TRATTO DA UNA STORIA INVENTATA DI SANA PIANTA

 

Mi chiamo Andreantonio Sicomoro e oggi, 3 Settembre 2019, ho dato l’addio al calcio giocato.

Sono nato il 30 Dicembre 1979 a Vercelli, da padre italiano e madre argentina.
La mia non è una storia strappalacrime, non ho vissuto un’infanzia difficile cercando il riscatto tramite lo sport in cui fin da bambino avevo un talento particolare.
Sono stato un calciatore, un grande appassionato che ha avuto la costanza, il talento e molto probabilmente la giusta dose di buona sorte per entrare nel magico mondo del calcio, vivendo una carriera ultraventennale piena di emozioni per i traguardi raggiunti e di rabbia per quelli non conseguiti.

Non aspettatevi dunque nulla di drammatico o di tragico: è una semplice storia sportiva e di vita, con i suoi alti e bassi, con le vittorie e le sconfitte, con i sorrisi e le maledizioni, con la voglia matta di inseguire un sogno senza esserne ossessionati.

Ed è proprio con questa leggerezza che nacque tutto.

Avevo appena 14 anni e giocavo nella mia squadra di quartiere. Nulla di ufficiale, nulla di organizzato.
Semplicemente, stavo insieme ad altri sette ragazzi con i quali, ogni pomeriggio, dopo aver fatto finta di fare i compiti, ci vedevamo in un’area vicino casa a giocare per almeno tre ore filate.
Le nostre porte erano all’avanguardia: due lampioni, che la casualità volle fossero ad una distanza pressoché idonea per giocare, rappresentavano i nostri pali, mentre la traversa si modificava in funzione dell’altezza del portiere. Altro che infradito e roba varia, noi avevamo il nostro tempio ed era perfetto così come era.
Ci allenavamo con costanza, guai a sgarrare: solo chi aveva delle visite mediche poteva assentarsi.
Dovevamo essere rigidi: c’era in ballo un duello con un’altra squadra del quartiere, che si allenava nel parco poco distante dal nostro terreno di gioco.
Alternavamo una sfida a settimana, rigorosamente in casa dell’uno o dell’altro, con partenza da Settembre fino a metà Luglio.
Ed è proprio 17 luglio 1994 che si concludeva la mia esperienza più importante, anche se in quel momento non lo sapevo ancora.
L’appuntamento al parco era fissato al solito per le 17:30. Era l’ultima sfida prima dei saluti per le vacanze. Ci saremmo rivisti tutti a Settembre, almeno così credevo. Il torneo lo avevamo già stravinto. Delle 35 partite fin lì disputate, ne avevamo vinte ben 30, ma volevamo chiudere in bellezza. I pali della porta del parchetto erano dei tronchi di albero, mentre il fogliame rappresentava un buon riferimento per le palle alte.

Si comincia e, come al solito, partiamo forte. 2-0 dopo pochi istanti.
Il gioco diventa più intenso e noto che Giorgio e Luca, i nostri più pericolosi avversari, sono in giornata di grazia: sulla parte sinistra del campo fanno ammattire Michele, che chiede a gran voce anche il mio rientro nelle retrovie.

Oggi, però, è complicato contenere: la ribaltano e addirittura allungano sul 2-4.
Ci rituffiamo in avanti e proviamo a ricompattarci, finché un pallone colpito da Lucio viene parato da Matteo poco oltre la linea, almeno per noi.
Loro, inferociti, sostengono che assolutamente non è così. Si passa al classico “Goal o rigore?” e loro non possono che scegliere rigore. Francesco, il nostro leader in campo, lo trasforma senza esitazione.
E’ un sussulto, perché stavolta loro sono davvero sul pezzo: si portano sul 7-3 e per noi la situazione è ormai complicatissima.
Ho bisogno di sbloccarmi e l’occasione arriva su punizione per una trattenuta ai miei danni; chi subisce fallo, calcia.
E’ sempre stato così.
Il mio tiro a giro si insacca. E’ una perla, il mio 135° goal. Sì, tenevo il conteggio delle mie reti essendo un fanatico delle statistiche. Loro continuano a segnare e arriviamo addirittura al 4-9. E’ davvero finita.
Abbiamo modo di accorciare le distanze fino al 6-9, ma Luca la piazza.
10-6. Non abbiamo più modo per recuperare. Per loro è una festa, per noi una sconfitta che fa male. Abbiamo stravinto il campionato ma perdere l’ultima fa effetto.
Ci auguriamo le buone vacanze e ci salutiamo in fretta perché tutte le nostre rispettive famiglie ci aspettano: pizze ordinate dalla sera prima e birre fresche.
Sì, perché quella era la notte di Pasadena. Per scaramanzia nessuno di noi disse nulla, eravamo in tensione per un sogno che nessuno della nostra età si era potuto gustare, essendo che all’epoca del Mundial ’82 eravamo troppo piccoli per poter comprendere la portata di quel successo.

