In principio fu la Crimea (1853): il Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II di Savoia e del primo ministro Cavour si schierò contro la Russia, allineandosi alle potenze continentali anglo-francesi. La Conferenza di Parigi (1856), organizzata per gli stati vincitori del conflitto, permise al Piemonte sabaudo di portare all’attenzione delle grandi potenze europee la questione italiana. Al malgoverno pontificio e borbonico, imperante nel Centro-Sud della Penisola, Cavour paventò la necessità e la possibilità di garantire la stabilità dell’intera (futura) nazione, sotto l’egida piemontese, non disdegnando neppure la necessità di prestare ascolto alle istanze rinnovatrici provenienti dalla borghesia.

Poi arrivò Plombières: Cavour e Napoleone III, imperatore di Francia, si accordarono per costituire la Confederazione Italica, della quale la corona sabauda avrebbe assunto il controllo della porzione settentrionale. Il patto fra i due Stati portò alla sconfitta dell’Austria asburgica, stanziata in Lombardia e alla stipula dell’armistizio di Villafranca, attraverso il quale Milano e dintorni furono incamerati dalla Francia, che li avrebbe successivamente regalati a Vittorio Emanuele II. Stava nascendo il Regno d’Italia.

Il primo embrione di Italia unita emise i primi vagiti nel segno dell’alleanza franco-piemontese, non senza perdite dolorose per la dinastia governante al di qua delle Alpi. Infatti, in base agli accordi di Plombières, di cui sopra, lo Stato sabaudo dovette rinunciare al territorio di Nizza e alla Savoia in cambio dell’agognata egemonia su parte della Penisola. L’onda lunga del bonapartismo francese si infranse sulla Prussia di Guglielmo I, incoronato, peraltro, Deutsche Kaiser (imperatore tedesco), nella lussuosa reggia di Versailles; quanto ai Savoia, la dinastia regnò sull’Italia unita e (quasi) completata fino alla fine del secondo conflitto mondiale.

Le relazioni tra la Francia e il Piemonte non si arrestarono neppure di fronte ai mutamenti sociali e politici. A tal proposito, con l’avvento della società di massa, l’attrattività dello sport prese piede nella vita di tutti i giorni, contribuendo a incidere profondamente sull’identità nazionale e/o locale nelle quali esso riuscì a penetrare. A maggior ragione, se la relazione fra i due contraenti non si mosse più secondo istanze belliche, ecco che lo sport fece da novello collante, permettendo al ménage di sopravvivere, anche a distanza di un secolo.

I cugini transalpini rinnegarono il regime monarchico, mentre i sodali piemontesi ne accantonarono i cerimoniali, senza rinunciare alla rappresentazione fisica di una famiglia regnante. I Savoia, per lungo tempo, dovettero abbandonare il suolo patrio, per farvi poi ritorno solo alle porte del Duemila; al potere temporale sabaudo è subentrato, monarchicamente parlando, il potere economico e finanziario degli Agnelli. La dinastia torinese si è sempre divisa fra il dovere e il piacere. Il primo incarnato dall’automobile, autentica rivoluzione dei trasporti alla soglia del XX secolo; il secondo, invece, dalla passione per il football.

Gli Agnelli, come i Savoia e tutte le dinastie reali che si rispettino, oltre a esercitare fascino e potere sulle masse, hanno incuriosito queste ultime pure con le vicende private e meno correlate alle dinamiche di influenza. Ancora oggi, le pagine dei rotocalchi e delle cronache ospitano notizie e indiscrezioni provenienti da casa Agnelli sulle tematiche più disparate: dalle dispute ereditarie passando per il classico gossip. Se, ad esempio, una figura come Vittorio Emanuele II seppe suscitare interesse nell’analisi storica, quest’ultimo non riuscì a sfuggire neppure alle narrazioni più disparate circa le innumerevoli relazioni intrattenute con donne di varia estrazione sociale. L’edonismo e il fascino del primo re d’Italia possono essere tranquillamente paragonati allo charme e all’attrattiva esercitati da Gianni Agnelli, l’Avvocato.

La grande passione calcistica degli Agnelli, la Juventus, fenomeno nazionale e internazionale, ha intrecciato le proprie fortune con il destino della nazionale italiana. I quattro titoli iridati conseguiti dal nostro Paese in campo internazionale hanno avuto una particolare coincidenza con la nutrita presenza di giocatori bianconeri. L’apertura delle frontiere calcistiche, prima graduale, poi plebiscitaria, ha permesso alla Vecchia Signora di mettere in relazione la propria cultura italo-sabauda con il mondo esterno.

La delegazione più nutrita di stranieri è costituita dal Brasile (29 effettivi). Tuttavia, se avessimo voluto approfondire il mosaico calcistico e culturale sudamericano, avremmo dovuto parlare di un altro rilevante personaggio dell’Unità d’Italia: Giuseppe Garibaldi. A noi, però, rimanendo entro i confini del Vecchio Continente, interessa la Francia e la sua rappresentanza di 24 calciatori. Dove iniziare? Da una relazione franco-piemontese (aridaje!) che scorre nel sangue di un giovane ragazzo francese, approdato in bianconero nel 1982.

Michel Platini, figlio di Aldo, nipote di Francesco, quest’ultimo originario della provincia di Novara. Il giovane talento del Saint-Étienne arrivò a Torino, rimpiazzando il fantasista Liam Brady, ceduto dalla Juve per esigenze di spazio da destinare agli stranieri. Valicando il Gran San Bernardo, come il Napoleone dipinto da Jacques-Louis David, portò la Vecchia Signora alla conquista del mondo. In prossimità del Sol Levante egli venne, inoltre, immortalato, dopo una incredibile rete annullata, nella singolare e sdraiata protesta verso la decisione del direttore di gara.

