L’articolo è stato diviso in due parti per non rendere troppo pesante la lettura. La seconda parte uscirà nei prossimi giorni. Auguro una buona lettura a tutti i blogger che avranno voglia di cimentarsi nella conoscenza di uno dei talenti più emozionanti di tutta la storia

 

Se pensiamo al Brasile, pensiamo al calcio. Un binomio inseparabile. Un binomio che ha fatto la Storia. Se pensiamo al calcio brasiliano, pensiamo al Maracanazo prima, a Pelè poi, per passare da Zico, poi Ronaldo, Ronaldinho, Juninho, Kakà, Thiago Silva, Neymar e fra le nuove leve possiamo sicuramente elencare Vinicius, Rodrygo Goes e Reiner.
Soprattutto nel lontano passato, poi, vi sono stati tanti altri giocatori fortissimi che noi occidentali spesso ci dimentichiamo o che semplicemente non consideriamo brasiliani: il diamante nero Leonidas, Vavà, Zito, o il Mazzola brasiliano, Altafini. Tutti fenomeni di caratura internazionale.
Eppure nessuno è entrato nei cuori dei brasiliani come Manoel Francisco dos Santos, che detto così non vi dirà assolutamente nulla. “Ah quel dos Santos l’ho già sentito nominare”, perché effettivamente il cognome Santos o dos Santos è molto comune in Brasile e infatti questo giocatore fenomenale, che ha emozionato tutti i brasiliani, era un uomo comune, come tanti se ne trovavano per le strade di Rio o San Paolo. Ecco, quell’uomo ha ricevuto un soprannome dalla sorella: “Garrincha”, e questo vi dirà sicuramente di più. Penserete magari a qualche articolo che avete letto in passato, che esaltava i suoi dribbling da paura, i suoi gol meravigliosi, le sue vittorie straordinarie con la Selecao. Ma Garrincha è molto di più per i brasiliani: è la rivincita del debole sul potente, è il piccolo e libero David che sconfigge l’immenso e razzista Golia.
Eppure Manoel non sarebbe nemmeno dovuto diventare un calciatore.

Il passero
Garrincha nacque il 18 ottobre del 1933 a Pau Grande, paesino di circa 1000 abitanti nel distretto di Rio de Jaineiro, e visse un’infanzia “quasi allo stato selvaggio”, un fatto normale nel Brasile degli anni 30, perfettamente in linea con la bassa estrazione sociale della sua famiglia: il padre, Amaro Francisco, era una guardia carceraria di un’importante industria tessile e discendeva da una tribù indigena, mentre la madre, Carolina, era una casalinga ed era di origini africane.
Manoel era un bambino molto gracile, e data anche la sua natura “selvaggia” e la sua andatura zoppicante, la sorella lo soprannominò appunto “Garrincha”, che era il nome popolare di una diffusa specie di passero molto piccolo. Da quel giorno tutti lo chiamarono così, e crescendo quel soprannome divenne ancora più adatto, in virtù delle sue straordinarie qualità calcistiche: quando iniziò a giocare a calcio, ancora giovanissimo, mostrava già un talento impressionante, che i suoi coetanei non era minimamente in grado di emulare. Il “passero” era così piccolo e scattante, oltre che terribilmente innamorato del dribbling, che gli riusciva con incredibile naturalezza. Tutto ciò che per i bambini sembrava difficile, a Garrincha sembrava semplicissimo, ma nessun osservatore lo notò, complice la sua ancora giovanissima età e soprattutto un fisico “inadatto a giocare a calcio”: infatti, oltre ad essere leggermente strabico, aveva la spina dorsale deformata, il bacino sbilanciato, una gamba più corta di sei centimetri e le ginocchia che soffrivano di varismo e di valgismo. Tutti problemi dovuto alla malnutrizione o forse alla poliomelite. Sta di fatto che nessuno lo voleva. Era semplicemente “Lo storpio”.
Eppure il passero stava solo imparando a cantare, e quando avrebbe padroneggiato la sua arte nessuno avrebbe potuto né fermarlo né eguagliarlo.

