenatore dell’Inter? Vestito a giacca ed eleganza di un certo tipo. In Campania opta per un altro stile. È “battagliero”. È vicino al popolo. È maggiormente sarrista, ma in maniera diversa. Manica corta attillata che mostra un fisico in ottima forma e catene al collo. Non è un giudizio di stile. Ci mancherebbe. È semplicemente una fotografia. Nel 2021 non è sempre vero che “l’abito non fa il monaco”. La squadra, però, non ha il medesimo fascino e nemmeno lo stesso valore rispetto a quella di qualche stagione fa. L’undici titolare contro la Roma era questo: Ospina; Di Lorenzo, Rrhamani, Koulibaly, Mario Rui; Anguissa, Fabian Ruiz, Zielinski; Politano, Osimhen, Insigne. Il modulo è sempre il 4-3-3. La difesa perde la sicurezza di un veterano come Albiol. Né il centrale albanese, né Manolas sono una costante garanzia. Il terzino destro è formidabile ed è all’altezza di Ghoulam. Quello sinistro può essere paragonato ad Hyasai anche nei concetti tattici. Tra questo centrocampo e la mediana protagonista del sarrismo, però, c’è un abisso. Ruiz è un buon giocatore, ma Jorginho è un extraterrestre. Lo spagnolo potrà raggiungere i livelli dell’italiano? Forse. Tuttavia, non adesso. Anguissa è una piacevole sorpresa. Il polacco è un bravo calciatore ma, dalle sue parti, agiva un certo Hamsik. Politano non è Callojon, mentre Osimhen è un attaccante completamente diverso da Mertens, ma altrettanto valido. Anzi, ritengo che sia una delle punte centrali più forti al mondo. Il Napoli gioca a memoria e Spalletti è stato in grado di rafforzare concetti tattici già presenti nel gruppo. Quattro anni fa, però, la rivale era solo la Juventus. Ora ne esistono tante e molto competitive. Le “7 sorelle” sono potenzialmente in grado di vincere il titolo. Non si può, poi, dimenticare che nel mese di gennaio dovrà disputarsi la Coppa d’Africa. Partiranno elementi fondamentali come Anguissa e Osimhen. Come desiderava DeLa, i partenopei sono assolutamente “osimenhiani”. Essere privati di due componenti così importanti sarà davvero una mannaia. Diventa difficile pensare che si possa chiedere il rinvio di alcune gare degli azzurri come qualcuno paventa. In un calendario così compresso, il tempo è denaro. Non va dimenticato, inoltre, che altri hanno giocato i match senza i loro campioni evitando particolari escamotage. Lo affermo con il massimo rispetto.