Per i Pitagorici, scuola filosofica del periodo presocratico e fondata da Pitagora a Crotone intorno al 530 A.C. i numeri rappresentavano l'origine di ogni cosa, perché tutto poteva essere spiegato e rappresentato mediante i numeri stessi.
E il numero dieci raffigurava il concetto di perfezione, dando forma ad un triangolo equilatero con quattro unità come base e lati, andando a sagomare la sacra figura del Tetraktis, la sacra decade.
Anche nel calcio il numero dieci rappresenta da sempre un elemento altrettanto unico, un’entità che si avvicina al sacro, investita da un’aureola di occultismo mista ad un fascino di seduzione e suggestione.
Non a caso i grandi numeri dieci hanno frequentemente scandito la storia dei grandi club, proprio come quelli vestiti di bianconero.
Sono in tanti ad aver indossato la dieci della Vecchia Signora, anche solo per poche partite, magari sostituendo chi ne deteneva la titolarità nel calcio che fu, quello in cui si giocava con le maglie dall’uno all’undici. Ma solo alcuni di essi sono state firme prestigiose di questa magica maglia.
Nel calcio del dopoguerra il primo grande dieci bianconero fu Omar Sivori, acquistato dal club bianconero a soli 21 anni dal River Plate per dieci milioni di pesos.
El Cabezón, per la chioma voluminosa che spiccava sul suo esile fisico, indossò la dieci a strisce bianconere tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ‘60 del secolo scorso formando un indimenticabile tridente con John Charles e Giampiero Boniperti.
Con la dieci bianconera sulle spalle Sivori vinse tre scudetti, tre Coppe Italia, il titolo di capocannoniere del 1960 con ventotto reti, conquistando inoltre il Pallone d’Oro nel 1961.
La dinastia dei grandi numeri dieci del club piemontese proseguì con il tedesco Helmut Haller che la indossò nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni 70. Trequartista o ala, straordinario dribblatore, assist-man nonché grande finalizzatore non rappresentava per nulla lo stereotipo del calciatore tedesco tutto casa e lavoro essendo egli un irrefrenabile cultore della dolce vita, raffigurata dai suoi intrinsechi vizi e divertimenti; diurni, ma ancor più notturni.
Gioie che oltre a se stesso regalò anche a tutto al popolo bianconero con le sue mirabolanti giocate fatte da dribbling ubriacanti, assist e gol.
Nel 1980, quando al termine del periodo di autarchia l’Italia riaprì le frontiere ai calciatori stranieri fu l’irlandese Liam Brady a vestire per un paio di stagioni la dieci bianconera. Mancino, ragioniere del centrocampo di scuola Arsenal dal grande rigore tattico, fu un calciatore non solo di qualità ma anche di una non comune serietà e affidabilità.
Caratteristiche quest’ultime sugellate con la realizzazione del penalty decisivo per il titolo di campione d’Italia nell'ultima giornata della stagione 1981/82, pur consapevole della mancata riconferma riguardo la stagione successiva.
In quell’epoca si poteva tesserare solo un calciatore straniero e la Juventus già da alcuni mesi aveva pensato di sostituire il buon Liam con uno dei numeri dieci per eccellenza della storia del calcio, Michel Platini.
Sua Maestà Le Roi, il francese che segnava come un centravanti e allo stesso tempo forniva assist a gogò ai propri compagni di squadra. Michel vinse tutto ciò che avrebbe potuto vincere in maglia bianconera: due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa delle Coppe, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa europea e una Coppa Intercontinentale.
Il tutto guarnito e infiocchettato da 147 gol, tre titoli di capocannoniere della Serie A, un titolo di capocannoniere della Coppa dei Campioni e ben tre Palloni d’Oro consecutivi.
Platini lasciò l’Italia e conseguentemente la dieci bianconera nell’estate 1987, maglia che per qualche stagione fu indossata da Michael Laudrup, Giancarlo Marocchi, Massimo Mauro e Oleksandr Zavarov. Buoni, ottimi giocatori, ma non grandi campioni.
Casacca che ritrovò un interprete degno del suo blasone nell’estate del 1990 quando a vestirla fu nientepopodimeno che il “divin codino”, Roberto Baggio, per molti il miglior calciatore italiano di sempre, arrivato a Torino dopo aver disputato un grande mondiale italiano.
Il suo approdo in maglia bianconera avvenne tra mille polemiche e fu fortemente voluto dall’Avvocato Gianni Agnelli che aveva un vero e proprio debole per i numeri dieci. Il patron bianconero non essendo riuscito ad accaparrarsi Diego Armando Maradona e avendo perso da qualche anno il suo artista preferito, Michel Platini, necessitava di una scintilla capace di tornare a farlo divertire e nello stesso tempo in grado di riaccendere la passione nel popolo bianconero.
E Roberto Baggio a Torino, oltre che a deliziare il palato di tutti gli amanti del bel calcio, lo ripagò conquistando una Coppa Italia, il pallone d’Oro e nella sua ultima stagione bianconera (94/95) il tanto agognato scudetto prima di passare al Milan lasciando il testimone ad Alessandro Del Piero. Classe 1974 nativo di Conegliano, Alex impiegò poco a diventare il prediletto dell’Avvocato, venendo soprannominato Pinturicchio dallo stesso Agnelli, in onore del grande pittore miniaturista umbro del 1400.
