20 ottobre 2013. Dopo un sabato festoso all’interno del campus universitario, io e la mia fidanzata dell’epoca ci alziamo comodamente intorno alle 11. Il tempo di un caffè e delle pulizie, e via con un pranzo insieme agli altri amici della combriccola. Una cosa veloce, un piatto di trofie pesto e pomodorini gentilmente offerto dal designato Masterchef del nostro gruppo e poi tutti di nuovo nelle proprie stanze. La mia fidanzata comincia a studiare, dobbiamo restare al passo nello studio di “Analisi e contabilità dei costi” ed “Economia delle aziende di credito”. Io, però, quella domenica vado morbido. Le dico che mi guardo il primo tempo di Fiorentina-Juventus e la raggiungo alla fine per lo svolgimento degli esercizi e la ripetizione della teoria. I bianconeri vanno come dei treni e al 40’ sono già in vantaggio per 2-0 grazie al rigore di Tevez e all’acuto di Pogba. Direi che, visto il risultato, posso comodamente mollare una partita che mi interessa relativamente e andare avanti con le pagine da immagazzinare in vista della sessione d’esame di gennaio che sembrava ogni volta così lontana, ma poi ti sorprendeva per la velocità con cui si presentava agli appuntamenti. Il mio studio dura circa mezz’ora: ricevo una notifica sul cellulare, la viola ha accorciato le distanze grazie ad un rigore trasformato da Giuseppe Rossi. La mia fidanzata mi guarda, ha già capito e mi fa: «Finisci di vederla e poi continuiamo, amò». Non me lo faccio ripetere due volte. Ritorno in camera e mi rimetto a vedere la partita. Non so perché, ma ho delle strane sensazioni. Forse tutti, in quei momenti, le percepivano. Sensazioni che suggerivano stesse per accadere qualcosa di miracoloso, di impensabile, di fuori dal comune: il cronometro segna il 76’ e l’autore del primo gol controlla la sfera e dalla trequarti lascia partire un bel sinistro. Sembra parabile, ma è velenoso quanto basta per sorprendere l’immenso Gigi Buffon e far volare i gigliati: già pareggiare in rimonta contro i rivali di sempre è una soddisfazione immensa, ma il meglio doveva ancora arrivare. Sugli spalti stanno ancora festeggiando, ma non Joaquin, che due minuti dopo il pareggio viene servito sul lato destro dell’area di rigore da un lucido Borja Valero e trafigge per la terza volta il portiere campione del Mondo. È il delirio: al 78’ la Fiorentina è in vantaggio 3-2! E già questo è un brivido, per i tifosi viola ma anche per tutti gli amanti del calcio, esclusi ovviamente tutti coloro che sostengono le zebre. Eppure non è finita qui: altri tre minuti, e i bianconeri di Conte si tuffano disperati alla ricerca del pari, ma Cuadrado (sì, proprio lui), che militava nel club in riva all’Arno prima di vincere con la Signora, si invola a tutta velocità e serve il solo Giuseppe Rossi, che chiude la contesa con un tiro mancino. È 4-2, il numero 49 fa tripletta e Firenze esplode di gioia: è un momento magico, una partita epocale che già in quei momenti lascia tutti consapevoli che resterà nella storia e nella mente di chiunque abbia avuto la fortuna di assistere a quei 90 minuti, chi allo stadio, chi su uno schermo.

Quando si parla di Pepito (soprannominato così nientemeno che da Enzo Bearzot, che con dei campioni aveva avuto giusto un filo di esperienza) io mi commuovo sempre. So di essere in buona compagnia, ma l’annuncio del suo addio al calcio giocato mi ha fatto salire la nostalgia. Il primo ricordo che ho del talento italo-statunitense è targato Controcampo-Ultimo minuto, edizione andata in onda nella stagione 2006/07 nel tardo pomeriggio. Neanche sedicenne, mi gusto il treno dei servizi di una domenica di gennaio. Il Parma è ben lontano da quello degli anni ’90 e naviga in cattivissime acque. Al “Tardini” arriva il Torino e non c’è altra alternativa che vincere. I gialloblù si aggrappano a quel ragazzo giunto dall’Inghilterra, miglior giovane della Premier League, scuola-Ferguson e nei primi mesi dell’annata in prestito al Newcastle. E lui, giovane ventenne, non si fa pregare: segna il gol decisivo, fissando il risultato sull’1-0 e non dimenticherò mai la chiusura del servizio giornalistico (ero appassionato fin da quando ero piccolo e studiavo tutti i linguaggi che utilizzavano i professionisti del settore): «Il gol di Giuseppe Rossi restituisce speranze di salvezza al Parma». E permanenza sarà: la squadra cambiò marcia nel girone di ritorno, casualmente coincidente con l’approdo del ragazzo di New York. I suoi 9 centri furono un fondamentale contributo per centrare un obiettivo che fino a gennaio pareva irraggiungibile. E lui aveva dimostrato che poteva cambiare le sorti di un club, che aveva un talento smisurato.

Un talento smisurato che, come accaduto sovente negli ultimi 20 anni, è sfuggito alle squadre italiane. Al termine di quella brillante stagione, è il Villarreal ad ottenere le sue prestazioni e con il Sottomarino sfiora la Liga al primo anno, arrivando secondo a 8 punti dal Real Madrid ma davanti al Barcellona che solamente un anno dopo inizierà il ciclo più importante della storia del calcio degli ultimi 30 anni. Lui a livello individuale fa il suo, in 4 anni segna una valanga di gol e incide pesantemente sui risultati di squadra, raggiungendo l’apice nel 2011, segnando 32 gol complessivi e convincendo tutti. O quasi.