La dipartita del franco-piemontese Platini divenne, per Madama, motivo di lungo esilio dalla conquista di titoli importanti. Con l’avvento delle nuove idee portate dal giovane tecnico toscano, Marcello Lippi, la Signora riconquistò in breve tempo il tetto del mondo. A distinguersi, specie nelle geometrie di centrocampo, l’ex Olympique Marsiglia, Didier Deschamps, autore di una delle marcature nella decisiva gara di campionato contro il Parma (stagione 1994-1995), a seguito della quale il tricolore tornò a campeggiare sulle maglie bianconere.

Il capolavoro della dirigenza dell’epoca fu, però, un altro. L’antica collaborazione franco-piemontese si imperniò, questa volta, su un giovane talento, appena acquistato dal Bordeaux. Franco-algerino di Marsiglia, etnia berbera, musulmano di religione, ma, in testa, una singolare chierica da fraticello cristiano, che gli donava un’aria molto più da uomo anziché da ragazzino. Zinedine Zidane raccolse, in patria e all’estero, quel vuoto di potere delineatosi dopo la dipartita sportiva di Michel Platini. Tanto per gradire, un Pallone d’oro e tante giocate memorabili all’ombra della Mole.

L’estate del 2001 si configurò come foriera di cambiamenti sulle rive del Po. “Ma l’estate va/ e porta via con sé/ anche il meglio delle favole”, cantò un dì Franco Califano, il quale si dedicò alla traduzione della versione originale francese, “Une belle histoire”, cantata oltralpe da Michel Fugain. Zidane sposò la Casa Blanca madrilena (150 miliardi di lire) e le acque del Manzanarre (con buona pace di M.me Zidane più propensa all’odore del mare); a Torino approdò Lilian Thuram, coriaceo difensore del Parma. Un anno prima, invece, il carnefice della nazionale italiana a Euro 2000, David Trezeguet, andò a rinsaldare le fila del reparto offensivo di Carlo Ancelotti.

La nuova carestia di coppe spinse Madama a riabbracciare Marcello Lippi, ricreando la magia delle origini. Thuram e Trezeguet risultarono decisivi negli equilibri della squadra, tanto da rispettare le attese della vigilia. Non appena si addensarono nuvole sull’orizzonte bianconero, che assunsero sempre più sembianze da cadetteria, le scelte compiute dai due fenomeni transalpini si rivelarono diametralmente opposte: Thuram lascia, Trezeguet raddoppia. Quest’ultimo sarebbe divenuto il più prolifico marcatore straniero della storia juventina, con 171 segnature e avrebbe lasciato un dolce ricordo nel cuore di milioni di tifosi.

La caduta negli inferi del calcio, questa volta, apparve quale punto più basso della storia centenaria di Madama. La crisi di identità della Goeba apparve oramai un coma irreversibile. Nel momento peggiore della propria storia, però, la Juve seppe risollevarsi dall’abisso, accogliendo con nuova e trepidante gioia i servigi calcistici di francesi talentuosi e novelli purosangue del calcio, si veda Paul Pogba e di transalpini esperti e carismatici, Patrice Evra. Entrambi sottratti al Manchester United, si rivelarono preziosi elementi nella prima Juventus di Massimiliano Allegri, sconfitti in finale di Champions dal mostruoso Barcellona targato Luis Enrique-MSN.

Ai giorni nostri, ecco giungere una nuova crisi di risultati e trofei per la Vecchia Signora. Non poteva mancare l’apporto di un elemento proveniente dalla vicina Francia. Adrien Rabiot, centrocampista fisico, dotato di una buona tecnica di base e soprattutto di notevoli capacità di scatto. Primi anni vissuti a Torino quasi da oggetto misterioso e con la spada di Damocle pendente sulla cervice: pensa solo ai soldi. Grandissimo figlio di sua madre, M.me Veronique, colei che lo portò in grembo, tenne sempre in grande considerazione l’aspetto economico legato ai contratti professionali del suo giovanotto. Sulle note del noto rapper franco-congolese, Maître Gims, molti tifosi avranno rivolto a Rabiot la fatidica domanda: Est-ce que tu m'aimes? (Tu mi ami?). L’ultima grande stagione del francese, condita da gol e assist, gli è valsa un inaspettato rinnovo annuale di contratto. Lo scetticismo iniziale si è tramutato in fiducia totale, dall’allenatore fino alla tifoseria.


Dai bollenti spiriti della Crimea alla riconferma di Adrien Rabiot, questa è la storia di un rapporto mai interrotto fra la nazione francese e il potere monarchico sabaudo, idealmente rappresentato, aujord’hui, dalla dinastia Agnelli, proprietaria della Juventus da oramai un secolo. Da Vittorio Emanuele II e Camillo Benso di Cavour a Gianni Agnelli e John Elkann, dagli accordi di Plombières alla fusione automobilistica fra FCA e PSA (Fiat-Chrysler/Peugeot-Citroen). Il Piemonte sabaudo e post-sabaudo e la Francia bonapartista e, attualmente, alle prese con la V Repubblica capeggiata da Emmanuel Macron.
Passioni patriottiche, storia europea, geopolitica coppe, campioni e bidoni (Henry, Pericard, Boumsong, Anelka…). Un legame che affonda le proprie radici contemporanee nelle vicende belliche del Risorgimento italiano e che rinsalda la propria efficacia nella passione comune di entrambi: il calcio.
Nel segno di Monsieur Rabiot. Bonne Chance!