Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita…

E se tutto cominciasse così, staremmo parlando di ben altra storia: la mia, per fortuna, nemmeno lontanamente si può avvicinare a quella di zio Dante. Nessun contorto viaggio nelle viscere della terra, accompagnato da un poeta latina. Niente simboli strani, che dovrebbero far riflettere sulle tematiche del mondo dell’epoca. Simboli che vengono spesso volutamente evitati, poiché indagare costa tempo ed energie: e il tempo è denaro, ricordiamoci. Non per Seneca, però. Ma qui sarei ripetitivo, noioso, e non porterei nessuno da nessuna parte.

Come una foglia al vento,
spinta dalla brezza della vita,
s’appoggia dolcemente per terra,
così la tempesta l’agita
e la scuote con violenza,
finché non si appoggia,
dolcemente, come una foglia al vento.

Federicoz

Un giorno, mi balenò in mente l’idea di andare in montagna, a passeggiare dolcemente accompagnato dalla brezza, ad ammirare lo splendido panorama che si può vedere dalle strade di Castellano, qui in Trentino, ma soprattutto a respirare un po’ di quell’aria fresca che in città è rara, rarissima. Quasi sfuggente, oserei dire. Nel senso che sembra sempre fuggire noi umili cittadini, come se fosse merce da nobiluomini.

Quindi la sera prima di partire programmai il viaggio: innanzitutto andava preparato lo zaino, con una scorta di provviste degne di un soldato che sta per partire al fronte, e poi andava preso almeno un cambio, perché quella mattinata sarei andato su con un caro amico, e avremmo anche voluto giocare a pallone. Quindi io, che sudo sempre troppo, ero fisicamente obbligato a portarmi una maglietta di riserva.
Riposto lo zaino all’ingresso, contattai Marco per sapere che autobus avremmo preso l’indomani. “Il 3, Fede, e muoviti, anche perché è sempre in anticipo quell’autista!” (i termini erano, ovviamente, ben altri). Io dissi di sì e misi giù la chiamata, aspettando impazientemente l’indomani: mi sdraiai quindi nel letto, stanco ma felice, e cominciai a leggere. Fiumi di parole scorrevano nei miei occhi, come tanti piccoli ruscelli confluiscono in un bacino maggiore, la conoscenza. E cosa stavo leggendo? Beh, nonostante i tanti libri letti nella mia vita (come se fosse lunga!), mi ricordo perfettamente che quella sera stavo leggendo l’autobiografia di Crujff, presa il giorno prima a metà prezzo. Strepitoso, avevo detto, visto che il totalvoetbal mi ha sempre appassionato. E cosa c’è di meglio che leggere l’autobiografia (scritta sicuramente da qualche anonimo e ben pagato ghostwriter) di chi l’ha inventato, praticato e predicato a livello mondiale? Sicuramente nulla, quindi la lettura procedeva scorrevole, tanto che sembrava che io fossi lì, nelle file dell’Olanda, a giocare prima da terzino, poi da ala e infine da trequartista, coprendo sempre gli spazi dei mie compagni che si avventuravano in pressing che oggi definiremmo sfrontatamente “arditi”.

Piano piano le palpebre si fecero pesanti e io riposi il libro, addormentandomi dolcemente fra le braccia della buia Notte. E qui, non ci capii più nulla. Il mio sonno fu stranamente agitato, non so per quale motivo, so solo che al mattino mi ricordavo di un’ombra, di cui non riconoscevo più le sembianze, che mi aveva detto qualcosa, che io stesso avevo confusamente farfugliato, stando al racconto di mio fratello. Cosa fosse, non mi ricordo tutt’ora, ma sono sicuro centrasse con il calcio. Il perché?

Semplice, ad un certo punto della notte avevo tirato un calcio potentissimo al muro, a caso. E di quello me n’ero accorto no bene, benissimo. Dolorante ero andato in bagno ad esaminare il livido che si stava formando. E faceva male, molto male. Ma ritornai mestamente nel letto e mi riaddormentai come un tronco d’albero quando si posa esanime dopo una lunga e faticosa vita.

