Il fenomeno dell'idolatria non è certamente di epoca recente: sin dai tempi antichi l'adorazione di un feticcio o di un'immagine attribuendo loro poteri magici o divini era un fenomeno abbastanza comune. Combattuto duramente e con asprezza dalle grandi religioni monoteiste ora viene visto, paradossalmente, come un male dei tempi moderni, visto che molte persone hanno come idolo il cosiddetto "dio denaro" o pendono dalle labbra di sedicenti guru da tastiera che sovente, nel sputare le loro opinioni, non sanno distinguere "un bullone da una brugola", come nella famosa canzone "Innamorare tanto" degli 883. 

Poteva il calcio estraniarsi dal mondo dell'idolatria? Poteva uno degli sport più praticati a livello mondiale evitare di precipitare nella errata convinzione che un singolo possa valere più di una squadra? Sarebbe facile dire di no, che a livello globale conta più la squadra del singolo, ma sfortunatamente non è così.

Si potrebbe pensare ad esempio a quando Cristiano Ronaldo arrivò in quel di Torino, con la Juventus che vide incrementare i suoi follower Instagram di ben undici milioni nei primi quattro mesi di permanenze, e che, nei primi cinque giorni dalla sua partenza, ha visto diminuire la sua pagina Instagram di circa 330.000 follower. O l'esempio di Messi che ha già portato circa dieci milioni di follower nei profili social del PSG, in questa calda estate che ha visto due dei calciatori più forti della storia del calcio cambiare casacca.

Per molti il calcio è solo questo, seguire il proprio beniamino ovunque egli si sposti perché non si ha una squadra da tifare, o ne si ha una talmente piccola da potersi permettere di tifare entrambe oppure, ancora, per il fatto che è diventato un vero e proprio idolo da venerare, cercando di pettinarsi come lui, di vestirsi come lui, anche se questa è un'operazione molto complessa per via del costo degli outfit del campione ora in forza allo United, di imitarne le movenze calcistiche, di educare il proprio piede per riuscire a compiere le stesse gesta e così via discorrendo. Vedendola su questo piano, sinché non si sfocia nel patologico questa può essere una cosa salutare: nella strada che porta all'autoperfezionamento avere un punto d'arrivo o un radiante esempio non è sbagliato e anzi, permette di sfidare ogni giorno sé stessi per correre verso un ideale apparentemente irraggiungibile, ma basta anche un solo "chissà" per poter spingere il proprio corpo al di là dei propri limiti, la propria mente oltre la visione comune e i propri calcoli verso la perfezione.
Sinché, per l'appunto, non si sfocia nel patologico.

