Nel fine settimana una bomba d'acqua si è riversata sul nord Italia dopo settimane di caldo torrido. E' sembrato quasi l'arrivo provvidenziale dei pompieri per arginare lo scoppio di un incendio doloso architettato da qualche mente insana, sperando che tanta acqua potesse in qualche modo soffocarne il livore. Probabilmente devono essere state queste le elucubrazioni di Giuseppe Marotta guardando dalla finestra del suo ufficio, in zona Porta Nuova, il nubifragio che si stava abbattendo su Milano. Ma da dirigente ultra navigato qual è, sa anche che stavolta non arriverà nessun pompiere a spegnere l'altro incendio, ovvero quello innescato dalle dichiarazioni di Antonio Conte nel dopopartita di Atalanta-Inter. L'allenatore salentino, è risaputo, non è certo andato a scuola di diplomazia nel corso della sua carriera di allenatore (e a ben pensarci, neppure quando era calciatore). Tuttavia, esiste una invisibile linea rossa che al netto degli sfoghi adrenalinici post gara non deve essere superata. Conte è andato ben oltre, sparando cannonate contro società e proprietà. Un affronto che, anche se non si arriverà alla risoluzione del contratto, avrà comunque delle conseguenze.

La domanda che pongo non è tanto sui contenuti di ciò che ha detto l'allenatore nerazzurro, e neppure delle ragioni che lo hanno portato a esplodere colpi contro il fuoco amico. Quello che cerco di capire è se vi sia una strategia nel Conte "comunicatore", cioè se abbia pianificato le sue esternazioni per ottenere qualcosa (più potere sul mercato? più soldi?) oppure se i suoi accessi d'ira siano soltanto il frutto di un animo collerico che non riesce a controllarsi quando le cose non vanno come pianificate. Senza tirare in ballo le dichiarazioni di quando era ancora un novello debuttante sulla panchina dell'Arezzo (stagione 2006/07), nel corso della sua carriera si possono astrarre alcuni momenti esegetici che ci aiutano a capire la trasformazione del personaggio Antonio Conte prima ancora che del tecnico (seppure le due cose siano indissoubilmente legate).

La prima "pillola" che mi viene in mente riguarda la stagione 2010/11. Conte, dopo un'esperienza tutt'altro che esaltante sulla panchina dell'Atalanta, decide di scendere di categoria e va ad allenare il Siena. In campionato è stabilmente tra le prime tre, ma come ogni febbraio (il suo mese nero) la squadra ha una flessione: ne pareggia due di fila e perde la terza in casa contro il Piacenza che lotta per non retrocedere. Lo sfogo in conferenza stampa non si fa attendere:

"Abbiamo una squadra che sta facendo un campionato incredibile, ma adesso mi sto stufando di sentire tutte queste str****** da parte di questi pseudo intenditori. Con il presidente e con il direttore abbiamo abbassato il monte ingaggi che era fondamentale per questa società, sono rimasti in rosa dei giocatori che erano morti e che non voleva nessuno. Sono andati via i vari Maccarone, Ekdal, Ghezzal, Rosi, Curci, mentre le altre squadre hanno tenuto i migliori e si sono persino rinforzate, noi invece abbiamo dovuto vendere. E invece di applaudire la nostra stagione questi pseudo tifosi vengono al campo a fischiare, c'era gente che ha goduto quando abbiamo perso col Piacenza. Io difendo a spada tratta il mio lavoro che è un grande lavoro e ringraziate il Signore che c'è Conte al Siena. Queste persone non vogliono il bene del Siena, ma io la difenderò con i denti e con le unghie di fronte a questi pseudo tifosi! Gufi state a casa! Ma per fortuna ci sono anche i veri tifosi che ci stanno vicini come i gruppi organizzati. E questo mi dà ancora più avvelenamento perché noi ci andiamo in Serie A, e nessuno si azzardi a salire su quel ca*** di carro. Il Siena oggi è una corazzata perché ci sono Perinetti e Conte, mentre abbiamo un parco giocatori di gente che non ha mai vinto un campionato di Serie B" (26/2/2011). 

Al di là del linguaggio colorito, Conte rivendica insieme alla società di essere il vero artefice dell'ottima stagione del Siena e se la prende con quei (pseudo) tifosi che a suo dire non hanno sostenuto la squadra nei momenti di difficoltà. A suo dire, la rosa a disposizione del tecnico sarebbe inadeguata per lottare per il vertice, essendosi addirittura indebolita per sistemare il monte ingaggi, e se rimane tra le prime posizioni è solo per merito del direttore sportivo Perinetti e di lui medesimo. Menzione non proprio gratificante per i suoi calciatori.

