Lo sappiamo bene: di fianco all'emergenza sanitaria (prioritaria) viaggia a passo spedito quella economica e finanziaria, che non risparmia, ovviamente, neppure il mondo del calcio. In che modo essa impatterà sull’intero movimento?

Premessa: nel periodo che stiamo vivendo, il primo traguardo da raggiungere deve essere solo quello di superare al meglio l’epidemia; in secondo luogo, è necessario salvaguardare il più possibile gli interessi economici di tutti i settori, ivi compresi quelli calcistici, che molto spesso riguardano interi nuclei familiari. Preme infatti ricordare che non sono tanto i vertici piramidali della gerarchia calcistica a rischiare il collasso, di cui mi occuperò in questo pezzo, quanto i livelli più bassi, come cadetteria, Serie C e soprattutto dilettantismo, i quali avranno necessità di misure opportune per non andare in KO. Ecco, dunque, i quattro aspetti di cui bisogna tener conto in questa fase e che impongono una profonda riflessione.
 

  • DIRITTI MEDIA


Non lo scopriamo oggi: i diritti televisivi (o di streaming, che dir si voglia) sono la componente principale delle fonti di ricavo dei club. Complessivamente, per la nostra Serie A, mancherebbero all’appello circa 300 milioni di euro suddivisi tra i vari broadcaster per ultimare i pagamenti pattuiti per la stagione 2019/20: una somma enorme, tanto per le grandi, quanto per le piccole società, le quali necessitano di queste risorse per poter far quadrare i conti. Ecco perché in molti spingono affinché il campionato si concluda. Ma come si evolverà la situazione? Allo stato attuale, pare che non vi sia all’orizzonte un braccio di ferro tra Lega e titolari delle trasmissioni: gli accordi in essere, infatti, non prevedono penali in caso di mancata disputa delle partite per cause di forza maggiore, sebbene sia evidente che l’assenza di calcio giocato provochi un problema non indifferente sugli abbonamenti, tra disdette e mancate sottoscrizioni, a cui si aggiunge l’impossibilità di usufruire del servizio da parte di strutture quali bar, pub e ristoranti, rappresentanti di una fetta di utenza non di poco conto.

Se comunque in Italia paiono esserci gli estremi per venirsi incontro con svariate soluzioni (ad esempio, alcuni siti riportano la possibilità di uno sconto nel pagamento dei diritti del prossimo anno, se la situazione non dovesse ripristinarsi in tempi idonei), non si può dire altrettanto di altri Paesi, su tutti Francia e Inghilterra, per i quali le rispettive emittenti avrebbero già bloccato i pagamenti rateali da versare in quanto non risultano assolutamente intenzionate a sborsare alcuna cifra a queste condizioni. La ricaduta peggiore graverebbe ovviamente sulla Premier, che in termini di incassi televisivi risulta essere la regina assoluta del pianeta calcistico.

Riprendere a giocare, ad avviso di chi scrive, non può di certo essere fondamentale, essendo al momento molto più rilevante la salvaguardia della salute pubblica e delle stesse persone coinvolte nel meccanismo (atleti, staff tecnici e medici, arbitri ecc.) ma è evidente che un piano concreto ed elaborato per evitare il default va redatto ed anche rapidamente.

Detto ciò, urge una riflessione sul tema: è il calcio a essere propulsore del successo di televisioni e canali streaming o, viceversa, sono i media a renderlo un fenomeno così travolgente e di massa? Personalmente, propenderei verso la seconda ipotesi: le emittenti, infatti, hanno canali di guadagno differenti rispetto allo sport in genere (film, documentari, serie, intrattenimento, informazione ecc.) che possono garantire tranquillità (si pensi a piattaforme di streaming che non hanno nessun contratto di trasmissione sportiva le quali, però, all'interno del loro catalogo, possiedono dei contenuti talmente importanti da poterne fare a meno); di contro, il mondo del calcio è esploso e si è assicurato la possibilità di lavorare a certe cifre solamente grazie agli introiti derivanti dalla cessione dei diritti radiotelevisivi, in assenza dei quali non sarebbe stato possibile sostenere l’intero assetto, oltre al fatto che l’epica e l’impatto sociale del football sono cresciuti esponenzialmente proprio grazie al mondo della comunicazione e all’indotto creato dal prodotto "pallone".

