Non sono mai stato uno romantico. Nei racconti poi, figuriamoci. Mi piace narrare i fatti così come sono avvenuti, al massimo approfondendo l’aspetto psicologico. I sentimenti, però, hanno una loro sfera, completamente staccata dalla storia.
Eppure, in questi giorni di triste solitudine, i ricordi che avevo sono riemersi come relitti di un passato che è stato meraviglioso. Un passato che giustamente non tornerà più, ma che merita di essere rivissuto ogni volta ce ne sia l’occasione.

Ci sono ricordi più dolci, che quasi ti lasciano un dolce sapore di miele sul palato. Ci sono ricordi più amari, che devi ricordare con più attenzione, affinché l’amaro non prevalga sul ricordo e lo trasformi in una sorta di incubi. Ci sono poi...beh, poi ci sono i ricordi su cui puoi riderci sopra, senza alcun tipo di rimpianto. Onestamente, sono tra i miei preferiti, proprio perché non hai nessun rimpianto. E non vorresti nemmeno riviverli, perché una battuta già sentita non fai mai ridere: allo stesso tempo, però, sei felice di averli vissuti, perché hanno arricchito la tua vita di un momento spensierato, o comico.

Questi che racconterò sono ricordi dolci e spensierati, che in questo momento triste dovrebbero far sorridere e ridere un po’ tutti. E spero sia così.

  • Quell’eterno giovane del nonno…

Il nonno, una figura che nell’infanzia di un bambino non dovrebbe mai mancare. Il nonno, una figura che non è né papà né zio, ma un qualcuno che ti ama incondizionatamente, perché è una delle persone che ti vedrà per meno tempo. Quindi ti riempie d’amore.
Ecco, mio nonno, quello della Slovacchia, non è mai stato uno sdolcinato, uno romantico. Forse lo era stato con la mia nonna, sua moglie, ma questa se n’è andata nel 2005, sconfitta da un male che aveva combattuto per dieci anni. Da quel momento, mio nonno andava quasi ogni giorno sulla sua tomba, in cima ad una collina, e non gliene fregava assolutamente nulla delle ginocchia malmesse a causa del calcio, un’altra sua passione. Il suo amore superava qualsiasi ostacolo, e non è una storia romantica.
Lui non piangeva mai a casa, mai. Il suo viso, stanco e malinconico, lasciava intravedere la tristezza d’un uomo ormai al tramonto del proprio cammino, ma un velo di vivace gioventù nascondeva e tuttora nasconde tutto questo: il nonno Emil, a 88 anni, cucina, cuce, rifà i letti, va nei boschi e guarda le partite con la foga di un adolescente imberbe.
Tutto questo nonostante non abbia mai condotto una vita facile, dato che nacque in un’epoca che ha segnato la storia mondiale con un conflitto violentissimo, a cui lui fortunatamente non prese parte perché troppo giovane. Dopo la guerra, la Slovacchia entrò nell’orbita dell’URSS e divenne una repubblica socialista: il nonno lavorava in una fabbrica che produceva calzini e giocava a calcio nella squadra della sua fabbrica. Era bravo, questo sì, ma dovette abbandonare anzitempo lo sport che tanto amava sia per problemi fisici sia per costruirsi una famiglia con la donna che amava, Veronika. Ebbero 4 figlie, fra cui mia madre: lui in questi anni lavorò anche 16 ore al giorno per permettere alla propria famiglia uno stile di vita adeguato, e vi riuscì.

