Le storie interessanti non parlano mai dei successi continui, ma delle sconfitte spettacolari. Jo Nesbo, scrittore norvegese ed ex calciatore del Molde, riassume in una frase tutto ciò che per molti potrà apparire come un’espressione consolatoria, quasi autoassolutoria per ciò che non è stato e che avrebbe potuto (o dovuto) essere.

Il ponte del 2 giugno ho attraversato la Lombardia fino a giungere in Veneto, nella laguna. Ho affrontato uno dei primi pomeriggi realmente estivi con l’entusiasmo del turista. Perdersi nel labirinto della città più bella del mondo è qualcosa che ti riconcilia sempre con qualsiasi tipo di ferita, delusione o amarezza. La via, pardon, la calle che si incrocia con un’altra senza soluzione di continuità, in un intreccio tremendamente ed inevitabilmente malinconico e romantico, scandito dal vociare multilinguistico in trepidante attesa di un posto in gondola e dalla ricerca spasmodica di un qualcosa che possa farci venire in mente un giorno futuro ciò che, in realtà, non necessita di una calamita o di un piattino da smarrire in ripostiglio per poter trovare il suo posto nella mente del viaggiatore. L’emotività di quel fine settimana mi ha trascinato nella settimana della finale, tremendamente ed inevitabilmente malinconica e romantica.

Dentro di noi, dentro la testa di ogni interista, nessuno aveva il pensiero di fare propria la coppa dalle grandi orecchie. La notte di festa fino all’alba in Piazza Duomo non ci sarebbe mai stata, l’atterraggio a Malpensa non avrebbe mai visto Handanovic uscire con il cimelio per eccellenza tra i guantoni. Dentro di noi, sapevamo che sarebbe accaduto tutto ciò che è accaduto, che l’albo d’oro avrebbe accolto un altro team. Ma il velo, quel maledetto velo che ci ha fatto versare una lacrima (metaforica e non), è lì. Impercettibile, invisibile, allontanato per evitarne il contatto, ha squarciato una serata che doveva andare in quel modo. Perché? Perché fa così male nonostante le premesse nefaste? Perché, mentre la testa raziocinante di ognuno di noi era consapevole della disfatta, il cuore ci concedeva lo spazio per sognare. Per sognare di lasciare il segno nella storia, di ribaltare gli schemi precostituiti, di riaffermare l’ennesimo Davide contro Golia. Stavolta, però, no. Davide ha perso, ma lo ha fatto nel modo migliore che possa esserci. Perché sì, esiste dignità nella sconfitta, esiste il modo di saper perdere.

Mentre i sostenitori biancorossoneri hanno tirato un sospiro di sollievo e al termine del match si sono lasciati andare nei più classici degli sfottò (comprensibili, sono stati settimane intere a temere di vedere i rivali tornare vincitori), nessuno si è potuto permettere di dire una cosa. Un qualcosa di cui le italiane, persino l’Inter più forte di tutti i tempi, sono state sempre tacciate: il difensivismo. No, stavolta assolutamente no: nessun pullman davanti alla porta. Sciopero dei mezzi (uno in più non farà differenza). Perché l’Inter ha fatto quello che doveva fare, ha interpretato la partita in modo egregio. Tatticamente ordinata, Acerbi si è letteralmente mangiato il più forte attaccante del mondo, che ha avuto una sola (non è un eufemismo) palla giocabile nell’arco dei 90 minuti. Abbiamo concesso poco, al termine le statistiche hanno persino recitato qualcosa che nessuno poteva attendersi: l’Inter ha tirato più del Manchester City. Nessuno, davvero, nessuno avrebbe mai potuto pensare una roba del genere. I neroazzurri sono stati all’altezza della squadra più forte del mondo, giocando con un’intensità micidiale, ovviamente amplificata dopo lo svantaggio. E, diciamolo liberamente, è stata tradita in fase offensiva: Lautaro non è stato lucido nell’appoggiare per Brozovic tutto solo (Lukaku era marcatissimo, sarebbe stato inutile cercare il suo tap-in); Dimarco è stato sfortunatissimo, trovando traversa e compagno in pochissimi secondi; e poi Romelu. Il gigante belga ha qualcosa che non va con le partite che contano.
La finale di Europa League contro il Siviglia è arrivata al termine di una stagione mostruosa: guai a condannarlo. Ma ieri si è letteralmente divorato un’occasione colossale dopo un anno colmo più di bassi che di alti. Un colpo di testa ravvicinato, un pallone solamente da spingere in rete. E invece no. Portiere, carambola del difensore, corner. Quelli sono i segnali. I segnali che stavolta la coppa doveva finire nella zona celeste di Manchester. Eppure, al netto di ciò, un dato è incontrovertibile: l’Inter ha fatto il City. Incredibile, ma è così. Le squadre di Guardiola sono sempre state lodate per continuare a giocare anche dopo il vantaggio, per rinunciare alla difesa del risultato, per la ricerca continua dell’estetica. E invece, nel segno del “corto muso” più allegriano possibile, l’allenatore iberico si è trovato ad avere paura. Sì, cari miei: la squadra più temuta del pianeta, il tecnico più iconico del nostro tempo, il centravanti predestinato più potente del globo, hanno avuto tutti paura di un gruppo di parametri zero e di illuminazioni vincenti. Guardare la faccia e il gesto dell’ex Brescia e Barcellona (adoro accostare le due squadre, mi ricordano un calcio ormai così lontano) nel momento in cui il Toro sta quasi per affondare l’impaurita compagine britannica. Ha giocato la partita più all’italiana che io ricordi: mai Guardiola è stato così difensivista e rinunciatario. Dopo l’1-0, è stato un assolo Inter. Sì, vorrei ben vedere potrà dire qualcuno: ma prima del (gran) gol di Rodri, c’è davvero mai stata la superiorità netta che Bale e compagnia cantante avevano declamato prima dell’atto conclusivo in Turchia? Domanda retorica, perché il risultato giusto al termine del match sarebbe stato il pareggio. Inzaghi avrebbe meritato di giocarsela ai tempi supplementari, sarebbe stato questo l’epilogo corretto. Ma vince chi segna un gol più degli altri e, dopo ieri, forse qualcuno si sentirà meno spavaldo nel contestare i risultatisti a scapito dei giochisti. Perché puoi giocare divinamente e incantare le platee del continente, ma quando c’è in palio un titolo su cui grava una pressione micidiale, allora ti rintani nel tuo e disputi una gara “italiana”, quasi come fosse un insulto. E invece, noi lo sappiamo, insulto non è.

