Vincere tutte le partite, da qui a fine anno, era un obiettivo abbastanza impossibile, lo sapevano per certo i giocatori, lo sapevano per certo gli addetti ai lavori, e sicuramente anche i tifosi lo sapevano ugualmente. Sotto questo punto di vista, la sconfitta dell'Inter da qui alla fine della stagione era certamente preventivabile, pertanto nessuno si sarebbe stupito.

Ma non così. Non nel modo in cui si è perso ieri sera. E il perché è presto detto.

Partire veloci con le critiche significherebbe quasi banalizzarle, renderle troppo scontate, mentre invece il processo di critica, e perchè no, di rabbia, deve montare su lentamente, e proseguire in un crescendo di emozioni, in un tripudio di livore, e con un climax ascendente che giunge sempre più convulsamente al picco dell'indignazione. Insomma, in un crescendo via via più intenso come, per fare un esempio musicale, nel brano di Edvard Grieg "Nell'antro del re della montagna", contenuto nel Peer Gynt di Henrik Ibsen.

Innanzitutto, il migliore dell'Inter è stato senza dubbio Lautaro Martinez. Il giovane attaccante argentino, ormai divenuto non più una sorpresa ma una concreta realtà, non si è certo lasciato intimorire dall'enorme carico di responsabilità che si è ritrovato sulle spalle dopo la querelle Icardi e sta guidando l'attacco con il piglio giusto, e con le caratteristiche tipiche dell'attaccante moderno, che torna sino a centrocampo per recuperare palla, che lotta davanti, che fraseggia coi compagni. Ed anche il gol è di pregevolissima fattura, considerata la posizione e la rapidità di esecuzione, con una bella incornata che passa sotto le gambe di Cragno e che porta l'Inter sul momentaneo uno a uno. Che non si abbiano più dubbi su di lui: il ragazzo non sta facendo rimpiangere Icardi, ed è pronto a prendersi la scena.

Sarebbe però ingiusto non dare i meriti a Nainggolan, autore di un superbo cross effettuato sotto una marcatura intensa e che va proprio sulla testa di Lautaro Martinez. Ma la sua prestazione non è stata buona solo per l'assist, ma anche per la voglia di fare e la grinta che sta iniziando finalmente, seppur con un colpevole, colpevolissimo ritardo, a mostrare ai suoi tifosi. Conferma il suo stato di forma, che si avvicina sempre più a quello ottimale, se manterrà a posto i nervi e i suoi notori eccessi.

Da qui la musica inizia lentamente a dispiegarsi. Infatti iniziano le prime critiche, quali quelle al centrocampo. Vecino infatti non convince proprio, mostrandosi completamente avulso alla manovra, incapace di fare filtro, e questo obbliga Brozovic, suo compagno di reparto, a sacrifici maggiori e pertanto a perdere anche lui brillantezza e smalto. Il centrocampo del Cagliari l'ha fatta da padrone, e nessuno dei due è riuscito a porre una controffensiva efficace contro le ondate dei sardi. L'ingresso di Borja Valero non ha cambiato l'inerzia della gara, dimostrando come l'anno prossimo bisognerà investire su dei centrocampisti freschi e volenterosi che possano affiancarsi a Brozovic coadiuvandolo. Ammesso che il croato resti, s'intende. Ed anche Politano, pur con qualche buono spunto, non ha convinto appieno, sino a sparire pressoché completamente nel secondo tempo. Al netto di un buon tiro in porta, non riesce ad incidere affatto. Così come Perisic, che ha effettuato un bell'autogol sullo stacco volto ad anticipare Ceppitelli, unico acuto di una prestazione che, seppur di poco, resta insufficiente.

