Non lo dire. Non usare quella parola. È terribile, ma se non la usi non sei al passo con i tempi, non sei compreso, non sei come il linguaggio moderno richiede.
Nelle ultime settimane, il panorama musicale italiano è stato scosso da un (chiedo scusa in anticipo) dissing. Stucchevole termine, ma che racchiude un significato abbastanza chiaro per tutti.
Paolo Meneguzzi si è scagliato contro J-Ax. Un momento, proprio mentre mi viene l’idea di scrivere di questa storia, ecco che ne arriva un altro, quasi come se fosse un nuovo capitolo di una serie tv antologica: Samuele Bersani twitta (rinnovo il mio profondo dispiacere per l’utilizzo di tali improperi) su autotune (basta, vi prego, non ne posso più!) e stonature varie, avendo come bersaglio Sfera Ebbasta. Panico. E non quello che intende Lazza, uno dei pochi fenomeni di quel genere musicale a catturare le mie simpatie.

Ma andiamo per ordine.
«Vedere gente tutta tatuata che va sul palco a cantare la Disco Paradise di turno mi fa tristezza. Quelle sono marchette»

Tali dichiarazioni sono state rese da Paolo Meneguzzi, al secolo Pablo Meneguzzo (!), che si è scagliato contro un’estate 2023 deprimente dal punto di vista artistico, con il riferimento ad uno dei tormentoni della stagione che non lascia spazio a fraintendimenti. La questione è discussa da anni: il componente più noto degli Articolo 31 è da anni sotto attacco da parte dei suoi (ex?) fans, che lo accusano di aver “tradito” alcuni ideali degli esordi, divenendo esso stesso parte di quel famoso “sistema” (che poi non si è mai capito che cosa si intenda con tale locuzione) che lui stesso contestava.
Parafrasando: se prima facevi canzoni come “La vita non è un film” o “Spirale ovale”, come fai a finire passato da tutte le radio a cantare robe tipo “Vorrei ma non posto” e simili? Sulla parabola dell’artista c’è poco da dire, ma gli va riconosciuto un qualcosa non da poco: è uno dei pochi ad aver ammesso candidamente questo cambiamento. E lo ha fatto pubblicamente, senza giri di parole, senza nascondersi in ipocrite e false spiegazioni.
Il suo moto di ribellione, la sua giovinezza, è trascorsa. Adesso affronta altri problemi, altre situazioni, altre battaglie: semplicemente, è cresciuto. Personalmente, sono stato a un suo concerto qualche tempo fa. E non posso negare di aver apprezzato esclusivamente le sequenze dei brani del periodo in cui il duo milanese aveva aperto le frontiere del rap in Italia, sdoganandolo al grande pubblico e aprendo una via con temi e rime intelligenti. Uno stile che, pur essendo lontano dal mio gusto, aveva un senso, una logica, un modo corretto di proporre il genere.
Dopo, è arrivata la fase critica, quella che, per motivi che probabilmente resteranno inspiegabili, accompagna il 99% dei cantanti e, per estensione, di tutti coloro che fanno parte del mondo creativo: la mancanza di idee e il ricorso a produzioni di ogni tipo pur di restare sulla cresta dell’onda. Una scelta necessaria, ma artisticamente poco comprensibile e, dunque, anche giustamente criticabile.
Dopo il primo scioglimento degli Articolo 31, non riesco a ricordare con piacere quasi alcun pezzo (fatta eccezione per “Intro”, meraviglioso resoconto della sua vita fino ad allora che può tranquillamente trovare spazio tra i migliori brani del suo repertorio).
Sto però divagando. Il j’accuse del cantante nato nel Ticino ha preso come spunto uno dei più in vista, ma il senso della questione è molto più ampio: che sta succedendo alla musica italiana e, nello specifico, al pop? Questa domanda andrebbe trasposta su tanti campi, persino il calcio di cui il nostro blog si occupa: come è possibile che ci sia stato un calo così vistoso su tutta la linea? Non ci sono più talenti amati e ammirati come un tempo, si fa fatica ad apprezzare le opere, non si riesce più a maturare quell’affetto smisurato che ha caratterizzato lo scenario artistico e sportivo almeno fino agli anni Duemila. Dopo il 2010 (vero anno spartiacque, in tutti i sensi), è come se il Paese si fosse infilato in una crisi creativa dalla quale fatica ancora a trovare la luce. È come se ci fosse un decadimento narrativo, letterario, poetico. Non ci sono più miti, più guide, più riferimenti come ne avevamo in passato in tutti i settori.

