Non ci credete?
E invece sì. I felsinei sono stati la squadra più forte del continente, in ben due occasioni, negli anni ’30 dello scorso secolo. No, attenzione, non siamo in nessun universo parallelo di Nolan (che sta sbancando nei cinema di tutto il mondo con il suo nuovo lungometraggio) e non sto inventando una favoletta tratta da un videogioco. Il Bologna è stato campione d’Europa, anche se non nell’epoca in cui è esistita la Coppa dei Campioni, poi evoluta in Champions League e che domani sarà chissà cos’altro. Ben prima dell’avvento della massima competizione continentale che tutti noi conosciamo, la quale ha trovato origine nel 1955 travolta dal Real Madrid dei fenomeni che dominò incontrastata le prime edizioni, esisteva un altro torneo che gli storici del calcio definiscono come precursore di quello arcinoto fino alle nostre generazioni. Questo coincideva con la mitologica Mitropa Cup. Detta così, sembra sempre più uno scherzo. Infatti, menzionare tale competizione è sempre stato da quando ricordi uno degli sfottò tipici dei tifosi interisti nei confronti dei cugini rossoneri, che nel 1982 vinsero il trofeo, ma in un format completamente rivisitato rispetto alle origini e che prevedeva la partecipazione dei club appartenenti al secondo livello calcistico delle federazioni aderenti. Per farla breve: vi partecipavano le squadre che militavano in Serie B. Ecco perché, quando si sente parlare di Mitropa, l’idea è quella di star parlando di una coppetta o portaombrelli (come va di moda dire adesso), utile solo a ricordare al Diavolo i suoi trascorsi in cadetteria ad inizio anni ’80. Come detto, però, prima della nascita delle competizioni UEFA, questa coppa aveva una valenza ben diversa, tanto è vero che lo stesso nome per identificarlo era anche più epico, se vogliamo: la Coppa dell’Europa Centrale.

 

Hugo Meisl: l’innovatore del calcio

Quando a scuola consigliano di imparare le lingue internazionali per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, un esempio che si potrebbe portare è quello di Hugo Meisl. L’austriaco, nato verso la fine del XIX secolo, apprese precocemente il tedesco. Ciò convinse i familiari a farlo studiare a Vienna. Lui si mise d’impegno: inglese, francese, spagnolo e italiano. Non c’era una grande lingua europea che non conoscesse. E mentre si avviava ad una carriera brillante in banca, iniziò ad avvicinarsi al mondo del calcio, all’epoca ancora un vero e proprio diletto: giocò fino all’età di 24 anni, poi tentò la strada arbitrale, fondò una squadra di calcio e infine divenne allenatore e dirigente della Nazionale, contribuendo in modo decisivo alla nascita della Federazione. Insomma, una persona piena di risorse, una fucina, che non poteva non concepire un qualcosa che avrebbe avuto una portata rivoluzionaria. Dopo la Prima Guerra Mondiale (a cui lui partecipò attivamente sul fronte dell’Isonzo ottenendo anche una medaglia al valor militare), decise di dare una svolta al calcio. In primis, era un sostenitore del professionismo. Secondo lui, era necessario che quello sport praticato ancora a livello dilettantistico, si elevasse in modo tale da rendere questo gioco sempre più performante e valido. Fu così che nel 1924 l’Austria divenne il primo Paese europeo a introdurre proprio il professionismo, che ormai per noi è un fatto assodato ai grandi livelli del movimento calcistico. Un pioniere, visto che il modello venne poi seguito praticamente da qualunque altra federazione. Questo, però, fu solo il primo assaggio: mentre Rimet stava muovendo i primi passi per costituire quella che sarebbe divenuta la Coppa del Mondo, il torneo più importante della storia del calcio per Nazionali, Meisl gettò le basi per costruire quella che sarebbe diventata con il tempo la competizione per club più importante del pianeta. L’idea era semplice: far partecipare le migliori squadre dei più importanti campionati nazionali dell’epoca. Nel 1927 si disputò la prima edizione, che vide la partecipazione di due team per quattro federazioni aderenti: Austria, Ungheria, Cecoslovacchia e Jugoslavia. Quest’ultima fu sostituita due anni dopo dall’Italia. Letta oggi, qualcuno ancora una volta potrebbe pensare che tutta questa storia sia una burla. Ma guai a sottovalutare quello che, in quel periodo, era il miglior prodotto possibile: il calcio danubiano.