Poi arrivai io, e mi prese subito sotto la sua ala. Dopotutto, non aveva mai avuto un figlio maschio, e forse io, benché fossi arrivato tardi, potevo in qualche modo colmare quella che era una piccola mancanza, perché lui non aveva mai sentito il bisogno di avere qualcuno che continuasse “la stirpe”. È un uomo semplice, il nonno.
Sin da piccolo volle che mi avvicinassi a calcio: mi comprò moltissimi palloni, nonostante prendesse l’equivalente di 300 euro di pensione. Mi comprò anche una bici, un giorno: e fu festa. Non credo di aver mai ammirato tanto una persona, in vita mia. Riusciva a strapparmi un sorriso con qualsiasi gesto: mi portava alla partita della domenica e tutti che imprecavano come bestie dagli spalti. Insomma, quinta divisione slovacca, cosa si può pretendere? Io, 5 anni appena, mi sentivo un po’ fuori luogo, ma lui mi stringeva a sé con un braccio e mi diceva di guardare il campo, perché era lì che mi avrebbe voluto vedere prima di “andare a far compagnia agli angeli”. Io gli dissi che avrei fatto di tutto per finire lì, ma lui, saggiamente, mi consigliò di non dedicarmi solo al calcio. “Pensa al tuo futuro, prima di tutto, e poi al calcio. Per quello non è mai troppo tardi” mi disse, e io continuai a guardare la partita. Non mi ricordo quanto finì, sicuramente la squadra della mia città perse, ma mio nonno non si arrabbiò né nulla, e anzi mi portò in città e mi prese un bel gelato. Gusto Puffo, ovviamente.
Il giorno dopo sarebbe andato nei boschi vicino ai nostri condomini, a raccogliere lamponi per lo sciroppo e more da gustare con un po’ di zucchero. Io invece andai nel campetto davanti a casa (di cui parlo nel racconto precedente): era ancora mattina e il sole non lo illuminava ancora. Faceva un po’ freddo. Un vento proveniente da nord rendeva l’aria quasi tagliente, ma io, paffuto e imbottito, ero un temerario. E con il mio pallone di gomma azzurra nessuno avrebbe potuto fermarmi.
Cominciai a calciarlo in aria, per poi andare a stopparlo: chissà quante risate si saranno fatti gli altri inquilini vedendo quella “pallina” dalle guance paffute e rosee giocare con un’altra pallina!
A me, comunque, non poteva importare di meno, perché quando giocavo a calcio tutto intorno a me si annullava. Ero solo io e la palla. Un rapporto intenso, ardente, da cui mi lasciavo trasportare.
Ad un certo punto la calciai un po’ troppo lontano e ci mancò poco che spaccassi un vetro: non voglio nemmeno immaginare quante me ne sarei sentite e, infatti, ringraziai la dea bendata per la sua benevolenza nei miei confronti.
Corsi quindi per prendere la palla, ma ad un certo punto intravidi una figura familiare: il nonno era tornato dal bosco e stava correndo per passarmela!
Mi fermai come se avessi visto un alieno, ma il nonno continuò nella sua corsa, con un sorriso sul viso che difficilmente potrei dimenticare. Quando arrivò vicino alla palla si fermò, si presa giusto due secondi per rifiatare e mi passò il pallone, di collo pieno. Io provai a stopparla con il petto, ma era troppo forte e quindi caddi all’indietro, sul morbido manto d’erba. Sembra proprio una palla!
Il nonno rise. Io risi. Nella finestra di casa mia vidi mia zia, che abitava con mio nonno da quando era morta la nonna. Anche lei rise.
Ma ciò tuttora dimora negli antri più profondi del cuore è sicuramente la visione di mio nonno: inaspettatamente, mi ero trovato davanti un signore di 80 anni, vestito come un cacciatore di orsi dell’Alaska, con un cappellino di tessuto pesante, la camicia di flanella a scacchi, dai colori che ormai si erano persi nel tempo, i pantaloni a costine marrone scuro, leggermente sporchi di terra, e gli scarponi di un tempo che a me era ignoto.
Nella mano destra teneva due secchielli azzurri ripieni di lamponi, nell’altra una cesta con more e alcuni funghi trovati completamente per caso.
Il viso, raggiante, ringiovanito, splendeva di luce propria. Gli occhi, azzurri e profondi, fissavano solo il pallone, rivivendo il ricordo di una carriera che si era dovuta concludere troppo presto.
L’amore, però, come quando un soldato lascia l’amata, era rimasto immutato.
 