A 8 anni venne iscritto a scuola, ma sin da subito mostrò di detestare quell’ambiente tanto rigido, sia per un suo bisogno di libertà sia per la sua intelligenza al di sotto della media. Finita la terza media, decise di porre fine a quello “strazio” e andò a lavorare nella fabbrica tessile di Pau Grande, ma la situazione non migliorò: il suo carattere “libero e selvaggio” non riusciva proprio ad adattarsi alle regole, e venne quasi licenziato. Sì, quasi, perché alla fine il proprietario lo richiamò, non tanto perché volesse ridargli il suo posto di lavoro, dove comunque si mostrò sempre indisciplinato e poco sveglio, quanto per mantenerlo nella squadra di calcio della fabbrica, che grazie a lui era diventata una delle più forti della zona. Perché proprio in quel periodo, in piena adolescenza, quando il suo fisico gracile rendeva ancora più evidenti le sue deformità, il suo talento sembrava sul punto di esplodere fragorosamente. Garrincha cominciò a girovagare per altri club della regione, divertendo sempre i propri tifosi e quelli degli avversari, che cominciarono a vederlo come un idolo delle masse. Lui, dal canto suo, non faceva nulla per diventare un professionista, poiché non gli interessavano né la fama né i soldi: per lui il calcio era puro divertimento, che doveva servire come svago per tutte quelle persone che durante il giorno lavoravano in condizioni disumane. Per essere felice gli bastava dribblare i difensori, anche quando questo non serviva. E per essere ancora più felice, magari dopo una partita vinta, gli bastava andare al bar e ordinare una bottiglia di cachaca, una specie di vodka da cui era fortemente dipendente sin da piccolo e che condizionò fortemente la sua vita. Eppure erano proprio questi vizi che facevano apparire Garrincha non come un alieno ma come un fiero rappresentante del popolo brasiliano.

L’arrivo al Botafogo
Al suo arrivo al Serrano gli venne riconosciuto uno “stipendio” di circa 27 dollari mensili, ma lui dopo una sola stagione decise di tornare alla squadra della fabbrica, pur dovendo rifiutare ai soldi, che non gli interessavano minimamente. Nei mesi successivi sostenne dei provini con Vasco da Gama e Fluminense, ma entrambe le squadre lo rifiutarono a causa dei suoi problemi fisici. Venne persino dichiarato invalido e un medico gli consigliò di non praticare più alcuno sport, ma ormai era troppo tardi: il calcio era l’unica cosa, insieme al bere, che gli riusciva naturalmente, senza doversi sforzare. Un aneddoto conferma questa sua “dote”: il Pau Grande stava giocando una partita contro il Gremio Raiz. Tuttavia, a 19 anni, aveva deciso di lasciare lo stesso il mondo del pallone, finché un suo amico, Araty Viana, non riuscì a fargli sostenere un provino con il Botafogo, che aveva disperato bisogno di un’ala destra: Manoel giocò prima con la squadra giovanile, destando un’opinione molto positiva, ma data l’età, dovette svolgere un altro provino con la prima squadra che superò brillantemente. Il 10 giugno del 1953 arrivò il momento di esordire e segnò una tripletta, sorprendendo tutti i tifosi e soprattutto gli addetti ai lavori, che non si aspettavano minimamente di trovarsi di fronte un giocatore senza eguali. I suoi dribbling erano spesso ripetitivi, ma sempre efficacissimi, grazie soprattutto alla differenza di lunghezza delle due gambe, che gli garantiva imprevedibilità ed esplosività. Inoltre disponeva di un tiro forte e preciso, tanto con il piede sinistro quanto con quello destro. Nessun difensore riusciva a fermarlo, e si diffuse anche la leggenda che il Botafogo l’avesse tesserato su consiglio di un suo difensore, che, avendolo affrontato in campo, disse di non volerlo mai trovare da avversario.
La prima stagione fra i professionisti fu straordinaria: Garrincha segnò 20 gol in 26 partite e attirò su di sé l’interesse della Juventus, che però dovette desistere a fronte delle altissime richieste del suo club.