 

Il calcio danubiano, il calcio latino, il caso Inghilterra: che succedeva nell’Europa del calcio?

Negli anni ’20, esistevano due grandi modi di giocare a calcio: il primo, di stampo britannico, era definito “sistema”, e prevedeva un 3-4-3 con i centrocampisti non in linea, ma con due mediani e due trequartisti, che diveniva dunque una sorta di 3-2-2-3, introducendo la figura dello stopper (mi viene sempre da ridere quando penso a questo termine, se qualcuno è fan di Boris mi capirà) e la marcatura “a uomo”; il secondo, chiamato “metodo”, fu sviluppato in Italia da Vittorio Pozzo, e prevedeva il ruolo di centromediano metodista come cardine del 4-3-3, modulo tipico con due terzini, due interni di centrocampo e la punta centrale supportata da due esterni alti. In questa diatriba, si inserì Meisl, che sintetizzò i due modelli in un ibrido, cambiando i ruoli in relazione alle fasi di gioco e stimolando il possesso palla rasoterra. Fu questa una delle innovazioni che rese celebre quello che venne poi col tempo rinominato “calcio danubiano”, riferendosi con tale appellativo ai movimenti calcistici bagnati dal fiume Danubio e che furono tra i più fiorenti di quel periodo storico. Prove della qualità di questi Paesi vennero offerte anche dalle finali dei Mondiali vinti dall’Italia, che dovette superare rispettivamente Cecoslovacchia (1934) e Ungheria (1938).

Qualcuno avrebbe potuto obiettare che non si poteva minimamente parlare di Coppa dei Campioni, visto che all’appello mancavano esponenti del calcio latino (Portogallo, Spagna e Francia) e del calcio tedesco. Cosa impensabile ai giorni d’oggi, visto che queste nazioni rappresentano pezzi fondamentali dello scacchiere europeo, ma che all’epoca erano assolutamente in secondo piano. L’unico campionato latino di livello era proprio quello italiano, non a caso invitato nel 1929 a far parte della Mitropa. C’era solo un vero limite: l’assenza delle squadre britanniche.

Il calcio di Albione era, a parere pressoché unanime, uno dei più floridi e competitivi dell’epoca; ergo, per assegnare il titolo di miglior squadra d’Europa, sarebbe stato corretto inserirle nel novero delle partecipanti. Peccato, però, che il problema non fosse degli organizzatori della competizione, ma della stessa Gran Bretagna: nel 1928 entrò in conflitto con la FIFA, abbandonandola e, contemporaneamente, snobbando tutte le competizioni internazionali, in aperta contestazione. Motivo del contendere? Alcune vedute differenti su professionismo/dilettantismo oltre al fatto che, sebbene questo sia tutto da dimostrare, vi fu una sorta di malcontento per la mancata assegnazione dei Mondiali del 1930, che si disputarono in Uruguay e che, Oltremanica, videro come un affronto, essendo la patria del football e, in quanto tale, titolare di una sorta di diritto a ospitare la prima rassegna iridata.

Insomma, al netto dell’assenza inglese, si poteva definire come una vera e propria coppa aperta alle migliori squadre del continente dell’epoca, che nelle intenzioni doveva rappresentare l’antipasto di un vero e proprio campionato europeo. Idea abbandonata perché i calendari impedivano di poterlo mettere a punto (vi ricorda qualcosa?). I primi risultati dell’Italia non furono degni di nota, finché nel 1932…

 

Bologna campione d’Europa… senza giocare la finale!