  • Papà Stefano, un talento sprecato

Cambiamo completamente soggetto e tempo, catapultandoci con dolcezza nel presente. Parlo di “cose” che mi sono state raccontate di recente, durante una delle tante videochiamate che ho con la mia ragazza, Alice, che i più “anziani” conosceranno sicuramente per essere la mia fida collaboratrice e prima redattrice (Jea sei stata spodestata, mi dispiace!). Poi ovviamente abbiamo anche una vita oltre a VivoPerLei, non pensate male eh…
Sta di fatto che eravamo in chiamata, a parlare del più e del meno, a discutere dei compiti che ci avremmo dovuto fare per il giorno dopo, quando dal piano di sotto salì suo padre e cominciò a parlare anche lui, aspettando che noi finissimo il nostro discorso. Cominciò a parlare del suo passato, di ciò che fece e di ciò che avrebbe voluto fare della sua vita. Di come tante cose non erano andate come avrebbe voluto. Noi, intanto, lo ascoltavamo.
Premetto che mi sento molto fortunato ad aver incontrato la mia ragazza e mi sento almeno altrettanto fortunato ad aver incontrato la sua famiglia: sono due persone splendide, gentili, cordiali, simpatiche. E non lo dico solo per non essere sottoposto ad una censura senza precedenti nella storia delle mie storie (che brutta frase!), ma perché lo penso veramente.
Suo papà, Stefano, è poi un grande appassionato di calcio, benché non abbia nessuna squadra del cuore, per sua decisione: posso solo dire che è fermamente anti-juventino, questo sì. E questo comporta che ogni anno tifi, giustamente (non me ne vogliano gli amici juventini!), la squadra che è in lotta per lo Scudetto: quando c’era Sarri questa squadra era il Napoli, quando c’era Mourinho era l’Inter, qualche anno prima era il Milan. Quest’anno era la Lazio, ma molto probabilmente, che il campionato finisse così o che andasse avanti, il risultato finale sarebbe completamente sfalsato. E per questioni di forza vincerebbe la Juventus. Adesso, però, non voglio parlare di questo.

