Nella nostra cultura generale il numero sette ha sempre avuto una grande valenza, al pari del del 3 e del 12.
È così nella religione cattolica, per la quale tutto ha inizio in quei sette giorni occorsi al Creatore per fare ogni cosa, e quel numero rimarrà impresso nel seguito della storia del popolo eletto: sette sono le virtù bibliche, sette i vizi capitali, sette i doni dello spirito santo, sette i sacramenti, sette gli anni di vacche grasse, ed altrettanti quelli di vacche magre, sette le opere di misericordia corporale, ed altrettante le opere di misericordia spirituale. È così anche in astronomia, in cui nell’antichità sette erano i pianeti, sette i giorni che la luna impiega per compiere la sua fase, e sette sono anche i giorni della settimana suddivisi secondo il ciclo lunare. 
Nella Divina Commedia sette è il numero della perfezione umana, il riepilogo completo delle possibilità dell’uomo, e per Dante settanta è il numero della vita perfetta. Ed ancora, sette sono i re di Roma, sette i saggi filosofi greci, e sette le meraviglie del mondo antico e moderno. Più in generale, fin dall’antichità il numero sette è il simbolo magico e religioso della perfezione, e fu considerato simbolo di santità dai pitagorici, i greci lo chiamarono venerabile, Platone anima mundi e per gli egizi simboleggiava la vita. Il numero sette esprime la globalità, l’universalità, l’equilibrio perfetto e rappresenta un ciclo compiuto e dinamico. È il numero della creazione ed esprime il tutto.

Venendo alla nostra più banale quotidianità, potremmo aggiungere che sette sono le vite del gatto, e certe volte sette sono le camicie da sudare per ottenere qualcosa. Ma si sa, noi da questo punto di vista siamo generazioni poco profonde, banali, superficiali, a meno che… A meno che non si parli di calcio. Sul calcio siamo molto seri, anche sui dettagli.

Si, perché nel calcio, il numero sette e la maglia che lo riporta ha un suo valore, una sua storia, una sua mitologia, benché da qualche anno si tenti di andare verso una numerazione più estesa, ben oltre gli undici canonici di un tempo. Per quanto ne sappiamo il sette è il primo numero di maglia che ha meritato di essere citato un una bella canzone, peraltro da quel grande poeta e cantautore che è Francesco De Gregori. Probabilmente nel calcio solo la maglia numero 10 ha una valenza maggiore. 

Sul piano dell’indicazione del ruolo svolto in squadra, il calciatore “numero sette” è quello estroso che ha corsa e tecnica per andare sulle ali, saltare in dribbling i terzini avversari, e porgere alle punte palloni da mettere in rete. Normalmente si posiziona dietro le punte ed ai lati del dieci, al quale offre soluzioni di passaggio. In generale è il calciatore bravo e spettacolare che non vuole o non sa essere una primadonna come il nove o il dieci, e spesso è anche il più sregolato dei tre.

Nella storia del calcio, la maglia numero sette ha avuto grandi interpreti anzitutto nei brasiliani Julinho, il grande numero sette della Fiorentina del primo scudetto, e il suo successore verdeoro Garrincha, che per molti era superiore anche al suo coetaneo Pelé, tant’è vero che ai mondiali del 1962, anche in assenza di quest’ultimo, il Brasile vinse comunque il titolo, ed il suo trascinatore fu, appunto, Garrincha. Prima di loro c’era stato Romeo Menti, campione della Fiorentina e del Grande Torino, col quale perì in quel di Superga. Dopo di loro, il grande George Best, il quinto Beatle del Regno Unito, quello che suoi 28 gol e 11 assist portò il Manchester a conquistare la prima Coppa dei Campioni per una squadra inglese e, a confessione della propria sregolatezza, una volta dichiarò: “Ho speso gran parte dei miei soldi per donne, alcol e automobili. Il resto l’ho sperperato”.

In Italia il numero sette ci rimanda, anzitutto, al grande Luigi Meroni, estroso e geniale, che rifiutò la chiamata in Nazionale per non tagliarsi i capelli. Per non farlo andare alla Juve (sempre i soliti!) i tifosi del Torino minacciarono la rivolta, gli Agnelli capirono, e non se ne fece nulla. Per portarlo via dal Torino ci volle il destino crudele materializzatosi in una macchina che lo investì mentre passeggiava in centro. Dopo Meroni il Torino ha avuto un altro grande numero sette, il poeta del gol, Claudio Sala, che con Graziani e Pulici, i gemelli del gol, riesci a riportare nella Torino granata il primo scudetto del dopo Superga. Negli stessi anni si affermava in Italia l’estro di Franco Causio, brillante e concreto, punto fermo della Nazionale di Bearzot nel Mondiale argentino, e subito dopo Bruno Conti, che ereditò il ruolo di Causio al Mundial ’82 e che, per l’estro, la tecnica e la capacità di saltare gli avversari, fu considerato da Pelè il più brasiliano degli italiani. Julinho, Garrincha, George Best, Romeo Menti, Luigi Meroni, Claudio Sala, Franco Causio e Bruno Conti hanno  avuto una caratteristica in comune: hanno utilizzato il loro notevole estro calcistico in maniera determinante per i risultati delle rispettive squadre. Senza di loro quelle squadre non sarebbero state le stesse e non avrebbero vinto alla stessa maniera. È l’essenza del grande numero sette, avere un grande estro calcistico e renderlo determinante per la propria squadra.

