Dal proverbiale “Primo: non prenderle” del Maestro Enzo Bearzot, al più diffuso “i campionati si vincono in difesa”, oppure, “gli attaccanti vincono le partite. Le difese i campionati”, fino all’arcinoto e ridondante “catenaccio all’italiana”, la letteratura calcistica è piena di espressioni e di esempi tesi ad evidenziare, spesso in accezione negativa, una caratteristica ben definita del calcio italico: la particolare abilità nella fase difensiva.

La predilezione per la difesa non è o, -meglio-, non era un fatto meramente calcistico ma, come spesso accade, aveva un suo retaggio culturale, un suo legame con la realtà sociale della quale il calcio è espressione. In Italia la difesa è un concetto nobile, legato all’orgoglio di preservare un valore, un merito, un bene meritevole di tutela, mentre non sempre è così per l’attacco, concetto spesso usato in accezione negativa. In fin dei conti,  nella nostra lingua, difesa è il contrario di offesa, parola dai connotati decisamente negativi. E così si preferiscono, per esempio, espressioni come difesa dell’ambiente o difesa della legalità, quando si potrebbe benissimo dire attacco a chi inquina o attacco all’illegalità. Espressioni chiaramente poco usate se non sconsigliate! Il concetto di attacco è sempre impegnativo, forte, offensivo, anche se rivolto contro una male palese. Difesa è più confortante, ci fa sentire sempre dalla parte della ragione, impegnati in una giusta causa. Come avviene anche per le guerre. Mai una che non sia nata per difendere questa o quella civiltà! Gli stessi Ministeri che addestrano gli eserciti altro non si chiamano che Ministero della Difesa, e finanche la Costituzione sancisce che La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Se la difesa è sacra nella società, figurati nel calcio, che della società esprime gli aspetti più istintivi. 

Sia come sia, il calcio italiano è stato sempre indicato come marcatamente difensivista, soprattutto a livello internazionale, dove le differenze col calcio di impronta diversa erano più evidenti. Con l’espressione difensivismo italiano o catenaccio all’italiana si indicava, in genere, un atteggiamento tattico rinunciatario delle nostre squadre, a scapito del bel gioco e dello spettacolo. La critica era, naturalmente generica ed approssimativa, perché spesso la solidità difensiva si mostrava con la bellezza e la vigoria del gioco maschio (tanto caro a Gianni Brera) e si legava con uno spettacolare gioco di rimessa, che esaltava le doti tecniche delle ali e dei fantasisti. La storia del calcio e le stesse partite più belle della storia del calcio forniscono esempi infiniti, ben oltre la mitica Italia Germania del ’70 o i Mondiali vinti nel 1982 e nel 2006. La stessa Inter del triplete esaltava questi aspetti. 

Alla critica negativa sulla tendenza del nostro calcio a privilegiare la fase difensiva, spesso  pretestuosa da parte di chi evidentemente con le italiane aveva patito qualcosa, era speculare un’altra considerazione, questa volta in senso positivo, sull’enorme valore delle difese e dei difensori italiani.  Ancora qualche mese fa José Mourinho ha espresso parole di grande elogio per la coppia Chiellini-Bonucci, dicendo di loro: “dovrebbero tenere un corso universitario ad Harvard per come difendono. Sono fantastici, assolutamente fantastici”. Le parole di Mourinho suonano come un riconoscimento agli ultimi eredi di una grande tradizione di difensori italiani, che possiamo elencare in un itinerario ideale che parte da Burgnich, Rosato e Facchetti, e passa per l’epica difesa della Nazionale di Bearzot, quella in cui l’eleganza di Scirea si sposava alla perfezione con la potenza superba di Gentile e compagnia, fino agli implacabili Cannavaro e Materazzi del Mondiale 2006, senza dimenticare Baresi e Maldini, in capo al mondo col Milan stellare del Cavalier Berlusconi, i bravissimi ma sfortunati Rocca e Nesta, e, non ultimo, Pietro Vierchowod, l’incubo di Van Basten e Maradona, che con lui non riuscì mai a segnare e lo soprannominò l’Uomo verde, l’incredibile Hulk. 