Nella stagione successiva (2011/12) Conte approda nuovamente a Torino, stavolta da allenatore. La prima partita si gioca allo Stadium, appena costruito, contro il Parma. Finisce 4-1 per la Juventus, ma il tecnico leccese si presenta davanti ai microfoni per nulla soddisfatto:

"Non voglio regali, ma vorrei che si azzerasse tutto. E che nessuno si ergesse a paladino di giustizia quando viene ad arbitrare qui. Ci è stato annullato un gol regolare e c'era rigore su Matri. Abbiamo condotto la partita dall'inizio alla fine ma da un arbitraggio mi aspetto delle decisioni uniformi, invece ci sono state delle situazioni dubbie [...] Detto che non mi piace parlare dei singoli, è stata la miglior risposta a qualche scettico. Si è detto che Pirlo non era adatto al mio gioco, ma la verità è che è un campione: e quelli possono giocare con qualsiasi allenatore" (11/9/2011).

In questo caso Conte lancia subito un messaggio forte e chiaro al sistema arbitrale: la Juve ha già pagato per il 2006, perciò se c'è un rigore solare per la Vecchia Signora va assegnato senza dubbi amletici. La difesa nei confronti della società è molto forte (ricambiato) e rilascia parole al miele anche nei confronti della squadra e di alcuni singoli, in tal modo legittimando il lavoro svolto dalla dirigenza. Orgoglio e senso di appartenenza che non vengono scalfiti neppure dopo l'eliminazione, diciotto mesi più tardi, ai quarti di finale di Champions per mano del Bayern:

"Non ci aspettavamo né più né meno, volevamo capire quanto eravamo distanti. C'è sicuramente tanto lavoro da fare. Se hai i soldi, prendi, compri e vinci. Altrimenti ci vuole pazienza. C'è bisogno di tempo per crescere in Europa, ma questo lo sapevamo già. Ho fatto i complimenti ai ragazzi, perché hanno fatto qualcosa di importante. Essere riusciti a vincere in Italia ed essere tornati tra le prime 8 d'Europa quando due anni fa non eravamo nemmeno in Europa League è qualcosa di straordinario. Bisogna riconoscere quando si affrontano delle squadre molto più forti. [...] Mi viene da ridere quando sento che con due o tre acquisti si possa vincere la Champions. Il calcio italiano è fermo e questo deve essere chiaro a tutti. All'estero fanno investimenti e progetti, da noi si parla di arbitri e della soubrette con la quale esce un giocatore. Quando vinsi la Champions con Lippi, la squadra di riferimento era l'Ajax che lavorava con i giovani. Adesso l'Ajax non esiste: ci sono le superpotenze come Real, Bayern, Barcellona, Psg, squadre che hanno un fatturato di oltre 400 milioni" (10/4/2013).

E' certamente un Conte deluso quello che emerge da un'eliminazione senza attenuanti contro una compagine più forte in tutti i reparti. Ma è anche un uomo conscio delle potenzialità e dei limiti dei propri giocatori e che comprende che la distanza della Juve dalle grandi d'Europa non è da addebitarsi alla società bianconera, ma a un ritardo strutturale del calcio italiano. E' probabilmente in questa circostanza che si rende conto che la Champions con la Juve è un autentico miraggio, ma non vi è traccia di stoccate a dirigenza e squadra. Almeno, non ancora.

Il 5 maggio 2014, durante i festeggiamenti del terzo scudetto consecutivo, Conte si lascia scappare la celeberrima frase che gli rimarrà appiccicata come una maledizione:

"Quando ti siedi in un ristorante dove si pagano 100 euro, non puoi pensare di mangiare con soli 10 euro" (5/5/2014).

In queste parole è racchiuso, in estrema sintesi, l'intero personaggio Antonio Conte. Un allenatore certamente preparato, motivatore, sempre sul pezzo, inflessibile con sé medesimo e con gli altri, ma anche con dei gravi limiti a livello comunicativo e umano. Un professionista che all'inizio della sua carriera metteva la società davanti a sé (o quantomeno sullo stesso piano) e che via via fa scivolare tutto sotto il suo ego smisurato. Anche se è un percorso graduale, si può dire che dal 5 maggio 2014 il nuovo motto di Conte sia diventato: Io vinco, Noi pareggiamo, Voi perdete.   

