Ergeremo festosi alto trofeo! Così Omero, elogiando la guerra, opra di Marte, nell’Iliade, mentre l’Odissea è tutta un’ode per l’eroe omonimo; perché c’è una stretta relazione tra eroe e trofeo: sono i due termini essenziali di tutto ciò che appartiene al mito e all’epica.

Il trofeo è il simbolo, il monumento, il segno della vittoria, della messa in fuga dell’avversario, è il riconoscimento solenne che glorifica il guerriero o lo sportivo che riesce ad aggiudicarselo, perché capace di rendere onore alla propria gente. È il legame forte tra un popolo che si glorifica nell’eroe e quest’ultimo che è glorificato dagli onori della sua gente. Più grande è l’impresa, più importante è il trofeo. È il distintivo degli eroi, che li fa essere inferiori soltanto agli Dei. Lo stesso Eracle, l'eroe dorico per eccellenza, è ricordato, unico tra dei ed eroi, per l'erezione di un trofeo.

Già nel 467 a.c. Eschilo, nei Sette contro Tebe, indicava il trofeo come premio della vittoria: “Se gli eventi andranno a buon fine e la città sarà salva, insanguineremo di greggi i focolari dei numi e innalzeremo trofei”. Per gli eserciti greci in età classica il rito di vittoria più consolidato era quello di innalzare un trofeo sul campo stesso di battaglia, nel punto in cui era avvenuta la rotta del nemico. Gli storici Tucidide e Senofonte raccontano che i vincitori tenevano moltissimo all’innalzamento del trofeo e se serviva sopportavano gravi disagi per compiere l’opera, ma una volta realizzato il trofeo era inviolabile.

Si continuò coi Macedoni per la celebrazione delle imprese di Alessandro in Asia, la cui testimonianza più diretta è offerta dal sarcofago di Sidone, mentre presso gli antichi romani il riconoscimento del trofeo passava per una acclamazione pubblica, a seconda dei casi l’ovatio o il trionfo, che precedeva la presentazione dell’eroe davanti alla statua di Giove con in testa la corona di alloro, il simbolo del grande prestigio sociale acquisito, mentre per i grandi imperatori, Cesare,  Ottaviano e Traiano, i trofei erano costituiti da veri e propri monumenti sparsi per l’impero, a testimoniarne la gloria imperitura. 

I trofei dell’antichità sono legati, in via esclusiva, alle conquiste belliche o a particolari vittorie in guerra, ed anche nei secoli più recenti i massimi onori e le conseguenti ricchezze sono state legate a vicende del genere, almeno fino alla seconda guerra mondiale, quando una maggiore consapevolezza pacifista unita alla tendenza degli Stati a combattersi più che altro sul piano finanziario, ha lasciato buoni spazi perché il culto del trofeo potesse esprimersi in settori meno cruenti, come lo sport, per esempio, e, per quanto ci riguarda, il calcio.

Da un punto di vista strettamente europeo, due sono i massimi trofei che una squadra di calcio possa aggiudicarsi: la Coppa del Mondo per le nazionali e la Champions League per le singole società private. Si discute da anni su quale, tra questi due, sia prevalente. Per i tifosi e per i calciatori il massimo sembra essere rappresentato dalla Coppa del Mondo, soprattutto per quelli che non hanno la fortuna di poter giocare nel proprio Paese, mentre per i club e, talvolta, anche per i loro tifosi, è esattamente il contrario. Punti di vista, ragionamenti anche oziosi, per competizioni tutto sommato diverse, che si giocano anche in tempi, modi e con frequenza diverse.

Certo è che, a livello di club, in un calcio decisamente eurocentrico, quantomeno per la forza attrattiva che il calcio europeo ha verso gli altri continenti, il trofeo più ambito è, senza dubbio la Champions League, già conosciuta come Coppa dei Campioni, assegnata ogni anno alla squadra che, dopo una serie di gironi eliminatori ed una serie di scontri ad eliminazione diretta, batte in finale una antagonista che ha seguito lo stesso cursus

La finale di Champions League è un momento veramente solenne, al pari delle grandi cerimonie di Stato. Vi prendono parte, oltre a tutti i vertici UEFA e sportivi in genere, le massime autorità civili e personaggi di ogni arte; le dirette televisive non si contano, pare che la trasmissione arrivi in ogni parte del mondo, con una diffusione incomparabile con qualsiasi evento civile o religioso. Nella finale Champions si condensano tutti gli elementi mitici del trofeo: la sfida, la vittoria, l’annientamento del nemico, l’eroe, l’ovatio, il trionfo. Tutto si manifesta alla fine, dopo novanta, o centoventi minuti, e talvolta anche dopo i calci di rigore, quando una sola squadra, un solo capitano, mettono un dito nell’Olimpo del Calcio, e vi innalzano la Coppa più desiderata, il massimo trofeo UEFA, la Champions League, alta 73,5 cm, pesante 7.5 kg. Ma non è detto che tutti possano portarsi il trofeo a casa. Solo chi l'ha vinta cinque volte o tre volte di fila può farlo, gli altri devono riprovare. Ad oggi le uniche squadre a possederlo sono Real Madrid, Ajax, Bayern Monaco, Milan e Liverpool.