Tornai a casa e feci una doccia velocissima. L’attesa era spasmodica per tutta la famiglia.
Sappiamo tutti, però, come finì: quel tiro di Roberto Baggio non riuscirò a togliermelo mai dalla testa.
Il mio idolo che sbagliò nel momento decisivo. Non potevo credere che il mio eroe potesse cadere in errore.

“Andre, anche chi tocca il cielo con un dito può perdere l’equilibrio mentre è in volo.”
Fu la frase di mio zio subito prima di consolarmi. Mi nascosi nel suo abbraccio  per poter piangere, non volevo farmi vedere da nessuno.
Un sogno che si era interrotto sul più bello, il tricolore già pronto per sventolarlo in Piazza Maggiore.
Tutto finito, in un solo colpo.

Ma le lacrime per quella Coppa appena sfiorata precedevano quelle molto più amare per la notizia che ricevetti solo qualche giorno dopo: mio padre venne trasferito con decorso immediato per motivi professionali e a partire da fine agosto saremmo dovuti andare tutti a Busto Arsizio.
Io ero sempre stato molto freddo nei rapporti, ma sapere di non avere più la mia razione quotidiana di quei ragazzi con cui avevamo costruito un legame emozionale mi colpì.
Non riuscii neanche a salutarli: solo telefonicamente riuscii a sentire un paio di miei compagni, chiedendo di non dimenticare mai i momenti vissuti insieme. Quei lampioni, quel parco, quei palloni che finivano in mezzo alla strada, a volte scoppiati da un’auto in transito, a volte su qualche balcone, altre volte ancora addirittura piombati nel finestrino della macchina della nostra professoressa di italiano.
Mi sarebbero mancati per tutto il resto dei miei giorni.
Le mie 135 segnature resteranno tali.

Cominciava un nuovo capitolo.
Arrivato a Busto Arsizio, infatti, mio padre mi iscrisse immediatamente a scuola calcio, per la prima volta nella mia vita. Sapeva che avrei avuto difficoltà ad ambientarmi e pensava che ficcarmi in una società calcistica pagando per poter giocare potesse risolvere i miei problemi.

Si sbagliava di grosso.
Io avevo bisogno della spensieratezza, del gioco senza schemi, del sentirmi libero di potermi esprimere senza vincoli o paletti. Non avevo neppure 15 anni e per me, il pallone, era solo un modo per sentirmi vivo.
Frequentai solo per un paio di mesi, poi mollai. Mi dedicai allo studio e mi tenni in allenamento giocando nel mio cortile di casa.
Era il marzo del 1995 quando, tornando da scuola, notai che nella casa di fianco alla mia si stava effettuando un trasloco e incrociai lo sguardo con una ragazza della mia età. Non so cosa mi prese, ma ebbi l’istinto di scappare via il prima possibile.

Mi ero emozionato? Non può essere. A me non emozionava niente.
Era bellissima? Ma che dico, le ragazze non erano belle, credevo. Erano vanitose, acide, cattive.
Infatti, sentii un mal di stomaco tremendo.
Colpa sua!
Lo sapevo che le ragazze facevano male, lo dicevamo sempre con i ragazzi del mio quartiere. E ora? Come facevo a giocare nel cortile di casa se poi lei spuntava e mi guardava? E magari rideva pure?
No, decisi di non andarci per qualche giorno.
Poi, non potendo farne a meno di toccare il mio adorato pallone, mi feci coraggio: uscii e piano piano cominciai a palleggiare. Sembrava tutto nella norma.
Per un paio di settimane, tutto tacque. Mi guardavo intorno ogni giorno, perennemente, sperando di vederla e nello stesso tempo che si facesse gli affari suoi. E proprio mentre fantasticavo di essere il protagonista indiscusso di una partita di Coppa dei Campioni, ecco che lei uscì.
Persi di vista il pallone e per poco non inciampai. Lei rise. Lo sapevo, maledizione.