Da quando prende le redini della Nazionale italiana, due mesi dopo, è già un Conte diverso: non più capo popolo di una squadra e rispettiva tifoseria, ma capo solo di sé stesso e del suo staff, pronto a bacchettare chiunque non si allinei ai suoi diktat. Dopo 5 vittorie e un pareggio, pensa bene di mandare un segnale inequivocabile alla federazione, ai club e a tutto il calcio italiano:

"Mi aspettavo più partecipazione da parte di tutti, invece ho visto poca disponibilità a collaborare con la Nazionale. Mi trovo costretto ad avere questi ragazzi solo 7/8 giorni al mese e mi si chiede lasciare un'impronta. Io qui sono solo, gli altri fanno tante chiacchiere ma zero fatti. Noi lavoriamo, ma più di questo non posso fare. C'è totale mancanza di considerazione nei confronti della Nazionale, a parole sono tutti bravi ma poi nessuno passa ai fatti. Io sto iniziando a stancarmi. Voglio i fatti!" (18/11/2014).

Conte ha ormai mollato gli ormeggi del confronto dialettico: non vuole solo comandare, ma anche decidere la calendarizzazione a proprio uso e consumo. E pazienza se in mezzo ci sono le "inutili" partite della Serie A e della Champions League. L'avventura con la nazionale non poteva che finire con un divorzio e con una coda di veleno che ritroveremo in seguito:

"I ragazzi hanno dato tutto quello che avevano, sono orgoglioso di loro. [...] Non mi sono mai sentito appoggiato, sembrava che mi dovessi battere da solo contro tutti. Ma l'ho fatto per la Nazionale, non per me" (2/7/2016).

Un plauso alla squadra e una polemica (contro chi? la federazione? i club?), ma soprattutto un leitmotiv che d'ora in poi sarà sempre presente nella comunicazione di Antonio Conte: quel non sentirsi appoggiato che in qualche maniera ne frustra le ambizioni.

I due anni al Chelsea portano in dote una Premier League e una FA Cup. Ovviamente fa in tempo a litigare anche lì. L'oggetto del contendere è il benservito dato a Diego Costa via sms che costa (scusate il gioco di parole) al salentino la rescissione unilaterale del contratto per giusta causa. Conte però non vince solo sul campo ma anche in tribunale e ottiene un risarcimento di 26,6 milioni di sterline. Quanto alle dichiarazioni a mezzo stampa non se ne riscontrano al vetriolo, se non qualche stoccata alla società per non avergli consentito un ruolo più attivo sul mercato.

E arriviamo ai giorni nostri, stagione 2019/20. Antonio Conte è il nuovo allenatore dell'Inter. Da qui in poi c'è solo l'imbarazzo della scelta, manna dal cielo per i giornali scandalistici. Facciamo una rapida rassegna:

"Pensavo di essere più avanti, siamo molto indietro soprattutto sulle cessioni. Dobbiamo darci una mossa, per me è importante avere tempo per lavorare con i giocatori" (19/7/2019).

"Sono stufo di dover parlare sempre delle stesse cose. Venisse qualche dirigente a dire qualcosa. A inizio stagione sono stati fatti errori importanti, spero che queste partite facciano capire qualcosa a chi di dovere. Non possiamo affrontare Champions e campionato in queste condizioni, è inutile nascondersi dietro ad un dito. [...] Mi sono fidato di alcune situazioni quando abbiamo progettato la campagna acquisti, magari non avrei dovuto fidarmi, questa rosa ha dei limiti" (5/11/2019 Borussia Dortmund-Inter 3-2).

"A parte Godin nessuno ha vinto niente. A chi dobbiamo chiedere qualcosa in più? A Nicolò Barella che arriva dal Cagliari? A Sensi, acquistato dal Sassuolo? Ai calciatori devo dire solo grazie, stanno dando l'anima. Dobbiamo continuare a lavorare, le vittorie in campionato non devono far dimenticare i problemi, i grandi problemi che abbiamo" (5/11/2019 Borussia Dortmund-Inter 3-2).

"Per me questo è il primo anno con l'Inter e ho dovuto prendere un pacchetto preconfezionato" (5/7/2020, Inter-Bologna 1-2).