Inzaghi è stato fenomenale. Ha dato la chance della carriera a Dzeko, ha inserito Lukaku, ha cambiato le fasce, ha rivitalizzato con cambi giusti. Acerbi ha dominato in difesa, Brozovic ha giganteggiato a centrocampo, Dimarco ha fatto il fenomeno, Gosens ha avuto un grande impatto. Insomma, sono mancati loro, i talenti cristallini, coloro che avrebbero dovuto farci godere davanti. Ma non gettiamo la croce a nessuno, oggi. Oggi, stiamo parlando di una squadra che è tornata a sedere al tavolo delle big d’Europa. Seconda solo ai Citizens, che, al netto di una partita “normale”, ha meritato per il gran percorso settennale operato da Guardiola e da un mercato faraonico, andando a completare un’opera che aveva solo questa mancanza. Ora, l’impresa è compiuta, mentre l’Inter, quasi come in un suggestivo passaggio di consegne, ha tutto davanti. In modo diverso, ovviamente, sia ben chiaro. Con risorse ben più contenute, con idee più che milioni, con un allenatore pronto ad essere criticato piuttosto che salvato in ogni circostanza, con obiettivi che non richiedono quanto ci si attendeva, legittimamente, dal colosso inglese, ma l’Inter ha tanto da dire dopo questa finale.
In due anni abbiamo festeggiato 4 trofei e siamo giunti a un passo dal trono d’Europa, facendoci dimenticare un campionato perso contro uno dei Milan meno forti di sempre (e lo rimpiangeremo per l’eternità) e un’annata con troppe, davvero esagerate, sconfitte in Serie A, sebbene quest’anno, di rammarico, non vi dev’essere neppure l’ombra, visto il percorso stratosferico del Napoli.
Dopo stasera, dopo la notte di Istanbul, siamo ancora più interisti di prima. Siamo orgogliosi, siamo fieri, sappiamo di non poter subire sfottò esagerati perché abbiamo dato tutto. Squadra, società, allenatore e tifosi. “Eh, per la gente che, ama soltanto te, per tutti quei chilometri che ho fatto per te, Internazionale devi vincere”. L’Inter non ha vinto sul campo, ma ha subito la sconfitta più spettacolare di sempre.
E sono certo che anche Noel Gallagher, nell’ammirare la partita, abbia avuto il timore che quella dannata coppa gli potesse sfuggire, nonostante la felicità nell’averci incrociato. Quella felicità che piano piano ha lasciato posto alla paura, alla paura di fallire contro una squadra stupenda. Una grande squadra, che ci ha regalato una stagione fantastica.

E no, stavolta no: non ci sono rimpianti.
Ci hai emozionato Inter: perdere così è tremendamente ed inevitabilmente malinconico e romantico.
Don’t look back in anger, Inter.

Indaco32