Nello specifico professionistico, non ci sono competizioni di basso livello.
La conquista della Coppa delle Coppe 1984 servì alla Juve come trampolino di lancio per ovviare agli errori della Campioni precedente e come trampolino di lancio per il finale di stagione 1985 (al di là dei tragici fatti dell'Heysel, conquistò l'Intercontinentale che, allora, era ancora il picco di una lunga partecipazione a un torneo incerto e non spartito, come oggi, tra tre-quattro squadre che hanno messo le mani sul calcio).
Mourinho è un "animale da coppa": la vittoria nel torneo nazionale 2009-10 ne costituisce, più che altro, l'eccezione.
Zeman, tra altre cose, è colui che ha "inventato" il trio che, tra altri gruppi, ci ha permesso la conquista dell'Europeo procrastinato 2021: Immobile-Insigne-Verratti (in ordine alfabetico) molto prima dei furori di Chiesa, Locatelli e Bernardeschi. Due grandi, ognuno a modo suo.
Altro, riguarda i duellanti Allegri - Inzaghi (ibidem) che hanno confermato, nell'ultimo lustratissimo cimento in finale di Coppa Italia (si scusi il tradizionalismo che non mi consente di accennare a treni o telefoni, tra le poche ultime attività economiche rimaste e che si possono permettere uno sponsor simile) un lontano e ben celato dissapore che avrebbe giustificazione nel valore degli scontri che li hanno visti, nel corso degli anni, contendere ai ferri corti.
Due personaggi diversi: fricative toscane biascicate l'uno, alternanza di gutturali e occlusive nell'altro; voluto incremento del volume a mo' di piazzista di strada nell'uno, tentativo di contenimento del suono nell'altro. Persone diverse. Soprattutto tatticamente.
La manovra larga, aggirante, quanto l'ansa del natante che ricorda il nome del suo maestro, Galeone, risulta in contrasto con la fase di assedio prolungato, che poco scampo lascia, dei nerazzurri di quest'anno. Un vero bombardamento che la Juve patisce, in particolare, dopo essere passata in vantaggio nella finale. Un po' il caso, Danilo che si fa male, un po' scelta voluta, il risultato è la retrocessione a difendere di Cuadrado che da un lato ne bagna le polveri sempre utili, dall'altro rompe l'incantesimo sulla fascia destra bianconera che vedrebbe nella simbiosi colombiano-brasiliana la regola aurea. Di questo, il tattico Inzaghi, già somigliante ad Happel "il nomade della panchina" per le caratteristiche delle squadre da lui dirette, approfitta prontamente. Come Happel nel 1983, con l'Amburgo. La Juve, squadra dalla costruzione paziente e razionale forse per vicinanza intellettuale con la Francia cartesiana; di là, l'attacco di un'orda motivata, rabbiosa. Il foro, la linea maginot creata dall'uscita di Danilo viene occupata da Di Marco che furoreggia e imperversa portando nell'area juventina un "congruo" numero di cross.
Da una folata dalla parte opposta, dove Inzaghi si vede costretto ad attingere al solito Dumfries, scaturisce il rigore del pareggio nerazzurro. C'è  qualche segnale di reazione che non oltrepassa la condizione di timidezza. Ormai lo slancio pare non fermarsi. E' in questa miscela di azioni anche notevoli e amnesie, che si sistema il terreno di coltura della Juventus ultima maniera, di cui si vedevano i segnali nei secondi tempi di due finali di Champions disputate nell' ultimo decennio. Non si pretende di vedere la squadra moto perpetuo, anche se l'Inter Marottiana sembra avviarvisi. Ma nemmeno la manovra  a strappi di cui Nedved, da giocatore, ci deliziava.
Ed è questa, secondo me, la chiave di lettura dello staff bianconero attuale: dove finiscono le competenze dell'uno e iniziano quelle dell'altro. L'Avvocato Agnelli, ascendente del presidente juventino attuale, sentiva i pareri di Boniperti e Trapattoni, lasciando ampi margini di scelta, ma con battute eleganti e raffinate, come tutte le battute da qualcuno non gradite, manifestava pubblicamente e indirettamente il suo pensiero; e, nel caso di giocatori importanti e decisivi, vedi Platini, prendeva lui stesso le decisioni. Tecniche.