Mio padre è un grandissimo appassionato di calcio, ha dedicato gran parte della sua vita a questo sport, prima con una discreta carriera da calciatore, poi, una volta costretto a lasciare, continuando a seguirlo da tifoso ed amante incondizionato. Se oggi sono qui a scrivere questo articolo, lo devo certamente a lui, che mi ha fatto apprezzare quello che da molti è definito “lo sport più bello del mondo”, ma che, chissà, se lo sarebbe stato anche per me, senza la “spinta” del mio vecchio. Beh, per lui, classe 1965, questo ultimo mese è stato particolarmente scioccante: due dei suoi maggiori idoli, di quelli che lo ispiravano quando ancora da ragazzino si divertiva a scorrazzare per i campi della Puglia e non solo, non ci sono più. Non voglio parlare della loro carriera, o di quanto abbiano dato al calcio, perché chiunque ne è a conoscenza, e perché io, alla mia età, non ho la benché minima licenza per immaginare anche lontanamente quello che certi miti significassero per intere nazioni. Parlerò invece di una partita, che sicuramente i ragazzi di quegli anni hanno scolpita a fuoco nella mente, ma che probabilmente è stata meno sponsorizzata rispetto alla sorprendente vittoria contro gli strafavoriti, il Brasile di Zico, Falcao e Socrates, o alla finale contro i rivali di sempre della Germania Ovest, regolata con la stessa sicurezza di un genitore che ammonisce il figlio prima che commetta una sciocchezza.

Italia-Argentina, sotto diversi aspetti, rappresentò la vera svolta per la nazionale guidata da Enzo Bearzot, seppur l’apoteosi sia stata raggiunta, come detto, contro i verdeoro. Gli azzurri vengono da una prima fase a gironi da incubo, in cui, contro tre squadre modeste, seppur ostiche (non dimentichiamoci Zibì Boniek nella Polonia, e la grinta del Camerun guidato da Thomas n’Kono, idolo di un altro eroe mondiale, un certo Gigi Buffon), non riesce a cogliere alcuna vittoria, concludendo il raggruppamento miracolosamente da seconda, con soli tre punti, derivanti appunto da tre miseri pareggi, che però bastano per regolare il Camerun, non grazie ad una migliore differenza reti, infatti entrambe chiudono a 0, bensì forti di una rete in più a referto, con gli africani che hanno realizzato un solo gol, proprio quello contro gli azzurri, durante la competizione. Così, il passaggio alla fase successiva sembra solo il posticipo di un’uscita ormai annunciata per la nazionale nostrana, ancor più considerato che la seconda fase a gironi, vedrà gli uomini di Bearzot invischiati in un impegno proibitivo, contro il Brasile, di cui abbiamo già detto come fosse la favorita numero uno, visto l’organico di cui poteva disporre, e dato che la Coppa del Mondo mancava ai sudamericani da ben 12 anni, quando o’Rey la portò a casa per la terza e ultima volta, proprio contro una fortissima, ma in quella partita inerme, Italia. C’era però anche un’altra squadra, che preoccupava, se non alla pari del Brasile, comunque parecchio i tifosi italiani: era l’Argentina, campione del mondo in carica, guidata da Daniel Passarella, “El Caudillo” (il generale) o “el Gran Capitan”, leader assoluto 4 anni prima e difensore che, seppur non proprio sottile nei suoi interventi, era dotato di una tecnica che pochi liberi hanno potuto mettere in mostra nella storia di questo sport. Poi c’era Mario Kempes, uno dei calciatori più sottovalutati della storia, un’ala sinistra capace di segnare con una continuità sbalorditiva, grazie alla sua potenza fisica impressionate, e che, se Passarella poteva essere considerato il capitano della nave, era il pilota, il vero trascinatore, che, con 6 reti, dopo essersi sbloccato solo a partire dalla seconda fase a gironi (vi ricorda per caso qualcuno?), aveva trascinato l’Albiceleste ad un successo inaspettato, seppur da padrone di casa. Nella prima fase ad eliminazione i sudamericani avevano chiuso al secondo posto, proprio per via di una sconfitta all’ultima giornata contro la nascente nazionale italiana di Bearzot, e questo complicò non di poco il cammino verso la finale, sia perché nel secondo raggruppamento Kempes e compagni furono costretti a confrontarsi con Polonia, Perù (uno dei migliori Perù della storia) e Brasile, giocando, per altro, non a Buenos Aires, ma a Rosario. Comunque, perdonate l’inciso decisamente troppo prolisso, stavo dimenticando di presentarvi un altro titolare di quell’Argentina, un giovanissimo Diego Armando Maradona, che nell’estate successiva si sarebbe trasferito a Barcellona per far spiccare il volo ad una carriera che aveva la stimmate del predestinato, e che già tutto il mondo, azzurri compresi, temeva. Proprio nella capitale catalana, di cui Diego era promesso sposo, si disputava, in un pomeriggio torrido, la seconda partita del girone a tre (il Brasile aveva già battuto gli argentini per 3-1). Lo stadio non era il Camp Nou, ma all’Estadio de Sarriá, demolito nel 1997, dove giocava le partite casalinga l’altra squadra per eccellenza di Barcellona, l’Espanyol.