Come per qualsiasi azienda di produzione, da anni molti esperti sostengono la necessità di attuare strategie di diversificazione dei ricavi per i club: è vero, non è immaginabile sviluppare fonti di liquidità dello stesso livello dei diritti derivanti dai media, ma è innegabile che dipendere da una singola variabile crea una posizione di netta precarietà, in quanto venendo meno quel pilastro l'impianto faticherà giocoforza a stare in piedi. Facile a parole, più complesso nel pratico: come diversificare, infatti, le attività?

Lo stadio di proprietà (già realtà per alcuni club, su tutti la Juventus) rappresenterebbe indubbiamente un grande vantaggio competitivo, in quanto verrebbe snellita la struttura dei costi fissi (canoni di locazione, ad esempio) e permetterebbe di gestire al meglio la politica dei prezzi di ticket e abbonamenti, i quali potrebbero divenire uno strumento molto più potente della semplice visione della partita live, permettendo l'accesso ad una serie di extra da stimolare adeguatamente. Infatti, secondo la mia personale visione, lo stadio non dovrebbe essere un semplice contenitore da utilizzare per due ore ogni quindici giorni, ma divenire leva commerciale e sociale: creare punti vendita a tema nelle aree adiacenti, ristoranti, musei, rivenditori sponsorizzati e qualsiasi attrattiva sostenibile e redditizia. L'ideale sarebbe creare una sorta di "cittadella" per attrarre non solo il semplice tifoso ma anche potenziali nuovi "clienti". Sì, è inutile negarlo, le società di calcio sono aziende e devono pianificare ogni aspetto della gestione e non solo farsi condurre dalla passione, che rimane comunque requisito primario per la visione romantica che personalmente ho del calcio. E le due cose, se opportunamente combinate, non sono il male, anzi, costituirebbero un connubio perfetto. Inoltre il terreno di gioco potrebbe servire per allestire degli eventi, materia su cui si è davvero inesorabilmente troppo indietro: utilizzare gli spazi per proporre concerti o anche per manifestazioni di avvicinamento al calcio giovanile e femminile sarebbero gradite a tutti i livelli.

Insomma, un investimento non di poco conto, sia ben chiaro, che se gestito in modo professionale potrebbe portare ad una fonte di redditività diversa e corposa, oltre che molto più variegata rispetto alla vendita collettiva dei diritti. E, a proposito di professionalità, un’altra idea molto interessante potrebbe essere quella di creare delle scuole di formazione per dirigenti: un po' come il settore giovanile serve a sviluppare i calciatori del domani, le società potrebbero avere i propri dipendenti "costruiti" con un percorso altamente specializzato, che consentirebbe di avere profili già adeguati agli obiettivi richiesti dalla società.

Insomma, proposte di certo non innovative, ma che non hanno mai trovato terreno fertile nella realtà. Certo, nessuno poteva prevedere una pandemia globale, ma, allo stesso tempo, la mancata diversificazione rischia di innescare dei contraccolpi che se non saranno fatali ridimensioneranno di certo tutto il sistema. Ed è proprio a causa di questa riduzione che verranno meno, a mio avviso, altri due punti cardine successivamente esposti. Ovvio che tali "suggerimenti" valgano in condizioni di "normalità": è impensabile, allo stato attuale, realizzare queste operazioni ma, di sicuro, bisognerà farne tesoro in futuro, in cui molti fattori, probabilmente, cambieranno per sempre.
 

  • Monte ingaggi


Stiamo già assistendo a tagli degli stipendi da parte degli atleti. Una scelta di buon senso, che sicuramente permette alle società di poter avere meno pressione in attesa di sviluppi. Anche in questo caso, però, l’osservazione che è sempre stata oggetto di critica sociale adesso diventa terreno di discussione: gli ingaggi dei calciatori sono troppo alti. Lungi da me scadere in facili populismi o banalità, perché è evidente che se un calciatore riceve un determinato corrispettivo è perché le sue stesse azioni consentono alla società di ottenere un altrettanto vantaggio, ma a livello di gestione è tollerabile avere una componente così "ingombrante" in conto economico? È possibile che si sia oltrepassato il limite, arrivando pertanto a non tenere più sotto un adeguato controllo il totale dei salari percepiti dagli atleti? Io credo che, a parte un senso di giustizia sociale che può o meno essere condiviso, non si possa più assistere a pagare somme esagerate in quanto lo squilibrio strutturale dei conti è troppo elevato.