Ai nastri di partenza della quinta edizione della Coppa dell’Europa Centrale partecipavano le prime due classificate del campionato italiano appena terminato: Juventus e Bologna. Nel 1929 il pallone nostrano aveva subito una radicale modifica, introducendo il girone unico e facendo nascere quella che è l’odierna Serie A. L’Inter trionfò al primo tentativo, poi fu il turno della Juventus, che aprì una striscia di 5 scudetti consecutivi che restò per tantissimo tempo un record (condiviso solo con Torino e la stessa Inter), prima che la stessa Signora riuscisse ad autosuperarsi con i 9 titoli consecutivi dello scorso decennio. Nel giugno del 1932, è tutto pronto. Il format è semplicissimo: si parte dai quarti di finale, fino alla finale, con tutti gli incontri disputati andata e ritorno, compreso l’atto conclusivo. Gli emiliani partono fortissimo e contro lo Sparta Praga stravincono 5-0 in casa: Reguzzoni, una doppietta di Maini, Schiavio e Baldi travolgono gli avversari, rifilando una manita in 66 minuti. Nella partita di ritorno, la sconfitta per 3-0 è solo un grosso spavento: la semifinale è ovviamente ottenuta. Il 10 luglio 1932 l’andata è ancora tra le mura amiche. Stavolta contro si ha il First Vienna e la partita è di tutt’altro tenore: serve più di un’ora al solito Maini per spezzare l’equilibrio, prima del raddoppio di Sansone nel finale che conduce al ritorno con un 2-0 che può far stare più tranquilli. Nel match austriaco, il Vienna va in vantaggio dopo un quarto d’ora, ma il Bologna riesce a reggere l’urto: è in finale!
Dall’altra parte, la sfida è tra Juventus e Slavia Praga, e l’ipotesi di una finale tutta italiana renderebbe ancor più frizzanti i match. Ma dopo la gara di andata in Cecoslovacchia, questa eventualità sembra ormai irraggiungibile: 4-0 per lo Slavia. Un risultato enorme, scandito da avvisaglie poco piacevoli che presagivano solo il gran caos del secondo incontro: violenza da ambo le parti, invasioni di campo a più riprese, fino al rigore concesso ai locali verso fine partita che scatena le proteste dei giocatori bianconeri, i quali accerchiano il direttore di gara che finisce a terra. Da ciò nasce una vera e propria rissa tra calciatori, ai quali si aggiungono spettatori invasori: serve l’intervento della polizia per sedare gli animi, seppur qualche calciatore non potrà riuscire a terminare il match a causa delle ferite riportate. La partita finisce con il poker e con l’espulsione dell’attaccante dei piemontesi Cesarini, capocannoniere del torneo. Dopo 4 giorni, c’è il ritorno e con un passivo del genere sembra impossibile rimontare: eppure, le aspettative sono alte e la tensione, alimentata dai fatti dell’andata, è alle stelle. Sugli spalti ci sono Giovanni ed Edoardo Agnelli, il popolo juventino spinge verso un’impresa storica: Cesarini (all’epoca l’espulsione non comportava l’assenza nel turno successivo) e Orsi danno una speranza segnando un gol a testa. A fine primo tempo, la Juve è sul 2-0.
A inizio ripresa, però, accade l’inaspettato: gli ospiti iniziano a perdere tempo e a spezzettare il gioco, fino a quanto il portiere Planicka si accascia a terra. Un sasso lo ha colpito: questa è la versione cecoslovacca, non supportata dalle tesi italiane. La squadra si ritira immediatamente negli spogliatoi per protesta, sommersa dai fischi. L’arbitro cerca di capire cosa stia succedendo, e attende i canonici 10 minuti per il rientro della squadra, che però non avviene: la partita è finita, vince la Juventus a tavolino. Almeno così pare: la finale tutta italiana sembra alle porte, ma il Comitato della Coppa non è d’accordo. Riunitosi un mese dopo i fatti, decreta la squalifica per entrambe le compagini: lo Slavia paga il ritiro e il mancato ritorno in campo, mentre ai torinesi vengono contestate le ripetute intemperanze di sostenitori e calciatori durante la partita. La Juve è furibonda, fa ricorso, persino il Bologna allenato da Lelovics propone un triangolare contro le due contendenti per assegnare il trofeo: niente da fare, il Comitato non vuole saperne. E fu così che, nel 1932, il Bologna fu la prima squadra italiana a trionfare in una competizione internazionale pur non giocando la finale. Ma lo possiamo dire senza timore: divenne campione d’Europa.