Venendo ai giorni nostri, la maglia numero sette è stata la prescelta per grandissimi campioni rispondenti al nome di Luis Figo, David Beckham, Andriy Shevchenko, Raul, Franck Ribéry, Cristiano Ronaldo, Kylian Mbappé, non tutti identificabili nel ruolo classico dell’ala destra, ma tutti grandissimi campioni, tutti rispondenti al criterio dell’estro e dell’essere determinanti per i successi delle proprie squadre.


Il grande valore di questo numero di maglia è riemerso, con molto piacere, in questi giorni che hanno visto Frank Ribery arrivare alla Fiorentina. Pare che l’assegnazione del numero di maglia sia stata oggetto di specifiche pattuizione contrattuali, e la Fiorentina ha dovuto modificare la precedente assegnazione del numero, toccata a Pulgar, per soddisfare la richiesta del suo nuovo acquisto.

La storia del numero di maglia di Ribéry alla Fiorentina desta sensazioni piacevoli, anzitutto perché ci parla di un calciatore attento a simboli, legami e valori che un mondo del calcio troppo materiale tende, talvolta, a cancellare. E poi, soprattutto, perché alla Fiorentina la maglia numero sette ha una valenza ancor più particolare, perché ogni volta che a Firenze si è cercato di fare una grande squadra c’è stato sempre un grande numero sette

Abbiamo già citato Julinho, che arrivò alla Fiorentina nel 1955, su richiesta di Fulvio Bernardini, il quale affermò che «un'ala può arrivare a Julinho, non oltre”.  Fulvio Bernardini amava i piedi buoni (e in questo Montella sembra essergli simile), ed ebbe ragione in tutto. Quell’anno la Provvidenza, tramite un proprio rappresentante in terra rispondente al nome di padre Volpi, mandò a Firenze anche Montuori, e nel giro di dieci mesi la Fiorentina vinceva il suo primo scudetto. Julinho rimase poco in Italia, appena tre stagioni, vittima del richiamo irresistibile della saudade, e per rimanere in alto il presidente Enrico Befani chiamò un altro grande numero sette, Kurt Hamrin, col quale la Fiorentina arrivò due volte seconda in campionato, e vinse Coppa Italia e Coppa delle Coppe. Ceduto Hamrin, in maniera quasi inaspettata, a tredici anni esatti dal primo scudetto, nasceva la Fiorentina del secondo scudetto, ed in maniera altrettanto inaspettata quell’anno la maglia numero sette ebbe un grande interprete, Luciano Chiarugi, determinantissimo nella volata finale. Può essere che a quel punto qualcuno si sia reso conto della portata determinante del numero sette o della buona sorte che ha sulla squadra un buon numero sette, ma sta di fatto che dopo lo smantellamento della squadra del secondo scudetto il primo campione della nuova era si chiamava Giancarlo Antognoni, e la maglia che gli fu affidata fu la numero sette, schierato nel ruolo di ala destra, almeno fino a che la dieci non rimase sulle spalle di De Sisti. Passati tredici anni dal secondo scudetto, e siamo al 1982, toccava riprovarci, e lo si fece ancora partendo dal sette, Daniel Bertoni, Campione del Mondo 1978, che quell’anno segnò nove reti e fu determinante nella lotta al titolo, perso tra le polemiche all’ultima giornata. Dall’82 in poi non si sono registrate stagioni in cui la Fiorentina abbia realmente lottato per i vertici della classifica, ma qualche tentativo di costruire squadre competitive sì, e sempre puntando su un grande numero sette, come con Angelo Di Livio nell’anno di Trapattoni, per esempio.

Ecco, dunque, che l’attenzione al numero di maglia di Franck Ribéry desta sensazioni piacevoli, perché rimanda la mente a momenti in cui a Firenze si è cercato di costruire grandi squadre. 

In realtà a Firenze c’era già un potenziale grande numero sette, rispondente al nome di Federico Chiesa, che però per il momento preferisce numeri di maglia meno impegnativi, e magari coglierà l’occasione di giocare col grande campione francese per ereditarne il numero di maglia con maggiore consapevolezza.

Obiettivamente non sappiamo quanto potrà dare Franck Ribéry alla Fiorentina. Trentasei anni per un calciatore non sono pochi, ma l’ex Bayern è un campione vero, integro, e questo ha grande peso in termini di professionalità, di esperienza e di classe. In una squadra in via di rifondazione, in un gruppo di giovani, la sua presenza deve essere un grande sollievo.

Con altrettanta obiettività siamo tutti consapevoli che i tempi in cui le outsider potevano guardare ai vertici della classifica sono molto lontani, oggi il divario economico e tecnico tra le prime tre e le altre sembra essere enorme, per cui è difficile anche immaginarsi troppo in alto. Sicuramente le stagioni possono avere le loro particolarità e possono dare soddisfazioni di vario tipo. Qualcosa di buono da qualche parte esce sempre.

Di certo, se la storia significa qualcosa, quando si parla di Fiorentina, di squadra rifondata, di grandi campioni che prendono la numero sette, i presagi sono sicuramente buoni.



Francesco Germano