Dominio totale. Non si può sintetizzare diversamente quanto accaduto nella finale di Supercoppa Italiana. Una sola squadra in campo, l’Inter, che ha letteralmente stravinto il derby contro il Milan, senza se e senza ma. Ieri, per qualunque sostenitore interista, non si poteva chiedere di più. Una squadra vogliosa, un approccio alla partita da grande, calciatori che hanno davvero offerto il meglio del loro repertorio. Nell’ordine: Dimarco ha coronato il suo sogno da bambino servito da un assist delizioso di Barella che si è infilato evitando il fuorigioco nella corsia di competenza del fenomenale terzino vicecampione del mondo più forte d’Europa, Tonali si è girato quando Dzeko era già in zona corner per festeggiare il raddoppio e Lautaro ha letteralmente scansato la marcatura di Tomori, andando a chiudere con un esterno che in pochi stanno enfatizzando ma che rappresenta un colpo realmente di alta scuola. Insomma, una serata perfetta, per un titolo che permette al club di chiudere la stagione già adesso con qualcosa in bacheca.

Nonostante le critiche (legittime) che possono essere mosse a Simone Inzaghi, alla dirigenza, alla proprietà e agli stessi calciatori, una cosa è fuori discussione: l’Inter ha aperto un ciclo. Sì, qualcuno dei brillanti commentatori che imperversano in rete ha già parlato di “portaombrelli”, di “coppette” e via discorrendo, ma in quanti possono dire di aver vinto lo stesso numero di trofei dei neroazzurri negli ultimi tre anni in Italia? Risposta scontata: nessuno. Perché, ad oggi, nessun’altra squadra della Serie A può dire di aver avviato un percorso migliore dei neroazzurri, e su questo non ci sono possibilità di smentita (ripeto, ad oggi, a scanso di equivoci).

La cosa che mi ha colpito della prestazione che ha portato al 3-0 è stata l’intensità con cui i ragazzi sono scesi in campo, pur con dei limiti che ancora palesiamo sul piano del gioco. Però è stato eccezionale vedere un pacchetto arretrato serrato, determinato, che ha ingabbiato i potenziali pericoli avversari concedendo davvero poco margine e mandando al bar ogni voce di mercato che puntualmente si ritiene possa destabilizzare l’ambiente e che, con altrettanta precisione, è stata rispedita al mittente. Inoltre, dal punto di vista tattico, è stata la prova definitiva di un salto di qualità a centrocampo che a inizio stagione nessuno poteva immaginare: il reparto, e lo dico a voce bassa per evitare che mi sentano troppo dalla Spagna, può fare a meno di Brozovic. Sembra strano anche solo a scriverlo perché appena tre mesi fa era impensabile solo pensarla una roba del genere, eppure abbiamo trovato un equilibrio grazie all’intuizione di Inzaghi e, preventivamente, sul mercato di Marotta, in quanto le due operazioni (Çalhanoğlu e Mkhitaryan) sono dei piccoli capolavori a parametro zero che naturalmente non vengono reclamizzate a dovere (perché l’Inter fa trend solo quando sbaglia a tesserare i calciatori). E infatti si parla più del rimpianto Dybala, dei flop di Correa e Lukaku, mentre sugli acquisti mirati e azzeccati, ma forse meno appariscenti, nessuno fiata. Oltre ai due succitati, mi tocca fare una menzione per Darmian: se arriva un’offerta per Dumfries mandatelo pure, perché un giocatore come l’ex Manchester United è ciò che serve e che deve essere tenuto stretto, a dispetto della carta di identità. Sono i gregari che ti fanno vincere le partite e, appunto, i trofei. Su Lautaro Martinez e Dzeko, invece, credo davvero che ci sia poco da aggiungere: i loro gol sono i manifesti del loro talento. L’argentino continua ad avere margini di miglioramento, è vero, perché a volte sbaglia in situazioni in cui dovrebbe esplodere, ma il sudore, il sacrificio, la rabbia agonistica che trasuda in ogni match dovrebbero essere presi da esempio da tutti coloro che nella vita sognano di fare i calciatori. Un giocatore dal potenziale enorme e che ieri ha chiuso l’incontro con una prodezza che davvero non capisco come non abbia più eco di quanto meriterebbe, perché il modo in cui si libera del difensore avversario e quel tiro di esterno a baciare il palo rappresentano una poesia che merita di restare impressa nella storia del club e della competizione. Il bosniaco è invece un’eterna garanzia. Parliamo di uno dei centravanti più costanti dell’ultimo decennio a livello europeo, anche qui frutto della lungimiranza dirigenziale: quando ho visto la giocata su Tonali sono rimasto strabiliato. Ingiocabile.