Del Piero che il l 26 novembre 1996 grazie ad uno dei pezzi forti del proprio repertorio regalò ai bianconeri la seconda Coppa Intercontinentale della sua storia, superando a Tokyo gli argentini del River Plate.
Straordinario il suo palmares in bianconero: sei scudetti, una Coppa Italia, quattro Supercoppe Italiane, una Champions League, una Supercoppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Coppa Intertoto e un Campionato di Serie B.
Con Alex che non si separò mai dai colori bianconeri, seguendo la vecchia signora anche nell’inferno della seconda serie nazionale nella stagione post-calciopoli. Da pelle d’oca il suo saluto al popolo bianconero che avvenne allo Juventus Stadium il 13 maggio 2012, in un Juventus-Atalanta 3-1, condito dal suo ultimo gol in serie A.
Anni, quelli della militanza bianconera di Del Piero, nei quali giocò sotto la Mole un altro straordinario artista della pedata, senza però riuscire ad indossare la dieci in quanto occupata proprio da Pinturicchio. Il riferimento è naturalmente a Zinedine Zidane, francese di origine algerina, Pallone d’Oro nella stagione 1998 con il club bianconero che per classe, talento e fantasia va annoverato di diritto tra i grandi numeri dieci bianconeri, anche se nei fatti a Torino giocò sempre con la numero ventuno.
Curioso e tormentato il rapporto di Zizou con la maglia numero dieci. Nel Cannes, la squadra che lo fece esordire nel calcio dei grandi, vestì la numero undici, mentre quando passò al Bordeaux, trovando la dieci già occupata dall’olandese Richard Witschge dovette ripiegare sulla sette.
Analogo destino al momento del trasferimento al Real Madrid, dove già da un anno la dieci era di proprietà di un altro totem del calcio mondiale, il portoghese Luis Figo. Zidane optò per la numero cinque, numero che gli portò grande fortuna dal momento che con i Blancos il francese vinse tutto, sia come giocatore che nella sua seconda vita sportiva nelle vesti di allenatore.
Fu un altro grande argentino, Carlos Tévez (2013-2015), l’'Apache”, più punta che trequartista ma anche grande uomo assist, ad ereditare la dieci lasciata libera Alex Del Piero dopo una stagione (2012/2013) in cui non fu indossata da nessuno.
Argentino arrivato dal Manchester City per nove milioni di euro, dalla critica dato per bollito e sul viale del tramonto, rappresentò al contrario un grande affare targato Marotta-Paratici.
Con una prima stagione a Torino che vide l’Apache conquistare lo scudetto mettendo a segno diciannove gol, la maggior parte di essi decisivi e un secondo anno che non solo gli fece mettere in cascina un altro scudetto ma ancor più trascinare la Juventus alla finale di Champions League a Berlino. Gara quest’ultima persa contro il grande Barcellona del trio Messi, Neymar, Suarez.
Partito Tevez, che nell’estate 2015 fece ritorno al suo amato Boca Juniors, fu Paul Pogba, il “Polpo”, a vestire la maglia numero dieci bianconera a partire dall’estate 2015. Stagione (2015/2016) che lo consacrò nell’élite del grande calcio come campione assoluto grazie alla sua prorompente fisicità unita a colpi di grande classe, gol e assist a gogò.
E quando Paul lasciò Torino per approdare a Manchester sponda United, fu Paulo Dybala ad indossare la dieci bianconera, con l’argentino di Laguna Larga che ha rappresentato la storia più recente della prestigiosa maglia bianconera.
Approdato a Torino nell’estate 2015 per oltre quaranta milioni di euro dal Palermo, il classe ’93 ha vissuto per sette anni una tormentata storia d’amore a tinte bianconere, trascorsa tra Joya (il suo soprannome) e dolori.
Paolino, infatti, è stato uno dei giocatori più divisivi della tifoseria bianconera, cosa piuttosto comune ai grandi artisti in ogni ambito, non solo calcistico.
Con il partito dei “Dybalisti” che fin dal suo approdo a Torino lo elesse erede di Lionel Messi grazie a capacità realizzative non comuni, giocate di classe, fantasia e un sinistro cantante.
E con quello degli “antiDybalisti”, che lo ha sempre reputato poco più che un giocatore da salotto: bello da vedere, elegante, a volte irresistibile, ma troppo fragile, sia a livello fisico che caratteriale. Una sorta di bene di lusso più che un calciatore determinante.
Un grande giocatore che non è mai arrivato ad essere il fuoriclasse che avrebbe potuto diventare.
Quello che è certo è che il futuro di Paulo Dybala non sarà a tinte bianconere, non avendo egli rinnovato il contratto in scadenza il prossimo 30 giugno.
E con un Dybala in partenza, anche quella casacca così elegante ma altrettanto pesante da indossare e capace di incarnare i valori bianconeri perderà il suo attuale interprete.
A noi altro non resta altro che augurare le migliori fortune professionali e personali a Paulo e attendere speranzosi che il nuovo dieci bianconero (per scaramanzia aspettiamo solo l’annuncio ufficiale, ma dovrebbe essere nuovamente Paul Pogba) possa essere non solo un giocatore da top club, ma anche quel leader capace di diventare il simbolo del nuovo corso bianconero.