Ma ritorniamo al punto: J-Ax ha risposto.
«Non c’è niente di più triste dei cantanti falliti che danno la colpa al “pubblico che oggi non capisce più un c…o”. A tutti capita di fare canzoni che non “connettono” col mercato, con la moda o con i gusti delle nuove generazioni. Se quando succede vi ritrovate con in mano un pugno di mosche vuol dire che non avete una fan base che vi supporta anche nei momenti in cui non siete mainstream. Significa che avete fatto musica superficiale che non è entrata nel cuore della gente ma solo nelle orecchie, per poi uscirne dopo una stagione».

Bene. Analizziamo la situazione. Paolo Meneguzzi, che personalmente ricordo per un paio di partecipazioni al Festivalbar e per un tormentone (e adesso ne parliamo) dal titolo “Verofalso”, ha scagliato la sua idea. Condivisa da tante persone. Seguendo la vicenda, ho scoperto che ha goduto di un’incredibile popolarità in Sud America negli anni ’90 e ne devo riconoscere la totale ignoranza del fatto, in quanto non conoscevo minimamente questo aspetto della sua carriera. Poi, è tornato in Italia e, dopo quelle annate sicuramente frizzanti, almeno personalmente non ne ho più sentito parlare ad alti livelli. Lo ammetto: a livello musicale, preferisco J-Ax a Meneguzzi, nonostante gli ultimi anni. A prescindere da come la si pensi, però, trovo che dare del “cantante fallito” a chiunque sia sempre un’uscita fuori luogo. Anche perché, per parlare di un argomento, non serve necessariamente essere dei professionisti in quel campo. Il diritto di opinione è costituzionalmente garantito, fortunatamente. Inoltre, non è il solo a pensare che la musica italiana ha preso una deriva pericolosamente mediocre (Morgan vi dice qualcosa?). E guai a pensare che siccome le canzoni di questo periodo sono ascoltatissime ed hanno successo allora va tutto bene. Il successo è effimero, se non è accompagnato da progettualità.
Certo, e questo è innegabile, molti dei pezzi pop a cui fa riferimento Meneguzzi hanno una rotazione pazzesca, ma nessun cantante da tormentone può arrivare a riempire San Siro o l’Olimpico. Non so se mi spiego bene: se hai un progetto musicale del genere, limitato a “faccio un tormentone e campo un anno”, probabilmente rende dal punto di vista economico e di immagine, ma a livello di live è una scelta assolutamente controproducente, perché difficilmente costruirai una fan base solida disposta a spendere soldi ed energie per un tuo concerto, sapendo che potrai offrire come contributi quelle 3-4 canzoni che hanno spopolato nei locali stagionali. Attenzione, non è questo il caso di J-Ax, che ha un trascorso talmente strutturato che potrebbe permettersi di fare jingle pubblicitari per il resto della vita e avere comunque un seguito affezionato. Il discorso di Meneguzzi, però, è una chiave di lettura che vale per tutto il movimento musicale: la sensazione, da modesto utente, è che ci sia poco coraggio.
Troppa è la paura di floppare, di non rendere, di rischiare di non azzeccare la hit. Ci mancherebbe, la musica è un’industria a tutti gli effetti e deve fare profitto, dunque è giusto che vi siano canzoni più “morbide” e vendibili che fanno da contraltare a pezzi più forti o perlomeno poco masticabili all’ascolto medio. Così è sempre stato, ma non oggi.