 

Evoluzione e fine della Mitropa Cup

Nel 1934, i felsinei replicarono il successo, stavolta vincendo sul campo. Il torneo si era allargato a 16 squadre, consentendo la partecipazione a 4 team per ogni federazione aderente. Il Bologna, dopo una stagione travagliata in campionato, si fece largo in Europa: eliminò in serie gli ungheresi del Bocksay, poi il Rapid Vienna, il Ferencvaros e infine l’Admira. Quest’ultimi vincono a Vienna il match di andata per 3-2, rimontando il passivo del primo tempo in 5 minuti nella ripresa (anticipando una finale di Champions League disputata 71 anni più tardi. Non sto ridendo, giuro).
Il match di ritorno, il 9 settembre, il Bologna straripa e vince 5-1, con gol di Maini, Fedullo e soprattutto con una tripletta di Reguzzoni, che si laurea anche capocannoniere della manifestazione con 10 centri. Di quella rosa, oltre al già citato Schiavio, faceva parte anche Monzeglio: entrambi furono protagonisti del successo azzurro in Coppa del Mondo. Spedizione a cui non partecipò il fenomenale attaccante (inspiegabilmente). Queste vittorie internazionali serviranno per aprire il grande ciclo nazionale del Bologna, che vinse 4 scudetti tra il 1935/36 e il 1940/41, e guadagnarsi l'appellativo con cui è conosciuta: la squadra che tremare il mondo fa.

La Mitropa resistette fino al 1939: nel frattempo, due anni prima, il suo ideatore morì all’età di 56 anni, con un grande lascito, anche a livello di Nazionale, avendo portato a compimento il progetto della Coppa Internazionale, progenitrice degli Europei. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fermò la rassegna, che ritornò solamente nel 1955 (nel 1951 ci fu un’edizione solamente austriaca): peccato che, nello stesso anno, la UEFA realizzò un progetto più inclusivo, inglobando club appartenenti a tutte le federazioni europee in quella che sappiamo bene essere la Coppa dei Campioni. Inoltre, anche le big del calcio cambiarono posizionamento: eccetto i magiari, che per tutti gli anni ’50 proseguirono a far vedere grandi cose, ormai il calcio si era spostato verso i paesi latini (tanto che nacque una coppa quasi di risposta, appunto, la Coppa Latina, anch’essa considerata come l’antipasto della Champions League).
Con il crescente successo delle manifestazioni UEFA (che nel frattempo aveva aggiunto la Coppa delle Coppe nel 1960 e la Coppa UEFA nel 1971), l’attrazione della Mitropa divenne pian piano sempre minore, con molti Paesi che cominciarono a far partecipare le squadre che non si qualificavano nelle più sfiziose (e redditizie) competizioni alternative. L’Italia vinse ancora con il Bologna (1961) e con la Fiorentina (1966). Dal 1979, il cambio di rotta fu praticamente definitivo, con l’Italia che lanciò solamente squadre di Serie B. Questo permise a molte compagini di trovare gloria europea: oltre al Milan, si fregiarono del titolo Udinese, Pisa (2 volte), Ascoli, Bari e Torino. L’ultima edizione fu giocata a Foggia nel 1992, con la vittoria del Borac Banja Luka e con Baiano capocannoniere del torneo.
Con la dissoluzione jugoslava e con l’interesse del pubblico ormai prossimo allo zero (stava per nascere la versione moderna della Champions League), si decise di porre fine ad una competizione storica, suggestiva, nostalgica e di culto. Ma che, prima di tutto questo, fu l’antesignana della principale coppa europea per club. Che il Bologna vinse per ben due volte, di cui una senza giocare la finale.

 

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