"We are in Champions League, man! Dilly Ding Dilly Dong!". Claudio Ranieri, sei anni fa or sono, annunciò trionfalmente l'approdo del suo Leicester alla Champions League della stagione successiva. Il tecnico romano mai avrebbe pensato che, di lì a poco, l'asticella sarebbe cresciuta esponenzialmente, arrivando addirittura alla vittoria della Premier League. Ciò che più sorprende, risiede nel fatto che Ranieri mai poté prevedere di aspirare alla conquista del titolo di Sua Maestà. La Vecchia Signora, oltrepassando di qualche centinaia di chilometri il Canale della Manica, ha idealmente mutuato questo simpatico aforisma dall'allenatore dei primi due anni post-Serie B. Al netto di storia e tradizione, paragonare il Leicester alla Juve, o viceversa, suona davvero strano. Eppure ecco che il club inglese e quello torinese non presentano più tutte queste difformità.

Nel calcio aprire un ciclo di vittorie è cosa assai complicata. Portarlo a compimento e passare il testimone, evitando un crollo verticale, lo è ancor di più. La Vecchia Signora, un anno fa, ha abdicato a favore dell'ex amico Antonio Conte, cedendo così alla Milano nerazzurra quel tricolore da cucire sul petto. Ironia della sorte, toccò proprio a Conte aprire il fantasmagorico (quasi) decennio di egemonia nazionale. Allo stesso modo, è spettato a lui il compito di interromperne il perdurare negli anni a venire. Parlare di tracollo juventino appare, allo stato attuale, ingeneroso e iperbolico. Parlare, al contrario, di una quasi palingenesi è quanto di più distante dal vero.

Spulciando sui social gli umori del tifo bianconero, pareva di imbattersi in un qualsivoglia forum per affezionati di squadre da metà classifica. Il "Dilly Ding Dilly Dong" del buon Ranieri risuonava, nelle intenzioni, in modo così sguaiato da chiedersi se lo juventino del 2022 abbia ancora in mente quali siano gli obiettivi e i connotati genetici della squadra per la quale perde il sonno. Non è un caso che il compianto Giampiero Boniperti, coniando la famosa frase, secondo la quale "vincere non è importante" ma "è l'unica cosa conta", si riferisse proprio alla caratteristica peculiare della sua amata Signora.
Il percorso maturato in questi ultimi due anni di (non) vittoria è l'esempio più lampante di quanto l'esternazione della Leggenda juventina stia man mano tramontando. La stagione passata e quella attuale presentano molti punti di contatto soprattutto nelle modalità in cui i risultati sono scaturiti. La narrazione corrente è cambiata: dall'utopia del decimo scudetto consecutivo alla concretezza del quarto posto come obiettivo minimo conclamato, sono i due leit motiv che hanno segnato la storia più recente dei bianconeri. A onor del vero, un anno fa di questi tempi, le ambizioni juventine erano già scemate alla luce dei risultati non in linea con le aspettative, ma nessuno potrà mai negare che l'obiettivo massimo è rimasto sempre vivo nei cuori e nelle menti, almeno fino agli ultimi flirt con le posizioni più nobili della classifica.

Questione di mentalità e di allenatori. Pirlo, sempre arroccato sulla strenua difesa della propria filosofia calcistica, appariva disinteressato nei confronti dei target aziendali. Attaccare confusamente sul rettangolo verde e dilatare l'ernia inguinale di tifosi e addetti ai lavori, con dichiarazioni improntate sull'autoreferenzialità e sulla bontà del proprio operato, avevano messo in luce, non solo la giustificabile inesperienza del tecnico bresciano, ma anche una non troppo velata spocchia con la quale egli si accostava ai microfoni. Allegri si è dimostrato più realista e pragmatico. Gli errori di valuazione iniziali sulla rosa (Rabiot mezzala d'inserimento!) sono stati mitigati dal lavoro, sempre costante e atto a migliorare lo scarno capitale umano a disposizione, grazie al quale il raggiungimento del traguardo minimo è arrivato senza troppi batticuori, a differenza del campionato precedente.
I continui raffronti fra il lavoro di Pirlo e quello di Allegri non potevano protrarsi fino alla noia. Se Pirlo era partito con buoni risultati, almeno fino alla Primavera, Allegri, dopo il KO interno con l'Atalanta, ha inanellato un filotto positivo, speronato dagli attuali campioni d'Italia, solo nel mese di Aprile. La striscia positiva di cui sopra, peraltro, ha garantito alla Signora di avvicinarsi con maggiore oculatezza al tanto agognato quarto posto. Solo la narrazione giornalistica ha potuto solleticare gli istinti più bassi del tifo bianconero, stuzzicandone le velleità scudettate. Quanto all'Europa, beh, solita storia: si esce agli Ottavi sempre e comunque, con squadre sulla carta più deboli. A questo punto il trend negativo è bene che parta dall'atipica annata '19-'20, nella quale la Juve di Maurizio Sarri venne estromessa dalla massima competizione continentale per mano del modesto Lione.

