L’Inter ha travolto la Lazio per 3-0. Non c’è appello, non ci sono battute ridicole sui calci di rigore che tengano, unico appiglio (inutile) a cui si affidano i detrattori di una squadra dalle qualità pazzesche, riconosciute persino da Maurizio Sarri, uscito sconfitto non tanto dalla dimensione del risultato, ma dalla prestazione.
Ebbene sì, un allenatore a cui è stato riconosciuto universalmente (per primo in Inghilterra) di praticare un gioco di alto livello, si è arreso ad un avversario troppo superiore. E se l’organico interista, sapientemente costruito da Marotta e soci, ha il suo valore, non si può non riconoscere al suo timoniere di aver saputo dare un’identità ben definita ai suoi, coniugata con la spettacolarizzazione di quanto offerto. La Supercoppa Italiana con formato a 4 non aveva senso fino a ieri sera, dove forse una ragione di esistere l’ha trovata: dopo una prestazione così sontuosa, possiamo finalmente parlare di “inzaghismo”?

Simone da Piacenza ha un grande pregio: è poco mediatico. O, perlomeno, dovrebbe essere così. Nella realtà, ancora oggi questa condizione è vissuta come un difetto. Al netto del memabile (e memorabile) “spiaze”, reso iconico a seguito delle sue interviste post-gara sgolate, l’ex biancoceleste non si è mai prestato a polemiche sterili, ad alimentare dibattiti dalla scarsa utilità, non è mai apparso spaccone o appariscente di fronte alle telecamere. Persino in questi giorni, in cui la battutaccia del collega Allegri avrebbe potuto servirgli l’assist per rispondere a dovere: niente da fare, con l’allenatore interista non attacca.
Guai, però, a pensare ad un atteggiamento passivo o distaccato: durante i 90 minuti è sempre agitato, se la prende quando i suoi ragazzi non concretizzano a dovere (ieri il 3-0 doveva essere il risultato del primo tempo, non dell'intero match!), ha un fervore agonistico di chi vuole portare a casa la vittoria con convinzione e bel gioco, ma in tutto questo ha sempre un sacro rispetto della competizione e della dialettica. Non vuole scendere allo scontro, mai. Uno stile in controtendenza rispetto a questi anni in cui il calcio (e la vita) devono sempre avere qualcosa da dire, in cui regnano i dissing, le figuracce, le parole fuori luogo. No, lui è vecchio stile, in tal senso, ma estremamente moderno sul rettangolo verde.
E parliamo proprio di questo: in Italia non c’è ovviamente paragone con nessuno, ma anche in Europa sono poche le compagini che possono ritenersi superiori al prodotto interista. Ed è per tal motivo che sarebbe corretto iniziare a parlare di “corrente inzaghiana”. Per carità, non siamo di fronte alla rivoluzione copernicana, ma spesso vengono assegnati dei riconoscimenti da parte di pubblico e critica a operati ben più normali rispetto a quanto sta esibendo il tecnico emiliano.
In primis, il suo 3-5-2 è già di base un qualcosa di estremamente affascinante. Tra i big, probabilmente solo il predecessore Conte utilizza tale sistema di gioco ad alti livelli, mentre gli altri (da Guardiola a seguire) difficilmente rinunciano alla linea arretrata a 4. Lo schema inzaghiano, ad occhi superficiali, potrebbe apparire con un mascherato 5-3-2: in realtà, questa situazione non si verifica praticamente mai, pur mantenendo una solidità incredibile. L’idea che rende stuzzicante il gioco interista sta a mio avviso nella sapiente gestione dei “braccetti”. Prendiamo l’esempio più recente: Bastoni affonda e dà il via all’azione che porta allo strepitoso tacco di Dimarco per il tap-in di Thuram. Ora, il lavoro del numero 95 sarebbe tipico dell’esterno di centrocampo, ma in realtà l’ampiezza laterale che riesce a imprimere il gruppo nerazzurro consente di avere una marcia in più aggregando persino i difensori. Non di rado, ho visto Pavard sulla linea dei centrocampisti, con Calha arretrato per non lasciare sguarnita la retroguardia. E questo accade frequentemente, non solamente in una delle serate più belle della stagione.
Altra chiave, gli esterni. Il dispendio energetico è enorme, ma quanto ci sono le sventagliate, soprattutto a sinistra, è come assistere a una pennellata di un grande pittore, che ti porta a vivere una sensazione di bellezza, di piacevole gusto. Sul centrocampo, ci sarebbe da scrivere una tesi: un regista fisso e i due interni a tutto campo. Nello specifico, poi, ha degli interpreti che favoriscono questo tipo di attività, con una superiorità a tratti imbarazzante sulla trequarti garantita dal volume e dallo spessore del trio nevralgico. Davanti, invece, secondo me l’inserimento di Thuram ha arricchito ulteriormente lo spartito: giocare con una punta meno tipica (penso a Dzeko o a Lukaku) permette di avere più soluzioni offensive imprevedibili, tanto è vero che mai come quest’anno Lautaro Martinez è incontenibile sotto il profilo delle realizzazioni. Per carità, anche lì ci sarebbe da fare un discorso ben più profondo sulla crescita dei singoli, ma ritengo sia doveroso riconoscere a Simone Inzaghi la bontà del suo lavoro, troppo oscurata dalla mancanza di titoli “pesanti”.
Poi, c’è un’altra caratteristica che mi fa impazzire: la gestione del gruppo. Probabilmente, chi è esterno al mondo Inter non se ne accorge approfonditamente, ma c’è un clamoroso spirito altruistico che alberga in ogni componente. Quando il risultato è acquisito, invece di affondare con l’individualismo, si cerca di mettere il compagno che più necessita nelle condizioni di segnare o comunque di far qualcosa di utile alla causa. Emblematica l’azione sfumata nella chiacchieratissima sfida contro l’Hellas Verona tra Barella e Sanchez, in cui il primo ha cercato di servire il compagno pur a porta completamente sguarnita. Non solo, però: tutti cercano di fare in modo che ognuno metta il suo tassello in un’annata che può realmente dare grandi soddisfazioni. Sui cambi, qualche perplessità l’ho avuta nella sua ostinazione a non cambiare mai modulo (croce e delizia del credo inzaghiano) e a volte nel tardivo ricorso alle sostituzioni. Di contro, però, l’utilizzo totale degli slot è qualcosa che mi piace tantissimo, perché significa dare fiducia a tutto il collettivo. Persino ieri sera, seppure sul 2-0 e con un bello spezzone da disputare, ha scelto di avvicendare la coppia titolarissima con le alternative. Non era scontato, sarebbe bastato un gol della Lazio per riaprire i giochi e rendere il finale incandescente, eppure lui continua a voler dare occasioni e opportunità a tutti. Ha realmente plasmato un gruppo.