Una riflessione sul destino
Questo suo mancato trasferimento, alla fine, ha aiutato la carriera di Garrincha o ha semplicemente preparato il terreno ideale alla sua triste fine?
Sono possibili due letture:

  • l’ala brasiliana, in quanto rappresentazione di un intero popolo, si sentiva fortemente dipendente da quest’ultimo e non avrebbe mai voluto deluderlo. In altre parole Garrincha è stata solo la punta di diamante di un movimento di esaltazione sociale che avrebbe portato anche gli strati più bassi della popolazione a ribellarsi contro il potere, non snaturando mai le proprie caratteristiche. Questa tesi è avvalorata anche dall’origine africana del giocatore, motivo per il quale molti esperti di calcio europei, a causa del razzismo, lo consideravano “inferiore”, una sorta di animale un po’ più civilizzato, che non si sarebbe mai potuto adattare alla rigida tattica europea. Garrincha, tuttavia, e l’intero Brasile, hanno fatto di questa “mancanza” un loro vanto, su cui hanno basato la vittoria dei Mondiali del ‘58 e del ‘62, che non a caso videro come protagonista proprio l’ala destra del Botafogo. Non a caso è proprio lui ad essere rimasto fortemente impresso nella memoria del popolo brasiliano, mentre noi occidentali ricordiamo quasi solamente Pelè e Altafini. Quindi il suo “non trasferimento” l’ha elevato allo status di divinità popolare con tutti i suoi difetti, che paradossalmente sono passati in secondo piano o sono stati elevati proprio in virtù della sua “popolificazione”. Secondo questa lettura Garrincha ha raggiunto la fama a cui (non)aspirava ed è diventato il “self made man” che non dimentica le proprie umilissime origini africane;

  • questa secondo lettura (molto “occidentale” e poco attenta al mondo che invece c’era in Brasile) invece vede nella carriera di Garrincha, o meglio, nell’uomo Garrincha una profonda decadenza morale, che si è manifestata con forza ancora maggiore negli anni dopo il suo addio al calcio professionistico. L’alcolismo, problema diffusissimo fra gli strati più bassi della popolazione brasiliana, ha portato alla sua autodistruzione, che si può dire essere stata volontariamente involontaria. Forse l’ala destra non aveva chiari gli effetti del troppo bere, e lì sarebbe un fallimento dello stato brasiliano, o forse lui stesso era consapevole degli effetti autodistruttivi dell’alcol, ma non aveva un altro modo per comunicare al mondo esterno la sua sofferenza interiore. Dico sofferenza perché probabilmente Garrincha è stato un uomo molto sofferente: la sua incapacità di comprendere il mondo, dettata da una psiche di un bambino di 4 anni (come hanno affermato alcuni medici prima del Mondiale del 1958), si sarebbe riversata nell’alcol, visto come un utile strumento per dimenticare, che però ha portato solo alla sua autodistruzione. E anche in questo caso sarebbe un enorme fallimento dello stato brasiliano, incapace di istruire adeguatamente i suoi cittadini. Ok, stiamo parlando di un’epoca dove tutto questo era relativamente “normale” e tuttora accadono cose molto simili, ma ciò non toglie che Garrincha sia stato uno dei più grandi fallimenti del calcio brasiliano, non tanto dal punto di vista del talento, che per alcuni anni è stato il più sfavillante e rappresentativo del Brasile, quanto dal punto di vista prettamente umano.

Dopo questa riflessione psicanalitica ritorniamo alla carriera della nostra ala destra.

Gli anni fra il 1953 e il 1958 furono quelli che lo consacrarono come nuova stella dell’intero Brasile: tutti stravedevano per quel giocatore “storpio” che dimostrava un’agilità fuori dal comune, e che soprattutto faceva divertire, anche inutilmente, il pubblico. Una volta che gli allenatori del Botafogo ebbero capito che non c’era verso di fargli dribblare di meno, decisero di metterlo nelle condizioni di farlo nel miglior modo possibile e con la massima efficacia.
La stagione 1957, che vide la vittoria del campionato carioca, fu una delle massime rappresentazioni di Garrincha, che venne anche eletto miglior giocatore del torneo: il tecnico Joao Saldanha decise di esonerarlo completamente da ogni compito tattico, ritenendo che prima di tutto non li avrebbe capiti e poi, anche li avesse capiti, non li avrebbe sicuramente rispettati. In pratica lo schema prevedeva che la punta, attirando il difensore centrale fuori dalla sua zona, liberasse un importante porzione di campo per Garrincha, che a quel punto avrebbe avuto solo il terzino sinistro da affrontare. Quindi era meglio lasciarlo fare quello che sapeva fare, perché lo sapeva fare meglio di tutti gli altri. Questa tattica trovò la sua massima espressione nella partita contro il Fluminense, che finì 6-2 per il Botafogo: dopo il quinto gol un difensore della squadra avversaria chiese ad un compagno di Garrincha di non continuare ad umiliarli.