Ritorniamo alla chiamata: parlava del suo passato. E io, che ho un bel rapporto con lui, ascoltavo attento. All’improvviso, cominciò a parlare di calcio, uno sport che aveva praticato da piccolo. La mia ragazza mi aveva sempre raccontato che era molto bravo, che sapeva fare il mitico “giro del mondo”, che io non ho mai saputo né saprò fare mai, credo. Che gli piaceva il calcio oltre ogni irragionevole dubbio. E io mi chiedevo, prima di conoscerlo veramente, perché non avesse continuato la sua carriera. La risposta fu ben presto chiara: le sue condizioni di salute, infatti, che negli ultimi anni sono state veramente pessime e che tuttora lo limitano abbastanza, sono presenti sin da quando lui era piccolo: gli hanno fatto perdere un anno a scuola, per esempio. Gli hanno impedito di fare determinate cose che invece molti altri danno per scontato: uno di queste era giocare a calcio.
Nel luogo in cui era cresciuto, vicino alla mia città, giocava sempre a calcio con i suoi amici. All’oratorio non c’era giornata di sole che lui non passasse rincorrendo il pallone: ed era veramente bravo, molto di più di tutti gli altri. Eccelleva. Aveva il tocco del numero 10, come mi raccontò quel giorno. Atleticamente era prestante, non troppo alto ma nemmeno troppo basso: correva veloce e le sue gambe lo seguivano. Crescendo continuava a migliorare e con il pallone non c’era nessun ragazzino che potesse fermarlo, né con le buone né con le cattive.
Lui, però, era consapevole che non avrebbe mai potuto allenarsi con una squadra se non alle proprie condizioni, che erano dettate solo ed esclusivamente dalla sua salute estremamente delicata. Questo i suoi amici non lo sapevano e quindi un giorno vennero a cercarlo a casa per convincerlo a giocare per la loro squadra: lo stesso allenatore era con loro. Volevano che giocasse, perché sarebbe stato quello che gli avrebbe fatto fare il salto di qualità. Stefano abitava lontano dal campo, ma non era quello il problema. Se la sarebbe fatta in bici cinquanta volte quella distanza, solo per poter mostrare a tutti che lui era il più forte.
Il suo problema era la salute. Quando me l’ha raccontato, qualche giorno fa, è stato chiarissimo. “Se fossi andato ad allenarmi in novembre e fossi tornato a casa fradicio, dopo aver percorso due chilometri in bici, probabilmente sarei finito in ospedale e quel campo che amavo non l’avrei visto per mesi. Eppure, non l’avrei odiato nemmeno così”. Parole di un ragazzino che già all’epoca era perfettamente consapevole di ciò che poteva fare, benché il suo cuore, ovviamente, stesse combattendo una battaglia durissima con la razionalità.
Dopo che ebbe rinunciato al sogno, non gli rimase che giocare a calcio all’oratorio e soprattutto seguire le partite dell’Italia, che forse era l’unica squadra a cui veramente tenesse. Forse sognava di vestire quella maglia azzurra e forse pensava che ce l’avrebbe anche fatta, se non fosse stato per la sua salute.
Quando era già un adulto cominciò ad insegnare religione in una scuola elementare: era giovane, forse aveva una trentina d’anni, forse meno. I bambini stravedevano per lui, perché era il maestro del calcio. Era l’unico che, durante le ricreazioni, prendesse il pallone e li portasse nel parco adiacente alla scuola per giocare a calcio. E giocava con loro. Gli altri insegnanti lo guardavano come se fosse un tipo strano, ma a lui non gliene poteva importare di meno. Stava giocando a calcio con tanti piccoli sognatori, che forse un giorno avrebbero avuto la possibilità di giocare a calcio ai livelli che lui non aveva raggiunto. E soprattutto stava facendo sorridere dei bambini con un pallone, uno stupido pallone. Un pallone che per lui rappresentava due cose: la calda coperta che ti ristora e ti ridà nuova energia e la tagliente lama che distrugge i tuoi sogni.
 