“Stai ridendo di me, per caso?”
“Sì, campione.”
“Non mi prendere in giro. Guarda che so giocare.”
“Si, ma infatti sicuramente sarai il più bravo del cortile di casa tua!”
“La smetti di prendermi per i fondelli?”
“Ma dai, scemo. Sono quindici giorni che ti osservo e so benissimo che hai del talento. Il problema è che lo tieni per te. O sbaglio?” Non sapevo cosa rispondere.
“Vieni qui.”
Non sapevo davvero cosa rispondere. Penso di essere diventato rosso come mai, quella volta.
Più la guardavo e più mi sentivo imbarazzato.
“Perché non ti lasci andare?”
“Perché dovrei farlo? Mi sono trasferito da pochi mesi ma mi manca troppo il posto in cui stavo.”
“Femminuccia!”
“Ma che dici?”
“Come ti chiami?”
“Andrea”
“Andrea, io sono Maria. E ti dico che sei un idiota.”
“Ancora continui ad offendermi”
“Sei un idiota perché credi che sia un dramma lasciare un posto per un altro. Alla tua età, poi. Piantala di autocommiserarti e comincia a vivere. Comincia a capire che se hai un talento, lo devi mettere a frutto. Comincia ad applicarti per quello che davvero ti piace, studia, apprendi.
Hai un talento con quel pallone tra i piedi? E allora buttati. Sperimenta. Non avere timore di mollare tutto e di partire. Devi seguire ciò che hai, senza paure.
Prendi me, ad esempio.”
“Tu giochi a calcio?”
“Ma no, scemo. Io ballo. Da quando ho 6 anni. E ho cambiato ogni due anni città per via del lavoro dei miei genitori. Ho dovuto ricominciare da zero, ogni volta. Nuova scuola, nuove amicizie, nuovi ambienti. Ma solo una costante mi ha accompagnato per tutto questo tempo: la passione per la danza. Ora, tu, con il tuo talento, che cosa intendi fare? Smettere di sognare o cominciare a darti da fare?”
E ci baciammo.
Non potevo crederci.
Sono passati tantissimi anni ma quando ci penso mi viene ancora da sorridere.
Una ragazzina sconosciuta, la mia prima cotta, mi ha aperto gli occhi.
Dovevo diventare quello per cui ero davvero pronto.
Smetterla di essere triste e cominciare ad inseguire il mio sogno.

Fu così che tornai nella scuola calcio in cui mi ero iscritto qualche mese prima e cominciai a mangiarmi l’erba.
Faticai tantissimo: regole, schemi, allenamenti.
Io avevo sempre giocato in libertà ma per arrivare a fare ciò che desideravo bisognava mettersi sotto. Col mio mister trovai dopo molta sperimentazione la mia collocazione ideale in campo: centrocampista centrale. I mesi estivi continuai ad allenarmi, per poi ripartire la stagione dopo.
Fu un anno intensissimo.
Ero finalmente felice.

Ma nulla in confronto a quello che mi aspettava il 24 Giugno 1996.
Tornai a casa dopo una passeggiata con Maria e trovai al tavolo il mio allenatore e il presidente della scuola calcio con mio padre.
“Tesoro, siediti. Ci sono notizie.”
Non sapevo cosa attendermi.
Prese la parola il presidente.
“Caro Andrea, durante quest’anno abbiamo ricevuto diverse visite da parte di molte società di spicco e in particolare una ha messo gli occhi su di te. Non so come dirtelo, ma stai per diventare un calciatore professionista. Andrè, tu, dall’anno prossimo, farai parte della Sampdoria.”

Ricordo ancora che in quel momento tutto pareva dissolto intorno a me.
Urlai di felicità e abbracciai i miei genitori, il mister, il presidente.
Ero fuori di me.
Feci i salti di gioia e mi recai immediatamente a casa di Maria. Le comunicai che da Settembre avrei fatto parte della squadra blucerchiata. I campioni d’Italia di appena cinque anni prima.
Un sogno.
Lei mi disse che era felice, ma non lo sembrava davvero.
“Mari, che hai?”
“Nulla. Sono davvero felice per te.”
“Perché non mi sembra affatto così?”
“Andre. Le nostre strade si separeranno. Io e te non potremo più stare insieme.”
“Ma non è vero. Io provo un sentimento per te. Ci vedremo durante le feste, nei momenti in cui saremo liberi.”
“No, Andre. Io e te non dimenticheremo mai quello che abbiamo vissuto. Io ti ho indicato la strada, mentre tu hai permesso di farmi sentire una persona che prova sentimenti ed emozioni. Siamo importanti l’un per l’altro. Ma tu devi camminare per la tua rotta. Ed anche io.”

Mi crollò il mondo addosso.
Passato alla Sampdoria e lasciato dalla mia prima fidanzatina in pochissimi minuti.
Furono settimane devastanti, contrastanti.
Ma proprio grazie a lei, non ebbi alcun tentennamento: a luglio organizzai il trasloco. Prima di partire, la vidi dal cortile, da lontano.
Accennò solamente un saluto. Neanche un bacio, una carezza, una parola.

Solo dopo molto tempo capii che non era un gesto egoistico ma tutt’altro.
Mi asciugai le lacrime per lei, ci pensai per tutta la durata del viaggio.
Ma adesso ero arrivato a Genova.
Ero giunto alla prima fermata di un grande viaggio e non avevo alcuna intenzione di tornare indietro.

 

TO BE CONTINUED…..