Quello che è accaduto prima e durante la partita Italia-Spagna, che ha posto fine a un leggendario filotto di risultati utili consecutivi, rientra in questo campo. Nel campo del patologico, del morboso, dell'odio parossistico di una parte della tifoseria azzurra nei confronti non tanto di Ferran Torres, mattatore iberico che con la sua doppietta, né contro il talento di Eibar Mikel Oyarzabal, né contro Bonucci che con la sua espulsione ha di fatto condizionato pesantemente la gara, bensì di un azzurro, un italiano come loro (o presumibilmente come loro) dato che, sino a prova contraria, Castellamare di Stabia risulta essere ubicata in italico suolo.
Si sta parlando del portiere della nazionale italiana di calcio, Gianluigi Donnarumma.
In certe nazioni dove la coesione nazionale è totale e quasi religiosa, un gesto come quello effettuato delle persone ieri allo stadio sarà parso alquanto singolare, forse imbarazzante o vergognoso: come si può andare contro un giocatore che sta rappresentando i colori del paese di chi lo sta contestando? Più o meno è lo stesso quesito che si posero i saggi ebraici, cattolici e islamici quando si resero conto che certi idoli erano venerati quanto, o più, della divinità stessa, e chi dice che questo esempio potrebbe non essere calzante dovrebbe ben sapere come, per molti, il tifo per la propria squadra rappresenti una vera e propria religione effettiva, con il pagamento dell'abbonamento o del biglietto volto a equiparare l'obolo ecclesiastico, i cori come gli inni sacri, e l'esultanza ai gol non dissimile dal cantare l'Halleluyah.
Esattamente come, nell'antichità, gli idoli venivano adorati in quanto contenitori di magia o di poteri divini, anche nel mondo del calcio sovente si tende a venerare il campione della propria squadra fino all'eccesso più smodato quasi arrivando a intaccare la loro fede originaria. Basta, ad esempio di divinità, un'intervista di Ibrahimovic o qualche sua parola perché i tifosi pendano dalle sue labbra, crogiolandosi nell'ascolto del suo idolo come stessero ascoltando dei passi del Vangelo, e poco importa che il suddetto idolo qualche tempo prima, nel dare l'addio al Milan, irrideva l'allora dirigenza rossonera dicendo se avessero finito i soldi e che se davvero erano messi così male poteva staccare loro un assegno: visto che il figlio prodigo è ritornato, tutto è perdonato e, soprattutto, dimenticato. E, per sua fortuna, paragonarsi a un Dio non lo rende colpevole di hybris e perciò non dovrà temere alcuna tìsis divina: gli dei dell'Olimpo ormai sono decaduti da svariati secoli e pare abbiano perso il loro lato vendicativo.
Quanti discorsi si sono sentiti da parte di tifosi non della prima ora, ma all'incirca del mezzodì o forse anche delle cinque del pomeriggio, che recitano: "se il giocatore X dovesse andare via io smetto di tifare la squadra Y"?
Non dovrebbe sorprendere il fatto che molti fanno esattamente questo, ovvero basta l'addio di un singolo giocatore per far completamente perdere d'importanza la squadra che si è tifata sin da bambini, seguita allo stadio, alla radio, in televisione o sulle dirette dei canali social ufficiali, in una sorta di damnatio memoriae di latiniana memoria. Come, per restare in tema romano, dissero molti tifosi romanisti il giorno dell'addio di Totti: la Roma non sarebbe più stata la Roma, speravo de morì prima (esternazione ripresa nell'omonimo titolo della fortunata miniserie televisiva), tiferò la Roma diversamente d'ora in poi. L'addio a Totti non è stato dissimile dall'addio a un papa per impatto emotivo e scoramento dei tifosi, questo perché, a differenza della Chiesa, per molti Totti era la Roma, e non il capo spirituale di milioni di fedeli che non possono che constatare come "morto un papa se ne fa un altro", anche perché sarebbe vista come idolatria che il cattolicesimo non ha mai gradito particolarmente. Insomma, per molti tifosi un giocatore di calcio non è solo un giocatore di calcio ma è qualcosa di più grande, di inamovibile, identitario.