La musica sale di tono e di intensità, così come la scala delle insufficienze, che iniziano a diventare importanti nel caso del pacchetto difensivo. D'Ambrosio, come sempre, è un terzino volenteroso, che si dà tanto da fare, ma non è certamente un terzino degno di una squadra che vuole tornare a vincere qualche trofeo o togliersi qualche soddisfazione. Il fatto che al momento resti il miglior terzino in rosa è un dato che si commenta da solo. Già, perchè le impressioni delle prime giornate di campionato sembrano essere solo un pallido ricordo per chi, invece, proprio nella prima parte della stagione aveva mostrato grandi doti tecniche e uno stato di forma non indifferente, e cioè per Asamoah. Il laterale ex-Juve ha perso diversi palloni sanguinosi, rimanendo per tutta la durata del primo tempo in balia di qualunque giocatore cagliaritano gli passasse davanti, ed il risultato è stata una prestazione decisamente negativa, così come nelle sue recenti partite.

Perfino Skriniar e De Vrij, mura pressochè insuperabili che hanno tenuto perfettamente difesa la porta dell'Inter, stanno iniziando a mostrare le prime crepe. In occasione del gol di Pavoletti non paiono correttamente piazzati, tanto da farsi anticipare dall'attaccante della compagine rossoblu che insacca con un pregevole tiro di prima intenzione. Anche in occasione del rigore, poi fallito da Barella, il centrale slovacco è parso poco attento, commettendo un fallo ingenuo che avrebbe potuto incrementare ulteriormente il passivo, e come lui anche il collega di reparto olandese non ha certo mostrato tutto il suo repertorio, e le colpe sul gol sono quantomeno condivise.

Il ritmo ormai è incalzante e rapido, convulso, intenso. Tutto quel che questa sera non è stato Handanovic. Certo, ha compiuto due buone parate su Joao Pedro e Pavoletti, ma bisogna guardare ai gol subiti. Solitamente, in caso di autogol, non si dà la colpa al portiere: deviazione che trae in inganno, colpo improvviso che manda il pallone nel lato opposto della porta e così. Solitamente, ma non la sera scorsa. Infatti, il pallone colpito da Perisic conta come un effettivo colpo di testa indirizzato verso la porta, e per quando sia indirizzato verso il palo, la traiettoria è intuibile. Potrebbe compiere un intervento, abbozzare un tuffo, e invece si limita, come ormai spessissimo gli capita, a fissare il pallone che finisce in rete senza opposizione alcuna. E il portiere sloveno, come sempre quando è in una di quelle giornate in cui vuole guardare la partita anzichè esserne parte attiva, fa le cose per bene, mettendosi le ciabatte, stravaccandosi sul divano e dotandosi di telecomando in mano, frittatona di cipolle e rutto libero di fantozziana memoria, come mostra in occasione del secondo gol. Il movimento di Pavoletti è ben eseguito, e su questo nulla da dire. Niente da eccepire anche sulle colpe dei difensori centrali. Ma tutto questo non giustifica l'atteggiamento tenuto dallo sloveno che, con il pallone che converge verso la sua posizione, rimane fermo a guardarlo entrare in rete. Potrebbe tentare un tuffo, un riflesso col piede come quelli che resero celebre Claudio Garella, potrebbe quantomeno abbozzare un intervento, e invece no, resta immobile e lascia che il pallone gli passi di poco affianco, realizzando la sua colpevole doppietta di parate di sguardo. C'è chi ha l'elastico, chi il paso doble, chi la veronica, all'Inter è toccata la parata di sguardo. Due volte. Nella stessa partita. E non è certo la prima volta che accade in questa stagione. Quando verso l'inizio della gara Handanovic, andando in parata bassa, anzichè trattenere la palla decide di respingerla verso l'alto, rende subito chiaro che sarà una di quelle partite. Questa è la dote che può recare in dono Handanovic: il dono della preveggenza. Dai primi interventi si capisce subito come parerà, anzi, se parerà.

Ma il punto più alto, quello con la massima intensità della composizione, lo tocca Luciano Spalletti. Il tecnico di Certaldo ha sempre la soluzione per ogni suo problema: Candreva. Un cambio che ormai appare telefonato, in ogni partita, manco fosse una clausola nel contratto dell'esterno italiano. Politano gioca benissimo? Fuori per Candreva. Politano gioca bene? Fuori per Candreva. Deve uscire un giocatore? C'è il 33,3% di possibilità che in uno dei tre cambi il sostituto sia lui. Non che il suo ingresso riesca a portare dinamismo, anzi, il copione è sempre lo stesso, salvo rarissimi casi. Ma questo non scoraggia certo l'allenatore, che ripete insistentemente, ogni volta la stessa sostituzione.