Quasi perché con la Nazionale, come molti altri grandi, ha avuto un rapporto che definirlo complicato sarebbe un eufemismo. Quando in Spagna fa sfracelli, la Nazionale Olimpica che vola a Pechino lo prende come trascinatore e lui non delude: segna 4 gol laureandosi capocannoniere della manifestazione, sebbene i Giochi del 2008 vedano gli azzurri fuori ai quarti di finale contro il Belgio nonostante la sua doppietta. L’anno dopo fa parte della spedizione che disputa la Confederations Cup, ma la prima grande beffa arriva nel 2010: Lippi lo preconvoca, ma alla selezione definitiva lo tiene inspiegabilmente fuori. E già questo basterebbe per farci masticare amaro, visto anche come è terminata la rassegna iridata sudafricana. Da quel momento, il fato decide di prenderlo di mira. E quando è così, c’è poco da fare: la stagione dopo il Mondiale, come detto prima, lo vede consacrato definitivamente a livello internazionale, con 11 centri in Europa League che valgono le semifinali della competizione. L’anno dopo, però, arriva la notizia peggiore per un calciatore: al Bernabeu, contro i blancos, il ginocchio destro si rompe maledettamente. È il 26 ottobre 2011, circa due anni prima del capolavoro fiorentino, e al solito ci vogliono 6 mesi per recuperare da una roba simile. O così dovrebbe essere: ad aprile, mentre scalda i motori per tornare in campo, si lesiona nuovamente lo stesso punto, che richiede ulteriori 6 mesi di stop. Europei andati e il Villarreal, senza di lui, retrocede. E meno male che, secondo i soliti haters da tastiera, era solo un sopravvalutato. Dramma totale. Gennaio 2013: la Fiorentina crede in lui e decide di formulare un’offerta per fargli lasciare la penisola iberica. Lui si rimette in gioco, torna in campo a fine stagione e viene tirato a lucido per la stagione successiva. Travolge la Juventus e fa divertire i toscani, ma ancora una volta piovono le lacrime: a gennaio, subisce un fallo da Rinaudo nel derby contro il Livorno. Risultato? 4 mesi di fermo. Tutti gli amanti del gioco del calcio e dell’Italia sono sconfortati. O almeno il sottoscritto, che non può credere che un calciatore possa dover subire tutti questi eventi che ne limitino la sua poetica, il suo esprimersi, i suoi meravigliosi pezzi. Eppure lui va avanti, si tira su le maniche, torna appena in tempo per segnare un gol e dimostrare a tutti, in primis a Prandelli, che lui è pronto.

Nel magistrale film “Il Divin Codino” diretto da Letizia Lamartire del 2021, il Roberto Baggio interpretato da uno strepitoso Andrea Arcangeli è alle prese con un infortunio che lo costringe a stare fuori. Siamo nella stagione 2001/02. Lui ha un solo obiettivo: partecipare ai Mondiali in Corea del Sud e Giappone. Fa qualsiasi cosa, si rimette in pista, si impegna in quel Brescia che lo ha accolto a braccia aperte: tutti sognano di vederlo insieme a Totti, Del Piero e Vieri in quella che sarebbe stata la rosa più forte di tutti i tempi degli azzurri a partecipare ad una manifestazione per Nazionali. Poi, la scena della telefonata con Giovanni Trapattoni, CT di quel periodo, è realizzata con un tono eccezionalmente drammatico: Baggio è fuori. E il Paese intero non si capacita del motivo, del perché uno come lui non possa trovare spazio nei 23 convocati. Per chi non lo avesse visto, non voglio rovinare il finale del film che merita una visione per non perdersi l’emozione, ma con le dovute proporzioni, quello che è accaduto al più grande di tutti è accaduto al più grande di quel periodo storico. Giuseppe Rossi non farà parte del Mondiale brasiliano del 2014: così ha deciso Prandelli, che preferisce un centrocampista in più. Questo è il momento in cui, probabilmente, finisce la carriera di colui che avrebbe potuto essere ben altro rispetto a quanto stato. E non che quel che è stato sia poco: chi lo ha visto, può essere testimone di aver apprezzato un calciatore di un altro livello. Peccato che non tutti se ne siano accorti.

Dopo quella delusione, un altro infortunio fece calare il sipario. Tante esperienze successive, ma i fasti di Parma, Spagna e Firenze non saranno replicati. Quando si parla di rimpianti, in molti fanno sempre riferimento a Cassano e Balotelli come i due esempi di talenti incompiuti del nostro calcio. Per me, è inconcepibile. Perché se c’è qualcuno che ha dimostrato il suo valore e che ha avuto contro un destino avverso, quello è Giuseppe Rossi. Lui sì, che poteva essere il numero uno.

Per la cronaca, a gennaio del 2014 io e la mia fidanzata dell’epoca passammo gli esami. Dopo qualche anno, però, la nostra storia si interruppe. Una storia d’amore finita, che per un pomeriggio si è intrecciata con il più grande rimpianto del calcio italiano.

 

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