Come per molti tifosi rossoneri era, per ritornare sull'argomento, Gianluigi Donnarumma.
Il Gigio nazionale, prodotto del vivaio lanciato senza troppi patemi d'animo dall'allenatore del Milan Mihajlovic, stupì subito per la disinvoltura tra i pali, esibendosi in tuffi spettacolari e un attaccamento alla maglia tale da trasformarlo, come spessissimo capita con i giocatori della propria primavera, in un vero e proprio beniamino della tifoseria, specie perché il tifoso sa farsi facilmente prendere per la gola: basta sentire un "tifavo sempre questa squadra da quando ero bambino", o un "resterò qui per sempre" per mandarli letteralmente in brodo di giuggiole, e poco conta che spesso e volentieri siano solo frasi che un non tifoso o tifoso smaliziato etichetterebbe immediatamente come ruffiane e false e lo porterebbe a dire che nel calcio di oggi, dove a farla da padrone sono i soldi, quella del restare nello stesso club è divenuta una pia illusione, il che ha portato alla pressoché totale scomparsa delle bandiere, ovvero calciatori che nascono, crescono e si ritirano nella medesima squadra senza trasferirsi mai.
"A lui non succederà mai!" si dice sempre, con l'affetto del genitore convinto che il proprio figlio o figlia non uscirà mai dal seminato e giammai verrà tentato da pericolose tentazioni, e nel caso di Donnarumma accadde esattamente questo.
Proprio come si fa con un idolo, poco importava che Donnarumma spesso e volentieri compisse uscite a vuoto, mostrasse una leadership pressoché inesistente, che alle volte peccasse nel posizionamento o che compiesse qualche grave papera: egli era il prediletto, come umoristicamente scriveva Giobbe Covatta riferendosi a Noè nel suo "Parola di Giobbe", e perciò ogni errore era dimenticato, o meglio, condonato. Inizialmente per la giovane età, dato che prendersela per gli errori calcistici di un ragazzo giovane è quanto di peggio si possa fare per farlo maturare, e poi per un fattore di militanza nella propria squadra. Le persone che si amano si guardano sempre con gli occhi dell'amore, come si suol dire.
Tuttavia, come nel migliore dei romanzi, deve esistere un antagonista che faccia da contraltare all'eroe, che lo tenti, che lo stuzzichi, che cerchi di farlo vacillare proprio come nella Bibbia Gesù venne tentato tre volte dal diavolo durante i quaranta giorni nel deserto, e questa storia non fa eccezione, con una sola differenza: qui è un figlio del Diavolo che viene tentato. Poetica ironia.
Ebbene, il ruolo di cattivo è interpretato dal controverso superprocuratore Carmine Raiola che ha il dono di trasformare in oro diversi giocatori, tanto da essere proprio per questo malvisto, assieme alla sua smisurata ambizione e alla sua sete di denaro capace di rovinare legami sino a qualche momento prima ritenuti inscindibili. In passato ci fu chi, proprio come Gesù, resistette alla tentazione tanto da farlo cedere, e senza voler fare degli ovvi parallelismi di carattere religioso (poiché sarebbe idolatria anche questa), questa persona ha un nome e un cognome: Marek Hamsik, lo slovacco che per amor del Napoli scelse di allontanare Raiola facendolo clamorosamente capitolare.
Con Donnarumma, come tutti sanno, andò diversamente.
E, come capita nei tradimenti o nei divorzi, ci sono due tipi di reazioni: quella rabbiosa e irata che porta a soffiare dritta negli occhi tutta la polvere nascosta sotto il tappeto, dicendo che tanto era scarso, non amava il Milan, ha fatto perdere troppi punti, è scarso nelle uscite, tanto Maignan è più forte, e altri commenti decisamente censurabili e che non dovrebbero essere utilizzati nemmeno nei peggiori momenti d'ira; e quella dispiaciuta, triste, rammaricata per la fine di un rapporto che avrebbe potuto avere tanto da dire, per aver perso un ragazzo così giovane e già così affermato che ha fatto il bene del Milan, portandolo dal baratro al quasi paradiso (in questo caso inteso come antitesi del Diavolo, ma anzi da lui agognato) e al ritorno in Champions League o, per il tifoso più pragmatico e attento all'economia, l'averlo perso a zero senza aver potuto conseguire un utile. In amore è così: più è grande l'affetto, più violenta è la reazione.
Per molti milanisti questo è stato il punto di non ritorno: Gigio, anzi, il giocatore innominabile, come fanno i bambini che litigano col compagnetto di classe dicendo "con te non gioco più, non ti conosco", con tanto di linguetta tirata fuori con gli occhi chiusi rabbiosamente e i pugnetti stretti stretti sino a colorare i polpastrelli di bianco, da ora è un nemico.
Da idolo si passa ad anti-idolo, all'effigie da dare alle fiamme, da distruggere a mazzate, da far saltare in aria con un attacco dinamitardo, da abbattere con le funi come fecero gli iracheni con le statue di Saddam Hussein al momento della sua cattura e deposizione.

"Tornerai a Milano prima o poi!" "Guai a te se torni o te ne pentirai!" intimavano altri per nulla spaventati dall'articolo 612 del Codice Penale. E lui è tornato, ma non con la sua nuova casacca rouge-et-bleu parigina, bensì con quella azzurra della nazionale, quella stessa nazionale che ha fatto sognare tutti arrivando a vincere un europeo che mancava dal 1968. La nazionale che, per ovvi motivi, va al di là delle bandiere di tifo e delle divisioni tra tifoserie poiché rappresenta la nostra nazione, che ci ha regalato le gioie come quella del mondiale del 2006 o del 1982, così come i grandi dolori della finale mondiale del 1994 o di quella europea del 2012.