  • Mondiale brasiliano, abitudini sudafricane

Aneddoto brevissimo e personale. Quindi in pratica vi sto invitando a farvi i ca...voli miei (e quanto vorrei dire quell’altra parola...ma giustamente la terrò per me e per la vostra fantasia).
Apparentemente ho già detto tutto nel titolo e sinceramente spero di non avervi tratto in inganno: “Federicoz ma quindi sei anche sudafricano??”. No, tranquilli, assolutamente no. Sono per metà italiano e per metà slovacco, e quell’abitudine sudafricana a cui mi riferisco riguarda un fatto che avrete letto nella mia raccolta di storie precedente.
In pratica, per chi non avesse voglia di andarselo a rileggere, m’ero addormentato esattamente cinque minuti prima che Iniesta segnasse il gol della vittoria contro l’Olanda. Avevo sette anni, vorrei sottolineare, sennò poi pensate che sono scarso, e già arrivare ai supplementari poteva considerarsi un’impresa. Però, alla fine, era arrivato quel fail. Quel terribile fail, che mi sarei ricordato per veramente tanto tempo.
Ecco, in Brasile successe qualcosa di molto simile. Avevo seguito attentamente tutto il Mondiale, dall’eliminazione dell’Italia all’infortunio di Neymar, innamorandomi nel frattempo di un certo James Rodriguez e della sua tecnica impressionante.
L’Argentina era arrivata in finale, ma a me non piaceva per nulla: non so perché, ma l’Argentina mi è sempre stata un po’ sui cosiddetti, benché abbia prodotti giocatori meravigliosi, veri e propri artisti del pallone che hanno dipinto quadri di una bellezza accecante.
Dall’altra parte c’era la Germania, una formazione con il perfetto mix fra giovani e meno giovani, che aveva demolito i padroni di casa del Brasile e aveva là davanti un eterno Miroslav Klose. Eppure nemmeno i teutonici mi piacevano, benché avessero una squadra sicuramente più bilanciata e forte rispetto all’Albiceleste, che dal canto suo aveva un attacco stratosferico che però non aveva funzionato al meglio durante il Mondiale. Infatti, se era arrivata in finale doveva ringraziare Dio, letteralmente: il girone era stato probabilmente uno dei più facili, con Nigeria, Iran e Bosnia (che sono nazionali di tutto rispetto, non dico di no, ma che hanno evidenti limiti), agli ottavi era passato contro una rocciosa Svizzera solo al 118esimo minuto, ai quarti un gol fulmineo di Higuain aveva ipotecato la partita mentre in semifinale, contro l’Olanda, tutto si era deciso ai calci di rigore.
Insomma, nonostante l’Argentina vantasse un attacco marziano il vero punto di forza appariva essere la solidità difensiva: per questo avrei preferito vedere una semifinale fra Olanda e Germania. In fondo devo ammettere che avevo una passione nascosta per gli Oranjes: sarà perché mi ricordavano del trio degli olandesi, sarà perché il calcio olandese ha un fascino tutto suo, ma stravedevo per Depay, Robben e Van Persie. Dl gol di testa di Robin, quello contro la Spagna, il mio cuore aveva deciso che quella sarebbe stata la squadra per cui avrebbe tifato.