La fioritura di tanti campioni per le retrovie delle nostre squadre non era, naturalmente, casuale, ma figlia di una cultura calcistica molto solida, che sapeva formare grandi difensori e sapeva creare grandi difese. Claudio Nassi, uno dei migliori direttori sportivi di sempre, ripeteva che “in Italia non c’è bisogno di portare difensori stranieri, i difensori sappiamo farceli in casa”

L’inversione di tendenza arrivò negli anni novanta quando, secondo un imprinting di marca decisamente anglosassone, al quale non erano estranee le sopravvenute esigenze delle prime pay tv, il calcio difensivo andava bandito in favore del calcio offensivo. Il termine offensivo perdeva i suoi connotati negativi e diventava sinonimo di spettacolare, avvincente, redditizio. Cambiarono le regole, il gioco maschio veniva più severamente sanzionato, e, soprattutto, il non prenderle non equivaleva più a non darne: dal 1993 in poi la vittoria non valeva più due punti ma tre, non più il doppio del pareggio, ma il triplo. Il calcio difensivo, quello che poteva ritenere utile il pareggio, non pagava più. Avere difese fortissime non equivaleva ad avere attacchi fortissimi. L’Italia si adeguò, non coltivò la sua tradizione per le grandi difese, visse di rendita coi giovani all’epoca già formati secondo il vecchio stile, Cannavaro, Ferrara, Materazzi, e si rassegnò a puntare e ad investire sugli attaccanti, a partire dai settori giovanili. 

Oggi, a distanza di qualche anno, si cominciano a vedere gli effetti negativi di quella inversione di rotta. L’esperienza generale avrebbe dovuto suggerire che il disancorarsi dalle proprie tradizioni e dalle proprie radici significa staccarsi dalle fondamenta, diventare instabili, deboli, cadenti. L’esperienza sportiva avrebbe dovuto suggerire che per costruire grandi squadre la cultura della difesa era l’unico modo o, comunque, un modo pur sempre necessario per porre dei limiti all’avversa offensività. L’errore è stato, dunque, quello di voler correre dietro la novità, puntare ed investire sul gioco offensivo e sui calciatori di attacco, chiamati a dare lezioni in una scuola di chiare tradizioni difensivistiche. L’errore è stato non far corrispondere gli investimenti fatti per i difensori a quelli fatti per gli altri ruoli. Non si è investito né prendendo i migliori esponenti del ruolo, perché tenessero alto il livello e facessero scuola, né crescendo adeguatamente i propri giovani. Pietro Virchowod lo ripete sempre, “i difensori di oggi non sanno difendere perché nessuno insegna loro come si difende”.

Il risultato è che oggi di quella tradizione sembra esserci rimasto ben poco. L’under 21 dell’ultima europeo, giustamente presentata come una delle più forti di sempre, ha manifestato grossi limiti proprio rispetto ai difensori. Più in generale, i giovani difensori più promettenti del nostro campionato, i vari Rugani, Caldara, Mancini, Romagnoli, non sembrano all’altezza dei predecessori o non hanno trovato modo di dimostrarlo ad alti livelli. Un bel problema per la Nazionale maggiore, ben nutrita negli altri settori, ma in difesa oltre Bonucci e Chiellini sembra esserci il vuoto.

Per i grandi club, soprattutto per quelli che hanno ansia e necessità di affermarsi subito, è  arrivato, dunque, il momento di correre ai ripari, e per tutti è risultato inevitabile puntare su difensori di importazione. Il troppo tempo perso non era ricuperabile diversamente. E così le grandi coppie di difensori portano tutti cognomi poco italici: Skriniar-De Vrij, come gli alter ego Godin-Miranda, oppure Koulibaly-Manolas, mentre anche la Juventus, soprattutto la Juventus, la culla delle difese italiche, si avvia a soppiantare gli ultimi eredi della tradizione coi nuovi campioni del ruolo provenienti dall’estero. De Light da questo punto di vista sembra costituire l’apice di una certa inversione di tendenza, che porta ad impiegare i maggiori investimenti su un difensore proveniente da un campionato estero piuttosto che su un attaccante.

A voler vedere qualcosa di positivo in tutto questo, la speranza è che il beneficio di tali investimenti per i migliori difensori stranieri non sia solo per i club che li avranno a disposizione, ma abbia anche un valore formativo per le nuove leve che cresceranno sulle loro orme. L’arrivo di grossi campioni in ruoli difensivi, ruoli che in Italia hanno avuto una tradizione importante, potrebbe servire a fare buona scuola e a farci riprendere le fila di un primato che una volta ci risultava naturale, ammesso che ci sia ancora il terreno fertile di una volta e che di quella tradizione sia rimasto qualcosa. 

Francesco Germano