Eppure, non è stato sempre così. Ricordo benissimo lo scetticismo rispetto al suo arrivo. E forse era anche giustificato: venivamo da due anni di Conte, il migliore dopo l’epoca di Mourinho. Avevamo appena vinto lo Scudetto, Lukaku era andato via, Hakimi idem: la situazione era critica. E aver perso il tricolore contro un Milan oggettivamente superabile, è stato un duro colpo. L’anno scorso, poi, io stesso pensai che la storia tra l’Inter e Inzaghi fosse giunta al capolinea. Di colpo, la trasformazione: Inter-Barcellona. L’intuizione di Calhanoglu in cabina di regia (altra genialata da reclamizzare) e la vittoria per 1-0 contro i blaugrana del rosicone Xavi hanno dato nuova linfa sia alla stagione che all’intero percorso. E adesso, i frutti si stanno godendo: la squadra gioca bene, ti fa divertire, è paziente, attende gli spazi giusti per trovare le geometrie e affondare. Siamo sempre pericolosi, non rinunciamo mai a giocare, e ciò è stato dimostrato anche in finale contro il Manchester City: al cospetto dei campioni di tutto, perdere di misura (e in quel modo) è stato onorevole. Alla faccia di chi ha trasformato la sconfitta “a testa alta” in un insulto o sberleffo.

Tutto bello, ma siamo ancora a metà dell’opera: per cominciare, però, sarebbe gradevole riuscire a portare a casa il primo trofeo dell’anno. Per dimostrare ancora una volta che in questi anni è nato un nuovo fenomeno: l’"inzaghismo".

 

Indaco32