Il 2006 è un esempio da rammentare in tal senso: nel periodo dove scoppiava Calciopoli e dove Cannavaro fece il gran rifiuto di perire con la nave bianconera, preferendo dirigersi alla volta del Real Madrid, nessun tifoso juventino ebbe l'ardire di fischiarlo, proprio perché la nazionale deve rifuggere le logiche delle guerre di quartiere ma deve fungere da collante. In quel momento, quando si esultava col proprio vicino, non ci si soffermava a cercare in lui oggetti, sciarpe, tatuaggi o altre simili manifestazioni di appartenza a un club, ma ci si abbracciava, piangeva e soffriva con lui, uniti dalla medesima fede calcistica verso la nazionale che rappresenta tutti noi, con buona pace dei leghisti della prima ora.
Ieri non è stato così.
Ieri si è voluta a tutti i costi portare la polemica sui verdi prati di San Siro, durante una partita che doveva unire più che dividere, con tifosi che hanno preferito fischiare il portiere della propria nazionale, godendo delle sue incertezze e, chissà, magari esultare anche ai gol della Spagna già che c'erano, spalleggiati da altre persone del loro stesso credo che sghignazzavano, che ridevano, che godevano di tutta quella paradossale e vergognosa situazione.
Proprio come quando si ritrovano gli ex coniugi a un evento comune e finiscono per litigare, alla fine chi ci rimette non sono loro due: a loro poco importa, tanto si odiano, al meglio un odio unilaterale, al peggio bilaterale, quella è la loro realtà e gli altri si adeguino. Quel che a loro importa è vomitare insulti in una spirale di egoismo, menefreghismo, indelicatezza e mancanza di rispetto nei confronti degli altri ospiti a cui di quella lite frega meno di zero, come capita nelle feste dove quello che si vuole vedere e vivere è divertimento, non certo sentire le urla becere di due persone mosse dall'ira e che stanno rovinando l'atmosfera a tutti. Tutti hanno presente scene di questo tipo a un compleanno, una prima comunione, una laurea, una ricorrenza particolare, se non perché vissute di persona quantomeno per sentito dire.

Il caso Donnarumma è esattamente questo: ha provocato imbarazzo (o cringe, per usare un inglesismo entrato prepotentemente nel dire comune) e non aiuta la nazionale intesa come gruppo per colpa di certe persone.
Persone che fischiano il proprio portiere durante una partita della nazionale italiana, non durante un Milan-PSG, non sono molto diverse da chi seguiva gli idoli piuttosto che la divinità di riferimento.
Persone che continuano insistentemente a odiare una persona ora lontana e che a loro direttamente non ha fatto niente non sono molto diversi dalle ossessioni che certi e certe ex hanno per i/le loro ex fidanzati/e o mariti o mogli e che, anziché preoccuparsi della gioia per quello che hanno, preferiscono rovinarsi il fegato e la giornata di chi passa il tempo con loro.
Persone che, piuttosto che sostenere la nazionale, preferiscono portare il loro astio tra un tifo che dovrebbe essere neutrale, sporcandolo e incancrenendolo.
Ma del resto a molti non importa niente della nazionale o del proprio club, che dovrebbero stare in questo rigoroso ordine, importa solo del proprio feticcio da adorare.
Ci sarà anche chi dirà "voi non potete capire, avrei voluto vedere voi se un giocatore che per noi vale quanto Donnarumma avesse lasciato la vostra squadra!".
A queste non resta che rispondere con l'unica possibile verità: "i calciatori vanno, la squadra resta, e io tifo la mia squadra e la mia nazionale, non il singolo".

Probabilmente non capiranno.
Probabilmente vi guarderanno schifati.
Probabilmente vi giudicheranno dei tifosi aridi o, paradossalmente, dei pessimi tifosi.
Probabilmente non vi crederanno.
Probabilmente vi diranno che siete della fazione avversaria e che sotto sotto ci godete, anche se non è vero.
Ma quantomeno avrete detto la verità.