Il mondo del calcio dimentica spesso che all’origine di tanti successi, di tante pagine belle di sport e di civiltà sportiva, ci sono uomini che per genio, passione, intelligenza, e ad altri meriti innumerevoli, hanno lavorato per ottenere certe condizioni e certi risultati. Uomini senza i quali lo sport che racontiamo non sarebbe lo stesso, e i nostri stessi ricordi di gloria e di soddisfazioni non sarebbero uguali. Appare più che giusto, dunque, ricordare queste grandi figure dello sport, per rendere merito al loro operato ed anche per indicarli come esempio, come monito, per dire che neanche in futuro le belle pagine di calcio non si scriveranno per caso, perché le buone idee devono pur sempre camminare sulle gambe delle persone. Il senso della celebrazione delle ricorrenze è anche questo, cogliere un anniversario per onorare la memoria di una persona legata in qualche modo a quella data, e per celebrarne doverosamente la carriera.

Oggi appare più che doveroso fare questo verso una figura che, in maniera determinante, ha costituito la colonna portante del nostro calcio degli anni settanta e ottanta, quello che in molti considerano il più bello, il calcio romantico e passionale che toccò il suo apice nella vittoria mondiale del 1982. Il calcio guidato, a livello mondiale, da Artemio Franchi, che più di ogni cosa amò la Nazionale italiana, oltre che il Palio di Siena e la propria contrada che non lo vinceva da tempo.

Il 12 agosto 1983 Artemio Franchi, Presidente UEFA in carica e vicepresidente FIFA, praticamente il dirigente di calcio più potente d’Europa ed uno dei più potenti al mondo, correva da Firenze a Siena, per occuparsi del Palio di Siena, e non quale rappresentante istituzionale, ma come sostenitore di una contrada che non vinceva oramai da molti anni. Non per affari, ma per la passione profonda, viscerale, istintiva, che sta alla base della gesta sportive di ogni genere, anche sul piano dirigenziale. Purtroppo quella passione in più, forse la sua prima passione, gli fu fatale e fu fatale al calcio italiano.

La sua auto, indirizzata alla volta di Siena per inseguire un obiettivo sportivo, perdeva aderenza sull’asfalto bagnato e si schiantava contro un camion. Artemio Franchi perdeva la vita così, correndo tra una passione sportiva ed un’altra, tra il calcio che guidava a livello mondiale e il Palio di Siena, per il quale quel giorno voleva trattare la partecipazione di un fantino. Una morte molto prematura, ad appena 61 anni, arrivata nel momento in cui Franchi stava per essere investito della massima carica del calcio mondiale, la presidenza della FIFA, erede designato di Havelange, del quale era vicepresidente.

Per quanto la vita di un dirigente possa essere vista come qualcosa di freddo e burocratico, in quella di Artemio Franchi emerge la passione, dall’inizio alla fine, quale elemento dominante in una carriera che gli ha permesso di dominare gli squali dell’ambiente con la forza della sua estraneità alle bassezze che spesso accompagnano il potere. Pare che Havelange, presidente FIFA dell’epoca ed al centro di diversi casi di corruzione, fosse quasi costretto a tenersi vicino Franchi, perché non ricattabile e forse perché lui stesso ne temeva il potere di denuncia. Anche questo fu un punto di forza di Artemio Franchi, l’essersi mantenuto pulito in un mondo che forse tanto pulito non era. 

Passione, intelligenza ed onestà, che ne hanno fatto il dirigente italiano più potente e più apprezzato nel mondo. 

Cominciò alla Fiorentina, la squadra della sua città di nascita e della quale era tifoso, nei primi anni cinquanta, dove contribuì a gettare le basi, soprattutto di impostazione economica, per la favolosa viola degli anni ’50, quella del primo scudetto, della Coppa delle Coppe, dei tanti secondo posto, e della finale di Coppa dei Campioni persa nei minuti finali col Real Madrid. 