Il Mondiale ingrato
Con questi presupposti il “passero”, ormai giocatore affermatissimo a livello nazionale, venne convocato insieme a Pelè dal tecnico Feola, benché rappresentasse un tipo di calcio che il Brasile voleva assolutamente dimenticare in favore del calcio prettamente tattico delle nazioni europee, ritenute più evolute: la ginga, come è chiamata nel film autobiografico di Pelè, era ed è una caratteristica antropologica ritenuta responsabile della disfatta del Mondiale del 1950.
Eppure Garrincha fu sul punto di essere escluso dalla lista dei convocati in ben due occasioni: durante i test psicologici venne ritenuto assolutamente inidoneo a partecipare alla manifestazione poiché, a detta degli psicologi, il suo modo di pensare era paragonabile a quello di un bambino di 4 anni. In altre parole, non avrebbe capito assolutamente nulla di tattica. Poi, durante una delle ultime amichevoli in preparazione al mondiale, contro la Fiorentina, dopo aver dribblato il terzino, i due centrali e il portiere, invece di battere a rete aspettò il ritorno del terzino, che dribblò ancora una volta, segnando una rete meravigliosa. Rete meravigliosa che però poteva costargli cara: l’allenatore e il capitano della squadra videro in quell’atteggiamento una qualche malata voglia di deridere l’avversario, ma uno dei membri dello staff disse che quello era il suo modo di interpretare il calcio. Con allegria.
Ciononostante lo staff tecnico decise di tenerlo fuori per le prime due partite della rassegna, ufficialmente a causa del suo comportamento spesso poco professionale. In realtà le motivazioni reali furono ben altre: Garrincha era mal visto non solo in Europa, ma anche fra i vertici della federazione brasiliana di calcio, perché innanzitutto non era bianco e poi rappresentava un modello calcistico che in Europa era considerato obsoleto e soprattutto non vincente.

Oltre questo vi erano anche dei motivi più “scientifici” (almeno così pensavano i medici dell’epoca): nel clima rigido del Nord Europa si sarebbero espressi meglio i giocatori bianchi rispetto a quelli di colore, che in più erano considerati anche più emotivamente instabili e soggetti alla saudade. Garrincha in particolare venne anche escluso proprio per la sua poco intelligenza, che però alla fine portò il Brasile a vincere il Mondiale.

Nella partita contro l’Unione Sovietica, decisiva ai fini della qualificazione al turno successivo, Feola si convinse a schierare il “mago di Botafogo”, che secondo lui era l’unico che potesse rompere la difesa di ferro degli avversari, e venne ampiamente ripagato con “i tre minuti più sublimi della storia del calcio”, come successivamente lì definì il noto giornalista Hanot. In soli tre minuti Garrincha colpì una traversa, costrinse Yashin a una delle sue parate straordinarie e realizzò l’assist per il gol di Vavà, che poi raddoppiò. I russi erano sbalorditi da quel ragazzo “storpio” che era un concentrato di tecnica, fantasia e forza, ma lo erano ancora di più gli stessi brasiliani, che, per la prima volta dopo il Maracanazo, sembrarono ricredersi sulla mitica ginga.