Gli azzurri, consci delle difficoltà che li attendono, ma anche delle proprie potenzialità, decidono di recuperare la coesione del gruppo, e per farlo compiono una scelta senza precedenti: il silenzio stampa. Infatti, troppe erano le voci che circolavano attorno al ritiro della nazionale: oltre alle critiche squisitamente calcistiche a commissario tecnico e calciatori, l’ombra dello scandalo scommesse, e addirittura una voce su una “amicizia” molto profonda fra Paolo Rossi e Antonio Cabrini. Da allora sarebbe stato solo il capitano, il quarantenne Dino Zoff, a parlare. Sarebbe superfluo raccontarvi la partita, che terminò con un 2-1 favorevole ai nostrani, che aprono le marcature con un sinistro dal limite di Marco Tardelli su suggerimento di Antognoni, e bissano il vantaggio, dopo un palo su calcio di punizione di Maradona, uno dei pochi guizzi del “dies”, quasi completamente annullato dall’asfissiante marcatura a uomo di Claudio Gentile, con Cabrini che rimedia all’errore sotto porta di un Paolo Rossi ancora troppo opaco: a nulla servirà la punizione di Passarella sul finale.

I campioni del mondo abbandonano il sogno di emulare il Brasile, vincendo due mondiali di seguito, mentre l’Italia trova una nuova consapevolezza nei propri mezzi, e rappresenterà, come detto, probabilmente la vera conversione sulla via di Damasco (in questo caso di Madrid).

Paolo Rossi, ma questo lo sappiamo tutti, metterà finalmente a tacere le critiche, diventando “Pablito” e realizzando sei reti nelle tre gare successive, che lo consacreranno a capocannoniere e, più tardi, secondo italiano a vincere il Pallone d’Oro dopo Gianni Rivera (se non consideriamo Omar Sivori, che era oriundo, essendo di origini argentine ed avendo acquisito la nazionalità solo in seguito).

Maradona, dal canto suo, dovrà attendere qualche tempo in più per raggiungere il tetto del mondo, ritrovandosi con l’amore di Napoli, dopo la fine dell’esperienza sfortunatissima, a causa di un infortunio che ne ha messo a serio rischio il prosieguo della carriera, e portando a compimento una cavalcata, tanto esaltata quanto discussa, in Messico.

Due fuoriclasse estremamente diversi: Diego, il "dio" del calcio, vera e propria divinità pagana, soprattutto per i napoletani e gli argentini, capace, con un pallone, di ridisegnare il mondo, e Pablito, che si è seduto al tavolo degli dei, pur non avendone diritto, grazie ad un animo puro, da bambino, e all’amore di un gruppo di amici, amici veri.

Una cosa in comune però ce l’hanno, Diego e Paolo: ognuno di noi, nel suo piccolo, gli deve qualcosa.