Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito ad un gran fermento riguardo la diatriba tra due tipologie di allenatori: i “risultatisti” e i “giochisti”, con gli uni contrapposti in maniera netta rispetto agli altri.
I “giochisti” rappresentano quei tecnici che cercano di arrivare al risultato attraverso la qualità del gioco, l’estetica, il possesso di palla, il dominio dell’avversario, lo spettacolo, il segnare un gol in più dell’avversario piuttosto che il subirne uno di meno.
Un calcio che va quasi alla ricerca dell’eccesso, della suggestione, proponendo un gioco a tratti arrogante, super offensivo nel quale si difende andando in avanti, attaccando, senza mai rinunciare a questi concetti visti come veri e propri dogmi.
La strada maestra a tale filosofia fu aperta dal calcio totale olandese degli anni ’70, proseguita da Arrigo Sacchi col suo Milan dei record fino ad arrivare ad oggi con il catalano Pep Guardiola come suo principale interprete.
Tecnico quest’ultimo con un’idea di calcio molto simile ad una scienza, dotato di uno staff tecnico che non a caso contiene quattro astrofisici.
Un football il suo quasi da playstation, dove tutto viene organizzato, calcolato e pianificato a tavolino e solo in un secondo momento concretizzato sul terreno di gioco.
E poi ci sono i “risultatisti”. Da Trapattoni a Mourinho, da Allegri a Zidane.
Qualcuno li chiamerebbe i seguaci del Machiavelli, l’autore del “Il Principe” saggio con cui l’autore fiorentino portò alla ribalta la massima “Il fine giustifica i mezzi” secondo la quale qualsiasi strumento può essere ritenuto utile se necessario al raggiungimento di un determinato obiettivo.
Sono gli allenatori fedeli al calcio all’italiana, dove vige la regola del “primo non prenderle”.
Quelli convinti che, l’unica cosa che conta sia il risultato finale, da ottenere con qualsiasi mezzo, anche “parcheggiando un autobus” davanti alla propria area di rigore. Tecnici capaci di organizzare una perfetta difesa del fortino, demandando ai campioni della linea avanzata la fase offensiva, sulla falsariga di ciò che succedeva alle Juventus del primo quinquennio “Allegriano” con i vari Tevez, Pogba, Dybala, Higuain e Cristiano Ronaldo.
Ma chi ha ragione?
Quale filosofia è la migliore tra le due?

E poi, conta solo vincere o anche fare spettacolo?
Per provare a dare risposta a tali dilemmi dobbiamo muovere dalla consapevolezza che queste semplificazioni (“giochisti / “risultatisti) non raccontano pienamente una realtà multiforme e feconda sia di tonalità che di mezze tinte quale è il gioco del calcio.
Così come esistono una moltitudine di variabili che portano a prediligere una filosofia rispetto all’altra.
Quel che è certo è che qualsiasi sport pone le sue fondamenta su un concetto molto semplice: vincere.
Come diceva un grande “guru” dello sport come Julio Velasco, chi vince festeggia, chi perde spiega.
Sono certo che nessuno ricordi l’Inter del “triplete” per il suo gioco champagne, ma solo per i grandi risultati ottenuti.
Così come non ho mai visto nessuno far festa per belle prestazioni terminate con una sconfitta dal momento che negli almanacchi rimane solo il nome di vince.
Vincere nello stesso tempo pone un’altra certezza: non esiste un unico modo per prevalere in un qualsiasi gioco, calcio compreso.
È la storia del football che ci insegna questo.
Nel calcio si è vinto in mille modi diversi, con sistemi di gioco eterogenei, con tattiche differenti, e quindi sia “giochiste” che “risultatiste”
Una delle più grandi squadre della storia del calcio fu la nazionale brasiliana del mondiale di Messico ’70. Una squadra unica nel suo genere dal momento che riusciva a far convivere e coesistere cinque numeri dieci: Gerson, Pelé, Rivelino, Tostao e Jairzinho. Artisti della pedata che in quel Brasile hanno rappresentato l’archetipo del football spettacolare e nello stesso tempo vincente.
Possesso di palla, giocate funamboliche, verticalizzazioni improvvise, movimento continuo. Persino i terzini, giocatori notoriamente dotati di poca tecnica, riuscivano a dare del tu al pallone quasi come fossero delle mezzali di grande qualità.
Una perfetta macchina da football.
Solo 12 anni dopo però, nel 1982, il mondiale lo vinse l’Italia di Enzo Bearzot, proponendo un gioco agli antipodi rispetto a quello della scuola brasiliana anni ‘70.
Cinque difensori contemporaneamente in campo, Gentile, Cabrini, Scirea, Collovati e Bergomi, schierati con rigide marcature a uomo (iconica l’immagine della maglietta di Zico letteralmente strappata dal suo marcatore Claudio Gentile) e due mediani di corsa quali Oriali e Tardelli.
Così come il mondiale lo vinse nel 2010 la Spagna con il tiki-taka di Del Bosque ma pure la Francia di Deschamps (Russia 2018) con una squadra “sparagnina”, solida, organizzata e messa in campo all’”italiana”. Con un centrocampo incentrato sulla corsa e sul dinamismo di Kantè e Matuidi, una grande attenzione alla fase difensiva, lasciando alla qualità dei vari Pogba, Griezmann e Mbappè l’incombenza di produrre calcio negli ultimi venti metri di campo.
Ma se gettiamo uno sguardo alla storia delle squadre di club il discorso è pressochè analogo.
Nella Champions League delle edizioni 2008/2009 e 2010/2011 trionfò il tiki-taka di Guardiola.