Nei quarti di finale la Selecao dovette sfidare il Galles, che sconfisse per 1-0 con gol di Pelè, nonostante i difensori gallesi avessero eletto a giocatore più pericoloso del Brasile Garrincha, che a loro modo di vedere era infermabile. Le sue “gambe storte” e la sua capacità di tiro lo rendevano un giocatore imprendibile, ma non imprevedibile: infatti i suoi dribbling erano spesso ripetitivi, ma nonostante ciò nessuno riusciva a fermarlo quando partiva. La sua esplosività lo aveva reso il miglior giocatore del suo Brasile, nonostante all’inizio della torneo fosse stato classificato come “ritardato”. Quelli che erano i suoi handicap fisici e mentali lo avevano reso un giocatore che usciva sempre dagli schemi, e in quanto tale non poteva essere studiato dagli avversari, perché, benché facesse quasi sempre le stesse finte, qualcosa cambiava ogni singola volta.

In semifinale i brasiliani incontrarono la Francia, capeggiata da un Just Fontaine in forma eccezionale. La partita, dopo un inizio difficile per la Selecao, venne ribaltata da una prestazione mostruosa del diciassettenne Pelè, che segnò una tripletta destinata ad incoronarlo re del Brasile. Garrincha, pur non segnando, aiutò molto i suoi compagni, guidandoli con grande senso di responsabilità anche quando sembrava tutto perduto. Il 5-2 finale, dopo il quale venne osannato il “nuovo dio del calcio”, Pelè, Garrincha finì in disparte, perché non aveva realizzato alcun gol e a prima vista sembrava non avesse dato alcun contributo, benché Altafini e Kopa, le due stelle più affermate dell’epoca delle rispettive squadre, abbiano sempre affermato che fu proprio l’ala del Botafogo a fare la differenza, soprattutto sul piano mentale, perché se gli altri giocatori dopo aver subito un gol cadevano in una sorta di depressione, lui continuava imperterrito ad attaccare la profondità, a crossare, a dribblare come se stesse giocando ancora con il Pau Grande. Forse non si rendeva conto del peso che un’intera nazione gli aveva posto sulle spalle (e se ne sarebbe reso conto più tardi) e quindi non gli importava di fallire, perché a lui interessa divertirsi e divertire.

I giorni che precedettero la finale furono particolarmente duri per i giocatori brasiliani, caricati di aspettative altissime: DOVEVANO vincere la coppa del Mondo, senza se e senza ma. Dovevano far ricredere gli europei sul loro stile di gioco, che non era primitivo. Il tecnico Feola, tuttavia, capì che limitare con la tattica il potenziale dei suoi fenomeni sarebbe stato sbagliato non solo moralmente, ma anche “tatticamente” (ironia della sorte): i suoi giocatori non avevano la stessa capacità che avevano gli svedesi di seguire gli schemi, per cui la probabilità di battere una squadra organizzatissima con una squadra che pretendeva di essere organizzata era bassissima. In più gli svedesi definirono i brasiliani “anormali”: Garrincha rimaneva lo storpio e Pelè il bambinone cresciuto troppo in fretta.

Alla fine però coloro che decisero la partita più importante della storia del Brasile furono proprio Garrincha e Pelè. E l’ordine in cui li ho messi non è casuale. Nonostante Pelè avesse segnato una spettacolare doppietta e pure Vavà avesse fatto lo stesso, Garrincha mise in mostra tutto il suo talento, ancora una volta, con accelerazioni brucianti e dribbling ubriacanti. I gol di Vavà, poi, risultati decisivi per la rimonta brasiliana, furono entrambi assistiti dall’ala del Botafogo, che con due giocate praticamente identiche e tipicamente sue distrusse la difesa svedese: sulla fascia destra in entrambi casi prese palla, andò sul fondo e crossò per la punta, che in entrambi i casi dovette solo appoggiare la palla in rete. Garrincha venne eletto miglior ala destra del torneo, ma conti alla mano la sua fama fu sfuggente quasi come le sue movenze in campo. E lui, nei quattro anni successivi, non fece nulla per essere ricordato, e anzi prese qualche chilo e visse la sua vita come un brasiliano qualunque, fra sigarette, alcol e donne, non prendendosi mai cura delle sue ginocchia malate devastate dal calcio.

Ma poi, al Mondiale del 1962, qualcosa cambiò...
e lo scoprirete nella seconda parte
(quanto sembro un'emittente televisiva?),incentrata più su un’analisi psicologica dell’uomo Garrincha e su ciò che lo ha reso immortale nella memoria dei brasiliani.

 

 

Federicoz