Nelle ultima 48 ore mondo pallonaro, e (soprattutto) non, è stato scosso dalle parole della signorina Eniola Aluko, ormai ex calciatrice della Juve di origine nigeriana con passaporto britannico. Durissime le sue affermazioni riguardo non tanto il calcio italiano in sé, ma su una presunta vena razzista del capoluogo piemontese:

"Lasciare dopo 18 mesi non è stata una decisione facile ma ho dovuto riflettere sul fatto che fuori dal campo gli ultimi sei mesi sono stati difficili.​ [...] A volte Torino sembra un paio di decenni indietro rispetto all'apertura verso diversi tipi di persone. Sono stancata di entrare nei negozi e avere la sensazione che il titolare si aspettava che rubassi qualcosa. Può capitarti tante volte di arrivare all'aeroporto di Torino ed essere trattata come Pablo Escobar per via dei cani anti-droga intorno a te. Non ho mai avuto problemi di razzismo dai tifosi della Juve né in campionato ma c'è un problema nel calcio italiano e in italia. La risposta che viene data mi preoccupa: dai presidenti ai tifosi del calcio maschile che lo vedono come parte della propria cultura."

Il caso è rientrato nel lasso di tempo di un pomeriggio e sono arrivate prontamente le scuse da parte di Eniola:

"[...] Non lascio la Juventus a causa del razzismo, la lascio per molte ragioni di cui ho parlato, sia positive che negative, in un momento eccitante della mia vita con molte opportunità per il futuro. Invito tutti a leggere il mio articolo con equilibrio e a capire che si è trattato di esempi di esperienze, buone e cattive, che ho avuto anche nel mio paese, l'Inghilterra."

Anche senza essere dentro l'ambiente professionistico di una squadra di calcio, non è difficile dedurre cosa sia accaduto: sfogo social di un'ex tesserata della Juve, telefonata del responsabile della comunicazione esterna della società bianconera, rettifica del post precedente con tanto di scuse. La sequenza è la stessa rispetto a quanto accaduto l'anno passato con un'altra ex calciatrice juventina, la svedese Petronella Ekroth, rea di aver dispensato parole non proprio al miele su Cristiano Ronaldo.

Ciò che deve fare riflettere su questa spiacevole vicenda non è tanto la versione (quale che sia) della signorina Aluko, semmai le tonnellate di inchiostro gettate a sproposito da pseudo-intellettuali senza spina dorsale che hanno colto l'occasione per montarne un caso politico. Intendiamoci: il razzismo esiste davvero ed è un cancro da estirpare culturalmente. Tuttavia esistono anche due concetti ormai arcaici che si chiamano 'capacità di analisi' e 'deontologia professionale' che dovrebbero servire a discernere un fenomeno di matrice razzista da uno che non lo è.

Torino è una città che da sempre non è facile per chi vi risiede non essendovi nato. Al suo interno convivono molte anime: operaia, aristocratica, sabauda, multiculturale, industriale, turistica, universitaria, museale, sportiva e chi più ne ha più ne metta. Ma una costante che ha sempre conservato nel tempo è un non so che di snob nei confronti del forestiero, una certa ritrosia verso il mondo esterno, quasi un voler mantenere le distanze da chi non fa parte strettamente dell'universo torinese. E' una freddezza che - mi rendo conto - a molti non piaccia, ma scambiarla per razzismo - specie per chi non c'è abituato - è una cosa altrettanto fastidiosa per un torinese che si vede affibbiata una patente infame che non ha niente a che vedere con la propria cultura. 

Oggigiorno di torinesi autoctoni ne sono rimasti forse un 10% e sto andando per eccesso. Il resto sono tutti immigrati e figli, nipoti e persino pronipoti di immigrati a partire dalla prima ondata degli anni '50 del secolo scorso. Ovviamente è cambiata nel corso dei decenni l'origine etnica degli immigrati: da calabresi, siciliani e napoletani si è passati a rumeni, marocchini, cinesi e sudamericani. Su una popolazione totale di 874.108 abitanti, ben 133.522 non sono nati in Italia, vale a dire il 15,05%, e nell'ultimo anno ha attratto 3,8 milioni di turisti. Ergo, sentirsi dire che Torino non è una città multiculturale e aperta al mondo significa o non esserci mai stato o essere in malafede. Certo, Torino non è Londra. Se la signorina Aluko si aspettava di trovare il Tamigi al posto del Po, di visitare il British Museum invece del Museo Egizio o di passeggiare per Trafalgar Square e non Piazza Castello probabilmente sarà rimasta delusa. La zona collinare non è abbastanza chic per Sua Maestà? Il bicerin non è un cocktail di suo gradimento? Via Garibaldi è razzista forse perché non si chiama Churchill Street?

Se la signorina Aluko si è resa banale con le sue dichiarazioni, i radical chic italici sono sprofondati nel ridicolo. E una faccenda del tutto marginale si è trasformata grazie a loro in una crociata politica volta a stigmatizzare non solo i razzisti, ma una bella fetta del popolo italiano che vota per il partito 'sbagliato'.

Non mi andava di entrare in territorio politico, ma la situazione in questo caso lo richiede. I radical chic sono fondamentalmente degli intellettualoidi benestanti che dispensano consigli su tutto e si fanno promotori di riforme velleitarie senza avere la benché minima idea dei processi sociali reali. Detto in parole povere, sono degli umanoidi che non si sono mai scrostati dal divano di casa e che della vita delle persone disagiate - che dicono di difendere - non sanno proprio nulla. Il radical chic non soffre solo di sinistrismo (falsamente) politically correct, ma attacca tutte le posizioni politiche che non collimano con la propria bollandole come 'incostituzionali', 'fasciste', 'estremiste', 'socialmente devianti'. Il radical chic si erge a depositario unico della verità, rifiutando il confronto con idee che si discostano da sé. Il radical chic ha ambizione di cambiare il mondo standosene rintanato nella sua gabbia dorata e - quindi - evitando di immergersi nella vita reale con le sue problematiche reali. Il radical chic pensa che alla radice di tutto vi sia un problema culturale, mentre non si rende conto che magari suddetto problema è scaturito da una condizione economica e lavorativa precaria, due problemi ai quali non sa minimamente come porvi rimedio. Il radical chic incolpa la parte politica avversa di diffondere una subcultura antidemocratica, quando non si rende conto di essere lui stesso antidemocratico visto che non riconosce come legittima una posizione differente dalla sua. Il radical chic protegge a spada tratta l'immigrato irregolare appena sbarcato in Italia, ma si dimentica di fare altrettanto con l'italiano che ha perso il lavoro o che versa in cattive condizioni economiche; e poi si lamenta se costui vota partiti 'antidemocratici'. Posso andare avanti una giornata intera se voglio...

Ricapitolando: 1) il razzismo è una piaga che va estirpata; 2) freddezza non significa razzismo; 3) i radical chic sono un cancro tanto quanto i razzisti. 

Ma prevedibilmente, leggendo questo articolo, i radical chic ometteranno i punti 1 e 2 e manderanno la "gestapo politically correct" ad arrestarmi in virtù del punto 3.