Non mi ricordo se la finale fu entusiasmante o no, ma mi ricordo esattamente il momento entrò Gotze, all’88esimo, sostituendo il sempreverde Klose. Era il 110esimo minuto e sembrava che entrambe le nazionali volessero decidere lo scontro ai calci di rigore. Al 112esimo andai in bagno, perché ormai ero sicuro che sarebbe andata avanti per ancora 8 minuti senza particolari colpi di scena.
L’avevo guardata tutta, ripeto, tutta. Dall’inizio alla fine, senza staccarmi mai dallo schermo. Mentre ero in bagno (e non vi dico di più che è meglio) sentì urlare dal salotto del nonno Emil. La Germania aveva segnato. Gotze aveva segnato. E io ero in bagno.
E mi ero perso un altro gol.
 

  • Mi hanno rubato i guantoni...

Altro aneddoto simpatico, anche se poteva finire decisamente peggio. Mi trovavo nel campetto sotto casa, quello dove era venuto il nonno, e stavo giocando con degli amici della mia stessa età. Ci divertivamo con poco, un pallone e via: io, come sempre, stavo in porta, e in più dovevo provare il nuovo paio di guantoni che mi aveva regalato mio papà. Li avrei poi anche usati una volta tornato in Italia, perciò avevano bisogno di adattarsi alle mie dite e io avevo bisogno di capire quali limiti e quali pregi avessero (come se ne avessi capito qualcosa al tempo) .
Ad un certo punto si avvicinarono a noi dei ragazzi più grandi: li vedevamo sempre fare cose “da grandi”, tipo fumare, starsene in giro senza fare nulla e uscire la sera. Noi bambini eravamo un quasi spaventati, ma tutto sommato erano tipi apposto, con cui si poteva parlare, anche se uno in particolare, Adam, aveva un non so che di inquietante.
Era alto ma magrissimo e il suo viso aveva lo stesso colore di un lenzuolo: uno scheletro che cammina, pensavo. Era tristemente “famoso” perché l’anno prima era stato accusato di aver appiccato il fuoco ad un fienile nelle vicinanza di casa nostra. Che fosse vero o no, quel ragazzo era tutto fuorché ben visto.
Io, però, non me ne curava e volevo solo giocare a calcio. Non mi importava con chi e nemmeno che storia avesse alle spalle, perché quando si entra in campo bisogna pensare solo al campo. E a vincere divertendosi, ovviamente.
Quindi componemmo delle squadre con questi “grandi”, mischiandoci in modo da renderle più o meno equilibrate, e io mi ritrovai in squadra Adam. Poco male, pensai, perché era alto e tutto sommato bravo. Però decise di andare in porta e mi chiese di prestargli i guanti: io non ero molto convinto, perché nonostante credessi fermamente nel calcio quel ragazzo non mi dava molta fiducia, per usare un eufemismo. E poi erano i miei nuovissimi guanti, quindi figuratevi se glieli avrei prestati.
Cedetti. Mi sentì in qualche modo costretto a prestarglieli, se volevo vincere. E la voglia di vittoria aveva superato la gelosia di un bambino. Alla fine vincemmo e dopo i complimenti di rito i “grandi” salirono sulle loro bici e se ne andarono velocemente.
Noi piccoli non giocavamo più perché eravamo stanchissimi, perciò eravamo andati in un negozio lì vicino per prendere una merendina e ristorarci. Improvvisamente, come se un fulmine mi avesse colpito e trapassato, mi resi conto che non avevo preso i guanti. Non sapevo che fare. Non sapevo dov’erano e sapevo solo che l’ultimo che li aveva avuti era stato quel tipo, Adam.
Pensai subito che doveva avermeli rubati. Lo dissi ai miei amici, che salirono sulle loro bici e lo inseguirono. Era una corsa contro il tempo e contro dei ragazzi molto più grandi di noi.
Eppure non potevo deludere la fiducia di mio papà.
L’inseguimento era paragonabile a quello di un film poliziesco, e alla fine riuscirono a trovarlo: era sotto un ponte, a fumare con tutti gli altri.
Gli chiesero dei guanti, ma lui disse in tutta sincerità di averli lasciati sul campo. Io, che nel frattempo ero rimasto proprio sul campo a cercarli, li avevo trovati nel luogo più banale: al centro del campo, uno sopra l’altro. E mi sentivo uno stupido.
Quando i miei amici tornarono, un bel “coppino” fu d’obbligo.

 

  • Una maledizione rossonera

Come tutti sapete sono un fervente tifoso milanista. Come tutti sapete sono fidanzato con una splendida ragazza. E se non lo sapevate da adesso lo sapete, per la cronaca.
Questa splendida ragazza, Alice, tifa Inter. Suo papà, Stefano, non tifa nessuna squadra, come ho detto sopra e ogni tanto mi invita a vedere le partite nel suo antro, perché essendo un cultore della tecnologia ha una tana stupenda per vedere le partite: televisore LG OLED 4K e vari altoparlanti di alta qualità per sentire anche il respiro dei calciatori.
Insomma, andare a vedere le partite dalla mia ragazza è un piacere come pochi, ma purtroppo non sono mai riuscito a godermi tanto ben di Dio tecnologico. Perché? Perché ogni volta ha perso il Milan. Sempre. Forse c’è stata una volta, contro la Spal mi sembra, che la mia squadra del cuore ha vinto.
Tutte le altre volte, contro Juventus, Fiorentina e Inter il Milan ha sempre perso, benché avesse giocato bene. Soprattutto nel derby. Oh, il derby. Quel derby che non dimenticherò facilmente.
Ero arrivato tardi, quando il primo tempo era già terminato e il Milan era in vantaggio per 2-0, perché l’autobus che mi avrebbe dovuto portare a casa sua era in ritardo.
Mi aspettava un secondo tempo di godimenti, di un piacere estasiante. Non mi importava nulla che avessi saltato il primo tempo.
Come sappiamo tutti, quella partita finì 4-2 per i nerazzurri. E da quel momento io capii che non era destino che io guardassi le partite a casa della mia ragazza.
Eppure, chissà quante volte lo farò ancora. Perché in fondo non mi importa del Milan, ma di stare con la persona che amo. E di parlare di calcio con papà Stefano, una delle persone che stimo di più a questo mondo.

 

Federicoz