Così come l'ingresso di Ranocchia da attaccante. Quello invece è uno dei quei momenti dove la preveggenza, già sbloccata in precedenza da Handanovic, si manifesta nuovamente allo spettatore con forza e veemenza. Si arriva al terzo cambio, e a quel punto la mente va all'esperimento di Bologna, ed è inutile che si scuota il capo: si può cercare di allontanare un pensiero, ma quando diventa insistente, come il ritornello di un pessimo jingle pubblicitario, rimane lì, e concentrarsi su altro diviene arduo. Moltissimi interisti sanno che quel cambio avverrà, ma lo negano a loro stessi, confidando in una reazione differente, ad un cambio più sensato. Ed invece no. Il cambio avviene, ed è esattamente quello: con la squadra sotto per due reti a uno, sceglie di mettere in attacco un difensore centrale. La sua spiegazione? "Abbiamo due attaccanti infortunati (...), se mancano gli attaccanti a disposizione, bisogna fare qualcosa di differente". Una spiegazione che non avrebbe fatto una grinza e che non fece una grinza contro il Bologna, dove, in assenza di altri attaccanti, dovette ripiegare su Ranocchia.

Ma nella panchina dell'Inter, incredibile ma vero, un altro attaccante c'era, e rappresenta quello 0,01% che non comprende l'ingresso di Candreva sul terreno di gioco nei secondi tempi. Inutile cercarlo con lo sguardo, non è nè Gagliardini nè Padelli. L'attaccante di cui si parla infatti appartiene ad una categoria magica, quasi mitologica, un qualcosa che il tecnico di Certaldo teme e (forse) schifa: quella dei giovani e dei primavera. Si parla, naturalmente, di Facundo Colidio, numero sessantuno nel giro della nazionale Under-20 argentina, e che in campo occupa come posizione, oltre che quella di esterno sinistro d'attacco, anche quella di attaccante. Un attaccante c'era, di ruolo, affamato, promettente, ma a Spalletti non è importato. Per lui i giocatori dei vivai non esistono, al punto da negare la loro esistenza. Colidio non esiste, è solo una allucinazione, e pertanto l'unico attaccante è Ranocchia. L'errore fatto con Zaniolo proprio non riesce ad essere interiorizzato, il fatto che un ragazzo possa mettere più grinta e voglia di fare proprio non riesce a concretizzarsi nella mente. Il fatto che nell'altra sponda di Milano un Cutrone abbia dato ben più di una soddisfazione ai cugini non è un fattore da considerare. Il fatto che un giocatore giovane possa essere sospinto dai tifosi interisti, innalzando il morale e (chissà) creando un nuovo beniamino è visto come un qualcosa di orripilante, come un orrendo bubbone da estirpare. Forse nemmeno Cutrone esiste. Nè Barella. Nè Zaniolo. Sono tutti ologrammi. Forse anche Lautaro Martinez non esiste, deve essere Icardi sotto mentite spoglie. Del resto, i giovani crescono meglio in panchina senza giocare, così che a trent'anni, dopo dieci anni di panchina, possano finalmente mostrare la loro piena maturità assieme agli altri trentenni.

Ed è qui che la composizione, arrivata al suo culmine con il rullo dei tamburi, cessa, lasciando il posto al silenzio, alla desolazione come quella in cui ora si trova l'Inter, che rischia il sorpasso ad opera del Milan e che ancora deve sorbirsi la questione icardiana e wandiana. E' come se si avesse paura del cambiamento, dell'innovazione, ma questo non deve spaventare. Se la paura per l'innovazione avesse preso il sopravvento in passato, adesso molti anzichè il volante in mano, avrebbero le briglie dei cavalli.

In una partita persa, rischiare non costa nulla. Sempre meglio della desolazione e del piattume, in un periodo dove l'Inter non può proprio permettersi di perdere.