Proseguì nei ranghi federali, assumendo la presidenza della FIGC nel 1967, dopo il fallimento del mondiale inglese e della disfatta con la Corea. Giusto un anno dopo l’Italia di Ferruccio Valcareggi si aggiudicava il Campionato Europeo e due anni dopo arrivava in finale al Campionato Mondiale di Messico 1970, piegandosi solo al fortissimo Brasile di Pelé. 

Sotto la sua guida il calcio italiano ottenne traguardi mai più raggiunti. 

Continuò l’opera del conte Ridolfi, del quale fu in un certo senso l’erede, nell’accentramento delle attività federali presso il centro sportivo di Coverciano, e negli anni segnati dal suo lavoro si impose la tradizione degli allenatori di formazione federale alla guida della Nazionale. Il sostituto di Valcareggi fu il suo secondo, Enzo Bearzot, ed anche il sostituto di quest’ultimo fu il federale Azeglio Vicini, e così fino a Cesare Maldini, che era stato secondo di Bearzot. Una tradizione di grandi soddisfazioni per il nostro calcio nazionale, svincolato dalle logiche dei club e legato ad una propria storia di grande prestigio.

Agli occhi dello sportivo, il carisma di Artemio Franchi si è manifestato soprattutto nella gestione della Nazionale, la sua prediletta, che seguiva con discrezione, facendo sentire la sua presenza solo per le cose che contano. Dopo il fallimento del Mondiale di Germania nel 1974, dove la Nazionale di Valcareggi non seppe mantenere i livelli di quattro anni prima, l’Italia si affidò al duo Fulvio Bernardini-Enzo Bearzot e dal ’77 solo a Bearzot, al quale Franchi non fece mai mancare il suo sostegno, discreto ma autorevolissimo. Fu anche grazie a questo che si creò quel gruppo favoloso che si impose al Mondiale di Spagna nel 1982. Sarebbe stato impossibile per chiunque, anche per Enzo Bearzot, mettersi contro tutta la stampa, lasciare fuori il capocannoniere del campionato e campioni affermatissimi come Beccalossi ed altri, e mantenere con piena autorità la guida della Nazionale anche a seguito di esordi non brillanti. Enzo Bearzot era autorevole di suo, è chiaro, ma la sua autorità era ben sostenuta, ed a sostenerla, in fondo, c’era lui, Artemio Franchi. 

Sempre per il calcio nazionale, Artemio Franchi ottenne il massimo riconoscimento con l’assegnazione dell’organizzazione del Mondiale 1990, un traguardo che non ha potuto neanche vedere approvato, perché la sua morte arrivò pochi mesi prima della deliberazione, avvenuta nel 1984. Artemio Franchi ci aveva lavorato per anni, esercitando tutta la sua influenza nella FIFA, probabilmente già dagli anni ’70. L’incidente sulla via di Siena gli ha tolto la soddisfazione di vedere coi suoi occhi il fatto compiuto, ma per come lavorava lui forse non ce n’era neanche bisogno, perché Artemio Franchi costruiva le cose per bene, ed andava a colpo sicuro. E tante cose sarebbero andate diversamente, a cominciare dall’inondazione di calciatori stranieri che già dall’anno dopo imperversarono ad ogni livello nel nostro calcio, anticipando di gran lunga gli effetti della sentenza Bosman.

Purtroppo possiamo solo immaginare come sarebbero andate le cose se quel giorno di 36 anni fa la sua vita non si fosse infranta contro un camion. La prima cosa che viene da pensare è che col suo sostegno e la sua guida discreta, il Mondiale del 1986 sarebbe andato diversamente, magari avrebbe incoraggiato Bearzot a lasciare a casa gli anziani eroi di Spagna per dare spazio agli emergenti, ma soprattutto non gli avrebbe consentito di lasciare la Nazionale prima del Mondiale ’90, perché il Mondiale giocato in casa doveva essere la consacrazione del nostro calcio, l’affermazione più alta, la ciliegina sulla vittoria dell’82.
Purtroppo non andò così, e forse a causa di quella contrada che non vinceva il Palio da molti anni… 

Francesco Germano