Pirlo, sul piano realizzativo, ha potuto godere dei benefici dell'ultimo CR7 bianconero. La leggenda lusitana, apparsa spesso svogliata e in infradito, dati alla mano, ha comunque conquistato il titolo di capocannoniere della Serie A. Alla onnipresente vena realizzativa dell'asso di Funchal, si univa l'estro talentuoso del giovane Federico Chiesa, autentico trascinatore nella seconda parte di stagione. Guardando a questi due fattori non di poco conto, è necessario sottolineare come le vicissitudini allegriane, in termini assoluti, abbiano un peso specifico maggiore rispetto a quelle di Pirlo: senza CR7, con Chiesa fuori uso, causa crociato rotto e senza mai aver trovato un vero terminale offensivo, la fatica nell'approdare in zona Champions è risultata meno evidente. A favore del tecnico labronico gioca pure una solidità difensiva che non è mai emersa dodici mesi fa. Rinunciare al gioco arrembante, per tutelare meglio gli equilibri difensivi, non è poi così eretico. In più, in assenza di un centrocampo dignitoso, incapace di creare l'opportuno collegamento tra i reparti, rinsaldare i meccanismi arretrati è stata la strategia più intelligente che Allegri potesse concepire. 

La stagione della Juventus, che piaccia o meno, è finita ieri sera con il pareggio interno della Roma contro il Bologna, foriero dell'aritmetica qualificazione così attesa dall'ambiente della Continassa. Se la Coppa Italia conquistata da Pirlo non bastò a evitare l'esonero, non vedo perché quella di quest'anno dovrebbe avere doti taumaturgiche. In più, una vittoria o una sconfitta contro gli odiati rivali non potrà mai cambiare il giudizio su una stagione complessivamente intrisa di mediocrità. Altrimenti dovremmo legittimare, abbassando i toni della nostra analisi, il becero revisionismo storico che aleggia da qualche tempo sulle prestazioni di Adrien Rabiot. Roba da matti! In tre anni di Juve, le prestazioni del francese sono sempre cresciute sul finale di stagione. Peccato che quest'ultima duri in media nove mesi. La stessa durata di un parto. Ciò che si prova nel commentare in maniera diacronica il rendimento del centrocampista: le doglie di un parto. Spero che qualcuno si incateni per il mancato rinnovo (secondo quanto trapela dai media) di Bernardeschi e così il tutto apparirebbe plausibile, nel clima generalizzato di cauto ottimismo verso la rinascita dei bidoni. 

Mi scuso per loro, perché non sanno ciò che dicono/fanno! Come si può, da tifosi della Juve, gioire per un quarto posto o per una prestazione sopra la media di Rabiot? Se i target regrediscono, non è consequenziale la regressione nell'oggettività dei giudizi. Il calcio è una scienza soggettiva: questa frase so bene che sia una provocazione, nonchè un ossimoro. Tuttavia, non si possono confondere i timidi segnali di positivi, con i presupposti della rinascita. In cinque anni di fase calante e declino juventino, da Cardiff in poi (lo ripeterò fino alla noia), non ho mai sentito un giudizio con criterio sulle radici del male che affligge la Signora. Non si parla mai di mancanza di programmazione o di un progetto giovani che non esiste, essendo costoro merci di scambio immesse sul mercato. Non si parla mai di una società, la cui credibilità è stata completamente rasa al suolo dal modus operandi di Paratici, fra affari sanguinosi per i bilanci e scambi sgangherati di calciatori, con tanto di valutazioni gonfiate (sebbene la Procura Federale abbia fatto un passo indietro) per occultarne le emorragie: Tutto ciò con il tacito assenso di Agnelli, il quale ha poi rimosso il dirigente, dopo tre anni di malefatte incontrollate.
Il tifoso juventino del 2022 parla di un quarto posto, come se fosse uno scudetto; piange sulle foto di Dybala e, se fosse per lui, gli garantirebbe quei dieci milioni di stipendio. Poi, però, guardando al rendimento sempre altalenante e alle condizioni fisiche precarie, anche gli ipovedenti si accorgerebbero che questa azione sarebbe stata l'ennesimo bagno di sangue. Decanta sui social e al bar di un Rabiot risorto dalle ceneri: se una stagione durasse tre mesi, da Marzo a Giugno, quest'ultimo arriverebbe tra i primi dieci del Pallone d'Oro. Peccato che non sia così. L'importante, in fin dei conti, è scagliarsi contro il gioco di Allegri. La guerra tra poveri non si è mai interrotta, sebbene per due anni Max si sia assentato dai campi da gioco.
E intanto, anche gli juventini stanno iniziando a parlare di "furti" arbitrali, dopo anni trascorsi a deridere le narrazioni delle tifoserie avversarie. Siamo diventati come loro. Forse lo eravamo già.
O forse siamo anche peggio.