Facciamo un passo indietro. Nel 1993, escono i seguenti album: “Gli spari sopra” di Vasco Rossi, “Sopravvissuti e sopravviventi” di Ligabue e “Terremoto” dei Litfiba. Tre cantanti che oggi definiremmo mainstream, bersagli di critiche di eccessiva commercializzazione, ma all’epoca giganti indiscussi e trasversalmente amati. Per chi non lo avesse mai fatto, l’invito è di ascoltare per intero questi tre album, prodotti non da cantanti di nicchia, ma da cantanti o band popolari che hanno però osato, sperimentato, giocato e rischiato. Alcuni brani hanno fatto centro (“Gli spari sopra”, “Delusa”, “Ho messo via”, “Fata Morgana”), mentre altri sono rimasti nel cuore del pubblico affezionato, ma quasi sconosciuti alle orecchie del pubblico generalista. E prestare attenzione che di alcuni si parla di cuore e di altri si parla di orecchie. Contemporaneamente, nello stesso anno, uscivano brani come “Sei un mito” degli 883, “Battito animale” di Raf, “La solitudine” di Laura Pausini, canzoni passate alla storia ma sicuramente più leggere nei toni. Insomma, c’era spazio per tutti. Ora, invece, ho come la sensazione di aver perso questa ricchezza. Manca l’acuto, il graffio, manca quel qualcuno che si prende la briga di fare qualcosa di diverso, di farti un attimo riflettere, di incidere sulla tua vita in pochi minuti facendoti maturare un pensiero, un’idea, uno spunto. Nulla contro la leggerezza, perché è necessaria, soprattutto d’estate. Mi farebbe tristezza vivere il periodo caldo senza qualche canzone soft, che la ascolti sorseggiando un cocktail e che ti fa compagnia senza troppi fronzoli. Il punto è che è sempre tutto così. E dunque urge fare qualcosa per riemergere da un piattume esagerato. Urge una piccola iniezione di musica più introspettiva, di qualità, di impegno. Non è facile, me ne rendo conto, perché le esigenze economiche possono rappresentare un ostacolo insormontabile soprattutto per un giovane, ma gli artisti più navigati potrebbero tracciare la via per proporre qualcosa di meno digeribile a primo assaggio. Un piatto più elaborato, una roba da Masterchef, e non un piatto di pasta al pomodoro semplice che persino un incapace in cucina come il sottoscritto saprebbe creare.

Dopo tale risposta, è arrivata un’altra replica di Meneguzzi. Sorvolo sui reciproci insulti personali (“Versione ordinata su Wish di Tiziano Ferro” da una parte, “A qualche chilometro dalla frontiera italiana tu musicalmente non sei nessuno”). Una frase mi ha colpito di tutto l’intervento: “Il pop è una cosa seria. Si cerca di creare un’identità. Si cerca di mandare un messaggio”.  Ecco, la musica ha un valore molto alto. Come il calcio. Sono cose non importanti, ma nello stesso tempo meritano un rispetto sacro perché rendono la nostra vita più degna e piacevole di essere vissuta.

Questo acceso confronto ha provocato qualcosa di utile: ha riacceso i riflettori sulla qualità della musica italiana. Benedetti siano i Maneskin, che hanno portato freschezza, che hanno portato colore, che hanno esportato l’Italia al di fuori dei confini nazionali. Insomma, quella famosa luce in fondo al tunnel tutto sommato c’è. Ma da sola non basta. Serve un nuovo corso, serve un nuovo zoccolo duro di giovani band o artisti che possano offrire una via che si discosti dalla trap, che ha ormai monopolizzato l’attenzione dei giovani. E questo non è un bene, non tanto perché si tratta di trap (che personalmente non riesco minimamente a considerare alla stregua di buona musica, proprio per l’assenza di strumenti o doti canore che dovrebbero rappresentare la base e non il contorno), ma perché in questo modo si ha poca varietà. Un cantante che vuole proporre altri contenuti è tagliato fuori in partenza. Persino l’indie, che aveva trovato un suo sbocco parallelo alla trap negli anni ‘10, è stato inghiottito, con i soli Calcutta e Gazzelle ad essere rimasti in cima alle preferenze degli ascoltatori medi. Ecco perché il successo dei due citati, o del gruppo romano o ancora quello dei Pinguini Tattici Nucleari non può che farmi sperare. Non può che farmi pensare che ancora abbiamo modo di godere di buona musica. Non impegnata, ma almeno diversa, una linea che si discosti da quello che si sente costantemente in giro. 
E questo è importante per un semplice motivo: la musica è una cosa seria. Ricordiamolo.

Ah, ci sarebbe la questione Bersani-Ebbasta… ma quella è un’altra storia.
To be continued…

Indaco32