Un sistema di gioco super organizzato basato su una fitta rete di continui passaggi corti che portavano l’avversario a snervarsi in un pressing costante e a tenere costantemente in mano il pallino del gioco per sfruttare ogni singolo spazio concesso dalle retroguardie avversarie.
Un credo tattico che uno dei suoi più grandi interpreti, Xavi, riassumeva in questo modo: “Ricevo la palla, passo, ho la palla, passo, ho la palla, passo, ho la palla, passo.”
Curioso però che tra le due vittorie di Guardiola e del suo calcio, e quindi nella stagione 2009/2010, a trionfare fu l’Inter catenacciara di Josè Mourinho che basava tutte le sue fortune su una grande fase difensiva e sulle giocate di Sneijder, Eto’o e Milito.
Guardiola e Mourinho: lo Yin e lo Yang del calcio, eppure, entrambi vincenti a distanza di un solo anno l’uno dall’altro.
Così come tra il 2015 e il 2018 fu il Real Madrid di Zinedine Zidane a conquistare per ben tre volte la coppa dalle grandi orecchie con un tipo di calcio differente sia da quello di Guardiola che da quello di Mourinho.
Un Real portatore di un’idea di calcio da giocare senza uno spartito ben preciso ma basata sull’estro e sulla qualità dei vari Marcelo, Modric, Kross, Izco, Bale, Cristiano Ronaldo e Benzema.
Un ulteriore sistema di gioco quest’ultimo, capace di garantire comunque spettacolo e vittorie.
Ma che per vincere non esista un metodo unico e infallibile ce lo insegnano anche le diversità di stile di gioco delle quattro semifinaliste (e dei rispettivi allenatori) dell’attuale edizione della Champions League. Con il tedesco Klopp, che dal suo “gegenpressing” (tutti a cercare di riprendere palla appena né si perde il possesso) e da quel 4-2-3-1 iper-offensivo del suo Borussia Dortmund è passato all’attuale Liverpool, squadra che si schiera con un 4-3-3 molto più stabile ed equilibrato.
Procedendo per Pep Guardiola che è passato dal tiki-taka del suo Barcellona ad un calcio molto più intenso e verticale dell’attuale City. Un tipo di gioco che più si addice alla storia del calcio inglese.
Proseguendo con Carletto Ancelotti che dopo i successi con il suo “albero di Natale” rossonero dei primi anni 2000 è passato all’attuale 4-3-3 del Real Madrid rimanendo però sempre ancorato al concetto di "equilibrio" tanto caro al tecnico di Reggiolo.
Per finire con Unai Emery e il suo 4-4-2 estremamente pragmatico, compatto, con due linee da 4 a creare grande densità in fase difensiva e i due attaccanti pronti in pressione sui centrali avversari e con nessun giocatore oltre la linea del pallone.
Senza voler fare i cerchiobottisti è probabile che, sia riguardo ad una squadra di club che ad un’equipe nazionale, l’essere guidato da un tecnico giochista o risultatista, possa dipendere piuttosto da una questione di essenza, di DNA, di anima.
Tutti sinonimi questi ultimi di quella realtà propria e immutabile delle cose che rende ogni individuo, ogni gruppo, ogni azienda, e quindi anche ogni club calcistico un qualcosa di unico e irripetibile.

Da un seme di pomodoro non nascerà mai un albicocco, così come nessun albero di pesco produrrà delle ciliegie.
È una legge della natura, che nemmeno l’uomo può modificare. E chissà che proprio da ciò possa dipendere il motivo del perché tutte le Juventus più vittoriose degli ultimi cinquant’anni siano state quelle di Giovanni Trapattoni, Marcello Lippi, Fabio Capello, Antonio Conte e Massimiliano Allegri. Tutti allenatori “risultatisti” con il solo Marcello Lippi più inquadrabile in una sorta di “ibrido” fra giochisti e risultatisti.
Se pensiamo alla storia di Torino pensiamo alla prima capitale d’Italia, città nella quale l’ha sempre fatta da padrone un’atmosfera sabauda, austera, con la sua architettura semplice, pulita, regolar, ricca di storia, con uno stile sì Barocco ma comunque discreto, morigerato, più tendente ad uno stile neoclassico.
Un tipo di energia, quella del capoluogo piemontese, dal sapore austero, senza sfarzo, che ha da sempre permeato anche la principale squadra cittadina, la Juventus.
L’energia, Il DNA, l’anima non muta, ed ecco, con ogni probabilità, spiegati i fallimenti bianconeri di tecnici come Gigi Maifredi e Maurizio Sarri, per nulla impregnati di questo tipo di energia.
Qualcuno la definirebbe una questione di chimica, scienza alquanto difficile da sfidare e quantomeno da maneggiare con cura.
Nel calcio non esiste un approccio superiore a qualunque altro in maniera scientifica, tranne che nel minimo comune denominatore che possiamo riscontrare in tutte le grandi squadre del passato e del presente: il gioco di qualità. Coraggioso e collettivo.
Ecco perché a prescindere dalla categorizzazioni, nel calcio moderno sono e saranno sempre più questi concetti a fare la differenza.
Con pressing, intensità, velocità, organizzazione, qualità dei singoli condite perché no da un pizzico di bellezza, non più da intendere come vezzi ma come vere e proprie esigenze.
Quei tratti comuni a tutte le più grandi squadre di livello internazionale che i club italiani devono comprendere e assimilare per arrivare a quello switch che gli possa consentire di virare verso un football più moderno e più aderente a quei codici che rappresentano la nuova frontiera del calcio.