Il 5 Maggio 1821 il Terrore dell'Europa esalò l'ultimo respiro, nell'amaro esilio di Sant'Elena. Un corso di piccola statura, la cui carriera fulminante spaziò dai galloni militari all'incoronazione quale imperatore dei francesi. Dopo una vita passata ad assaporare il gusto della vittoria, uscendo trionfante da innumerevoli campi di battaglia, si ritrovò immerso nella più totale solitudine, da consumarsi su un isolotto dell'Atlantico.
"Dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno [...]" scrisse di lui Alessandro Manzoni, delineandone l'ampio scenario sul quale egli agì. 
Costui si infranse, nelle battute finali, sul "Generale Inverno" russo e a Lipsia; ritornò in sella, per poi ricadere nuovamente nella belga Waterloo. 
Come ogni leader che la storia rammenti, toccò le vette del potere e, assalito dai deliri di onnipotenza, assistette in prima persona al proprio inesorabile declino. Che piaccia o meno, Napoleone Bonaparte, per noi italiani, coincise con il ripristino e il fervore degli ideali politici, assaliti dal più longevo dei torpori, dai quali scaturiranno le istanze risorgimentali.

Ci provarono una decina di uomini (Fratelli Bandiera in Calabria), "eran trecento, eran giovani e forti e sono morti [...]" (Carlo Pisacane e co. nel Cilento), ci riuscirono più o meno in Mille. Dal porto genovese di Quarto partirono in Mille, il 5 Maggio 1860, guidati dal condottiero italiano più famoso nel mondo, Giuseppe Garibaldi. Il processo risorgimentale di cui sopra, verrà accelerato dalla concomitanza delle azioni franco-piemontesi (annessione Lombardia, post-seconda guerra d'Indipendenza), dai plebisciti nell'Italia centro-settentrionale e dall'inarrestabile avanzata garibaldina fino al nord della Campania. Sulla via di Teano, nell'attuale casertano, al cospetto del futuro sovrano, Vittorio Emanuele II, egli cedette al monarca sabaudo le chiavi del Meridione, liberato dal giogo borbonico. L'apice toccato da Garibaldi nelle dinamiche risorgimentali diverrà poco dopo l'anticamera del declino: messo da parte dall'Italia dei Savoia, sebbene in cuor suo il processo unitario non fosse ancora ultimato (mancavano all'appello Roma, Trento e il Veneto), si ritirò in esilio sull'isola sarda di Caprera.

Ero un bambino di quattro anni, quasi cinque, quel 5 (scusate il gioco di parole) Maggio 2002.
C'era un clima di festa, nel piccolo paese calabro dal quale provengo e solo gli occhi di un bambino hanno il privilegio di scorgere la gioia, dove questa si fa fragorosa fino a esplodere. Iniziando ad acquisire una consapevolezza sempre più elevata, capii che quel giorno, per gli amanti della Vecchia Signora, non sarebbe stato più identico a tutti gli altri. Trezeguet, Del Piero, Lippi, Maresca e la sua radiolina, sintonizzata sulle frequenze di "Tutto il calcio minuto per minuto": dall'Olimpico l'indimenticabile voce di Riccardo Cucchi entrava dolcemente a gamba tesa, su quella degli altri radiocronisti, annunciando le marcature della Lazio. La gioia juventina, la disperazione interista, quest'ultima tutta racchiusa nelle lacrime scroscianti del giocatore-simbolo, Ronaldo. Il calvo brasiliano si abbatté come un uragano sulle difese italiane, lasciando sbigottiti addetti ai lavori e appassionati di calcio. In nerazzurro vinse solo una Coppa UEFA, troppo poco in relazione al suo potenziale. Peccato per quelle ginocchia così fragili! Dopo il 5 Maggio 2002, sposerà la causa del Real Madrid. 

Vent'anni dopo, per i tifosi della Juve, dall'incetta di gioia si è passati alla riflessioni sullo stato attuale in cui versa Madama.
La "Gazzetta dello Sport" di ieri ha annunciato, in prima pagina, il futuro sposalizio tra Dybala e l'odiata rivale. L'agente del giocatore ha smentito ogni ipotesi di accordo con altri club. Nel linguaggio del calciomercato può significare tutto e niente. Sarebbe necessario, tuttavia, che gli affezionati juventini, al netto di standing ovation tributate all'albiceleste e alle vedovanze già maturate, giudicassero con oggettività la vicenda. Tra un campione e un buon giocatore esiste una differenza abissale: il Dybala post-Cardiff è un buon giocatore mai stato realmente decisivo. Nessuna sintonia con Ronaldo, testa perennemente bassa, infortuni a catena, troppo interesse nutrito per i diritti d'immagine e per le copertine, meno per il rettangolo verde. Ci saranno stati errori di collocazione tattica, la società avrà fatto il possibile per logorare le possibilità di accordo sul rinnovo, tutto quello che volete. Però sarebbe stato un orrore elargire un ingaggio da dieci milioni annui per un buon giocatore e nulla più. Meglio se, al giorno d'oggi, ci fossero le vedove di Zidane, anziché di Dybala. Sarebbe molto più coerente. 

5 Maggio, data foriera di alterne fortune, di salite e di discese, di apici e di rovinose cadute. La parabola napoleonica, la spedizione garibaldina, la Signora che scalza il nemico, soffiandogli l'agognato tricolore. Lo sguardo al presente è molto meno roseo rispetto a un ventennio fa. Chi versa lacrime amare sul faccino puerile di Dybala, dovrebbe ricordare che la Juve è esistita anche senza Sivori, Platini, Baggio, Zidane e Del Piero: campioni di livello mondiale, sicuramente non gente da copertine glamour. Nulla, con o senza Dybala, impedirà alla Signora di risorgere dalle ceneri.
Lo sport è diverso dalla politica: chi sprofonda negli abissi, ha comunque la possibilità di riemergere in superficie. L'arte di governo, in presenza di una sconfitta drammatica o dell'ostracismo altrui, mette in atto la damnatio memoriae, di fronte alla quale l'immagine pubblica di un personaggio non ha modo di sopravvivere.