Insomma, una vittoria in lungo e in largo che permette di dare ulteriore fiducia per una stagione ancora da vivere sotto tanti punti di vista: lo scudetto è ormai irraggiungibile (o quasi), ma il secondo posto, la Coppa Italia e soprattutto centrare i quarti della Champions League sono obiettivi che la squadra neroazzurra può tranquillamente raggiungere. E la Supercoppa è quel mattone che permette di trarre consapevolezza della propria forza e di affrontare il resto dell’annata con un titolo già in cassaforte, che potrebbe sgombrare la mente dalla paura di una stagione fallimentare e da “zero titoli”, consentendo di essere più sciolti.

Detto ciò, dopo l’ovvia euforia per un successo che vale doppio essendo la stracittadina sempre più sentita rispetto ad altri incontri, il risultato va inquadrato nella sua giusta dimensione per evitare inutili e controproducenti voli pindarici. Perché sì, gli avversari saranno i campioni d’Italia in carica, ma che l’Inter sia più forte del Milan credo sia fuori discussione per qualunque appassionato di questo sport. L’ho ripetuto anche l’anno scorso, anche quando si sono fregiati dello scudetto. La bellezza del calcio è proprio che non per forza chi sia più forte vinca, altrimenti non ci sarebbe neanche da scendere in campo, ma è lampante che il successo rossonero dello scorso anno abbia rappresentato un vero e proprio “miracolo sportivo”. Il Manchester City non ha mai vinto la Champions League, lo sappiamo bene, mentre il Chelsea l’ha alzata due anni fa proprio contro Guardiola, ma tra le due compagini, chi è quella che realmente ha aperto un ciclo vincente? Ci sono vittorie casuali e vittorie frutto di un percorso. E quella del Milan, inutile negarlo, appartiene alla prima categoria. Ovviamente, nel senso migliore del termine. E dunque sì, da interista, mi tocca difendere il tanto bistrattato Pioli di queste ultime settimane: non si può contestare un allenatore che ha consentito a questa rosa di andare a cucirsi il tricolore sul petto perché l’ha portata oltre ogni limite immaginabile. Forse in molti pensano che ciò che sia successo l’anno scorso abbia cambiato i valori, ma non è così: l’impresa rossonera resterà negli annali, ma se qualcuno aveva anche solo ipotizzato che una rosa simile avrebbe potuto avviare un ciclo in Italia e, udite udite, persino in Europa, è ovvio che ha sbagliato completamente lettura. Quel che è accaduto nella scorsa stagione è stato meritevole per un verso ma, e chi è in buona fede lo ammetterà, vi sono state una serie innumerevole di fattori che hanno virato nella medesima direzione e che hanno condotto, ahimè, lo Scudetto verso il Diavolo. E con ciò non voglio sminuire il Milan, perché sarebbe davvero ingiusto in quanto lo sforzo che ha prodotto il gruppo di Pioli è stato encomiabile ma, proprio quando viene meno l’umiltà e sale la presunzione, ecco che anche il buono che era stato tirato fuori si spegne. La forza che ha permesso ai rossoneri di stravolgere i pronostici nella scorsa stagione (un po' come il Leicester di qualche anno fa in Premier League) era basata proprio sul collettivo, sulla fame, sull’affrontare le partite senza supponenza ma con spirito battagliero, oltre all’enorme credito che la buona sorte gli ha riservato. Senza queste qualità e senza degli episodi enormemente favorevoli, questa è una squadra da piazzamento europeo.
Dunque, noi interisti dobbiamo essere soddisfatti e fieri di aver vinto (sarebbe folle il contrario), ma dobbiamo ricordarci che vincere contro il Milan in questa fase storica è nella normalità delle cose. Siamo la prima squadra di Milano e, visto che in tanti lo avevano dimenticato, ieri glielo abbiamo ricordato.

 

Indaco32