"Noi giochiamo ogni 3 giorni mentre i nostri avversari giocano ogni 5 giorni. Quando hanno fatto il calendario forse noi non c'eravamo" (19/7/2020 Roma-Inter 2-2).

"Ci sono stati attacchi gratuiti nei confronti miei e dei calciatori e questo non mi è piaciuto. Questo risultato ce lo gustiamo noi, io e i calciatori che lavoriamo alla Pinetina, gli altri non devono salire sul nostro carro" (1/8/2020 Atalanta-Inter 0-2).

"Non è stato riconosciuto il mio lavoro, quello dei ragazzi. C’è stata scarsissima protezione da parte del club nei miei confronti. C’è da migliorare fuori dal campo. Non mi piace quando la gente sale sul carro. All’Inter è successo questo. Se si è deboli è difficile difendere me e la squadra. Uno il parafulmine lo fa una volta, due sarebbe da scemi. Queste cose succedevano già nel 2017 quando c’era Spalletti" (1/8/2020 Atalanta-Inter 0-2).

Le sparate di Conte sono state talmente numerose negli ultimi 13 mesi che è impossibile riportarle tutte. Ma c'è un filo conduttore che le unisce tutte: la dirigenza. Ed è proprio questo nuovo "target" che alza il livello della posta in palio. Prima del suo approdo all'Inter Conte se la prendeva, in ordine sparso, con una parte della tifoseria, gli arbitri, la federazione, i giornalisti, alcuni giocatori mediocri, tutti e nessuno. Mai con gli amministratori del club. Oggi viceversa le sue stoccate sono dirette contro i dirigenti, rei a suo dire di non avergli messo a disposizione una squadra competitiva. Anche quando attacca i prorpi calciatori (Barella e Sensi usati come esempio di chi non ha vinto nulla), lo fa per stanare indirettamente la società. Mentre prima il nemico era esterno, adesso è interno, è un membro con il quale si lavora. Il tecnico leccese, in altre parole, ha portato la guerra tra le mura domestiche.

La battaglia che sta conducendo Conte è diventata più ideologica che razionale. Ormai ritiene di poter fare a meno di quello scomodo "cuscinetto" che sta tra lui e il presidente. Vuole comandare non solo a bacchetta i suoi giocatori, ma anche spendere i soldi del proprietario a suo piacimento. E' convinto che una società debba essere monolitica nella sua interezza e che non ci sia spazio per il dissenso interno: chiunque non la pensi come lui deve essere allontanato, idem chi non tenga il suo passo. Poco importa se a venire licenziati sono gli stessi che l'hanno assunto. Conte è entrato in un pericoloso loop nel quale è presente soltanto il suo ego. Quest'anno era certo che lo scudetto si sarebbe potuto vincere se solo i dirigenti gli avessero allestito la squadra con i giocatori che LUI aveva richiesto, se la SUA rosa fosse stata rimpolpata numericamente e qualitativamente e se la società avesse protetto il SUO lavoro facendosi valere nelle sedi politiche. Conte è convinto di aver perso per colpa dei dirigenti.

Ora, da che mondo è mondo le Weltanschauungskrieg, cioè le guerre ideologiche, si risolvono sempre in un bagno di sangue e ad avere la peggio è in genere chi sta in posizione subordinata. Le due volte in cui Antonio Conte ha chiesto più potere in società (Juve e Chelsea) è stato respinto con perdite. Se lo farà anche stavolta andando allo scontro frontale, l'esito sarà il medesimo. Altri allenatori, con un ego simile se non superiore al suo, sono riusciti laddove lui ha fallito, uno su tutti Mourinho. Ad oggi Conte non solo non ha spiccato il salto definitivo per diventare un top manager riconosciuto all'estero come in Italia, ma pare stia pericolosamente regredendo sia dal punto di vista tecnico che da quello gestionale e comunicativo. Quale top club si porterebbe in casa una variabile impazzita che al primo mal di pancia si mette a sparare cannonate contro la SUA società?

In tutto ciò, vale la pena di ricordare quello che disse il presidente Andrea Agnelli durante la presentazione di Maurizio Sarri alla Juventus: "Noi sappiamo chi vogliamo e soprattutto chi non vogliamo". E' una frase che racchiude un pensiero fondamentale: non tutti possono lavorare per noi. Agnelli ha preferito assumere un troglodita, perdente, fastidioso, maleducato, impresentabile individuo piuttosto che riportare Conte sulla panchina della Juve. Qualcosa vorrà pur dire.