Un calciatore non è un lavoratore qualsiasi, in quanto ha un basso grado di sostituibilità, ma di certo il suo impegno, per la mia visione, non può travalicare alcuni confini. Ecco perché, se bisogna importare qualche elemento dalla NBA, perfetto sarebbe l’ormai arcinoto "salary cap", sfruttando l'elasticità dell'elemento: non tutte le società dovrebbero avere lo stesso "tetto" ma ad ogni modo, ancorandolo a parametri oggettivi e non aggirabili, potrebbe essere personalizzato per le diverse esigenze dei club ed evitare quindi spese spropositate che minano il reddito societario e la stabilità del club. La sensazione è che, a prescindere da come si evolvano le cose, gli emolumenti finora concessi non saranno più tollerati.

 

  • Cartellini


Così come gli ingaggi, anche i costi dei trasferimenti, arrivati alle stelle negli ultimi anni, subiranno un grande contenimento, già anticipato da diverse testate giornalistiche. Alcuni siti specializzati hanno infatti già stimato il volume delle riduzioni dei prezzi di cessione, che andranno a provocare una svalutazione, tra l’altro, su molti club della nostra massima serie, Inter in testa. Ciò potrebbe essere, però, non del tutto negativo: si potrebbe tornare a una dimensione più "lucida" dei prezzi in circolazione. Molto spesso, infatti, abbiamo assistito nelle ultime sessioni di mercato a operazioni fuori da ogni immaginazione, con valori lievitati in modo vertiginoso e che hanno dato luogo non di rado ad autentici bluff, in quanto le aspettative diventano altissime quando l’investimento cresce a dismisura.

Va però ricordato che in termini economico-patrimoniali il prezzo d'acquisto dei calciatori è considerato come asset collocato nell'attivo di Stato Patrimoniale del bilancio di esercizio, il quale, logica conseguenza, subirà gli effetti di questa vera e propria "recessione". In questo caso poco si è potuto fare: la crescita dei volumi di denaro generati dai diritti televisivi e l'attrazione di nuovi investitori a livello mondiale hanno permesso di entrare in questo vortice monetario apparentemente smisurato e che ora, invece, palesa tutti i suoi limiti intrinsechi. Forse sarà l'occasione reale per cominciare a sviluppare seriamente il settore giovanile che, a parte rare eccezioni (Atalanta su tutti), non è mai stato negli ultimi anni quel serbatoio di talenti al quale bisognerebbe ricorrere per il rinnovo della rosa.

 

  • Botteghini


Se si dovesse completare la stagione (condizionale, ad oggi, assolutamente obbligatorio) alcuni siti stimano tra i 75 e i 95 milioni di euro il volume totale dei mancati incassi dalla vendita dei biglietti dei match in cartellone ancora da disputare. Cifre di molto inferiori ai diritti dei media ma comunque non trascurabili. La questione degli ingressi allo stadio è molto particolare, a mio modo di vedere, rispetto agli altri elementi. Le porte chiuse paventate per concludere la stagione saranno con ogni probabilità l'abitudine per tutto il 2020 e, probabilmente, anche per buona parte del 2021, fino alla graduale riapertura. Il problema vero, a mio avviso, non è però tanto nel breve periodo e neanche nel lungo (prima o poi dovremo uscire da questa situazione, ci auguriamo) ma sicuramente nel medio.

Siamo così sicuri che, una volta terminata l’emergenza, gli stadi torneranno immediatamente ad essere gremiti?
Quanti rinunceranno a vivere l'emozione della partita dal vivo, nonostante tutte le accortezze del caso? Parliamoci chiaro, se anche si dovesse procedere alla riapertura, potremmo vivere un lasso temporale indefinito in cui molti individui non saranno comunque partecipi attivamente negli eventi live (e ciò vale, a mio avviso, per tutti i settori). Servirà una sorta di "periodo di collaudo" in cui metabolizzare il ritorno alla normalità, che non possiamo di certo misurare allo stato attuale.

Ecco perché bisognerà avere molta pazienza e cercare di mantenere forte il legame con un pubblico che rischia di disaffezionarsi, di non sentirsi più coinvolto. E se qualcuno reputa che con ciò possano aumentare i ricavi dalle pay-tv, secondo me, si sbaglia: il rischio maggiore, il più alto, è quello di un progressivo allontanamento dal mondo del calcio. È necessario da parte di tutti, organi competenti, federazioni, società, calciatori, allenatori, arbitri, addetti ai lavori, tifosi e stampa, redigere un piano di convergenza comune, una sorta di "football plan" per salvaguardare un’industria che, prima di essere tale, è lo sport più amato del mondo. Il tutto, naturalmente, nel rispetto della vita e della condizione umana: ad oggi, nulla è più importante.