Molte sono le immagini storiche e indimenticabili che questo trofeo ci rimanda alla mente. Il Milan di Sacchi che scende dalle scale dell’aereo con la Coppa tenuta da Baresi, con a fianco un giovane Ancelotti che quella coppa la vincerà più volte anche da allenatore. Scene simili qualche anno dopo, con Capello al posto di Sacchi, e poi con Ancelotti, Maldini, Inzaghi. In tutto il Milan di Berlusconi ne ha vinte cinque in venti anni, un record per una sola proprietà, segno che il Cavaliere aveva ragione a voler fare la formazione, perché di calcio ne capiva, e l’ostinazione a voler ricominciare dal Monza a ottant’anni è la conferma di una passione autentica. E poi la Juventus del 1996, con Vialli e Ravanelli in prima linea, sotto la guida di quel Marcello Lippi che dieci anni dopo alzerà al cielo anche la Coppa del Mondo, e questa volta riuscirà anche a commuoversi. Ed infine la coppa al cielo tra le mani di Zanetti al Santiago Bernabeu, il 22 maggio 2010, e subito dopo Mourinho che abbraccia Materazzi e parte per un’altra avventura, segno che il massimo traguardo era stato raggiunto ed era già tempo di cercare nuovi stimoli.

E la coppa non è solo il simbolo della gloria calcistica. Così come accadeva coi soldati nel corso della storia, alla gloria corrisponde anche il riconoscimento di adeguate ricchezze, che, tornando a noi, per le squadre che disputano il torneo le somme riconosciute si aggirano intorno ai 10 milioni di euro per ogni turno superato, fino ad arrivare a 120 milioni di euro per la squadra vincitrice, oltre incassi al botteghino, sponsor e rendite di immagine, per un totale che, secondo alcuni analisti, può arrivare a 150 milioni. Si capisce che per i club la coppa è tutto!

Per non farci mancare niente, diciamo pure che la Champions League come la Europa League hanno anche una certa valenza politica, quali trofei che tendono ad unificare sotto un solo simbolo il calcio europeo, perché si sa che il calcio è uno dei maggiori veicoli di relazioni tra i popoli. 

Secondo una regola non scritta del calcio giocato, per affermarsi in una competizione occorre dotarsi di calciatori che in quella competizione si siano già affermati. Questa regola spiega il mercato condotto, per esempio, dalla Juventus, l’acquisto di Ronaldo e di De Ligt, come pure l’ingaggio di Sarri dopo la sua affermazione in Europa League. Ma non solo! Stesso discorso può farsi per il Napoli, che dopo aver ingaggiato Ancelotti l’anno scorso, punta ora James Rodriguez, che la Champions l’ha giocata con più maglie. Ed anche Conte all’Inter non è da meno: la sua ostinazione ad avere, dopo Godin, anche Lukaku e Dzeco è dettata dalla volontà di avere anche in avanti gente che abbia dimostrato di sapersi imporre a certi livelli, soprattuto nel campionato inglese, dal quale provengono le dominatrici delle coppe europee. Quattro finaliste su quattro nell’ultima edizione di Europa League e Champion League non possono essere un caso, e Conte sa bene che con questo dato bisognerà fare i conti prima o poi. 

Ora, osservando questi movimenti, sembra che per i nostri club sia arrivato il momento di ritentare l’assalto alla Champions, che manca oramai da dieci anni, da quella notte al Bernabeu con Mourinho. Non parliamo solo della Juventus, dove ne hanno fatto oramai una ragione di vita, ma anche del Napoli, che si sta dotando di profili adeguati allo scopo, e dell’Inter, alla quale Conte pure vorrebbe dare un’impronta di livello internazionale. Tutti si stanno muovendo per allestire squadre di peso per imporsi a livello internazionale. Ed è una buona notizia.

Anche nell’antichità, l’affermazione in un competizione e la conquista del trofeo servivano a dare animo, forza, identità, all’intera collettività interessata. In un mondo in cui i principi dominanti erano quello del lottare per sopravvivere, mors tua vita mea, si vis pacem para bellum, la mancanza di vittoria significava depressione, soccombenza, morte. Ora i tempi sono altri, i rischi non esattamente uguali, e stiamo comunque parlando di un gioco, ma nell’ambito di questo gioco, che nel nostro paese ha una tradizione molto radicata, quasi identitaria, sapere che stiamo allestendo la flotta per tornare a combattere è motivo di incoraggiamento ed entusiasmo, perché si tratta di un aspetto della vita sociale nel quale molti italiani, non solo l’italiano medio, si identificano in maniera quasi naturale, come con la politica, come si faceva un tempo con la guerra, della quale il calcio costituisce la metafora pacifista.

Aspettiamo, dunque, che i generali Sarri, Ancelotti e Conti allestiscano le loro corazzate forti ed invincibili, e facciamo il tifo per tutti loro, perché è tempo di dire all’Europa della Champions League che l’Italia c’è, ed è forte, decisa e determinata a prendersi gli onori che le spettano.

Francesco Germano