La mattina mi svegliai, felice ma dolorante a quel maledetto piede con cui avevo tentato inconsciamente di fare irruzione nella stanza accanto. Accesi subito il mio cellulare e la prima notifica che comparve fu quella di Microsoft To Do, che mi avvertiva di dover cominciare a vestirmi perché in 20 minuti avrei dovuto trovarmi in fermata. Cominciai rapidamente a vestirmi, in preda una spasmodica ricerca dei miei boxer, che però non ne volevano sapere di venire fuori. Alla fine presi le prime che mi capitarono, anche se, devo dire la verità, somigliavano a quelle di mio nonno. “Ben venga, almeno sarò comodo in questa salita che m’attende”.

Mi sciacquai il viso, ma guardandomi allo specchio notai di essere un po’ pallido, cosa che sono spesso voglio sottolineare, ma quel pallore aveva effettivamente un qualcosa di misterioso. Io tuttavia me lo dimenticai rapidamente e con la solita freschezza da statale mattiniero mi avvicendai per partire da casa, quando improvvisamente il mio cellulare vibrò. Era il Marco ed era la sua sesta chiamata. “Te lo scordi che tengo la suoneria accesa la mattina” pensai. Quando risposi dovevo avere un’aria abbastanza seccata, perché il mio amico mi rispose a tono, cominciando ad insultarmi in modo scherzoso (si spera) e dicendomi che lui era in ritardo, perché suo padre non si era svegliato. Che strano, eppure suo padre era sempre il primo a svegliarsi, e il suo ululato svegliava tutta la famiglia di Marco.
La conversazione proseguì per qualche secondo, finché lui mi disse “di sicuro non ce la faccio a prendere il 3, aspettami in fermata che poi vediamo con gli altri cosa fare”. Io, con un sonoro c... cretino gli dissi che andava bene, visto che non avevo tanta voglia di andare sopra dopotutto. Il pallore non era passato, da quello che mi comunicava il mio riflesso sullo schermo del Samsung, eppure io stavo bene, benissimo. Sprizzavo energia da tutti i pori. Nei limiti di uno statale la mattina, ripeto.

Marco arrivò quindici minuti dopo, che il bus era già passato da almeno dieci. Io mi avvicinai amichevolmente, ma appena fui abbastanza vicino gli tirai una di quelle pacche sulla spalla che non si dimenticano facilmente. Lui non rispose, ma rimase tramortito dalla potenza inaudita di quel gesto poco cavalleresco, ma sicuramente efficace (che pomposo che sono!). Rialzatosi dall’enorme danno che gli avevo arrecato, mi disse che ero un c...cretino. E nulla, la conversazione proseguì sugli stessi toni per due minuti circa, finché non ci chiamò Paolo, che ci chiedeva cosa volessimo fare. Con uno sguardo d’intesa, gli dicemmo quasi in sincronia “Andiam a zugar al campo dell’oratorio. Fa venire anche gli altri!”. E alla fine ci andammo veramente: Marco ancora dolorante e io gioioso di averlo fatto soffrire per quel ritardo. Io con i miei Magistax e la mia Telstar nello zaino, lui con solo la maglia di Douglas Costa (cof cof gobbo cof cof) e un paio di Puma prese a 25 euro. Le maledette Puma le odiavo: scomode come una ciabatta troppo larga, rendevano ogni movimento troppo impacciato. In più, non fasciavano assolutamente il piede. Le mie Magistax turf, invece, erano spettacolari: eleganti ma brillanti, garantivano un controllo di pelle incredibile. Ed erano costate 30 euro, mi sembra. Spettacolo puro.

Appena arrivammo all’oratorio, tutti erano già lì. Alcuni avevano gli scarpini, altri i turf come me. Sinceramente credo siano più comodi e permettano uno sviluppo migliore della tecnica e della coordinazione: insomma, prima impari a calciare il pallone e poi impari a giocare con i tacchetti. Un po’ come diceva Crujff. Anche se mi guardo bene prima di paragonarmi a uno dei maestri del calcio, uno che ha trasformato uno sport pretecnico e in uno sport completamente permeato dalla tecnica. Che sia giusto o non giusto, non è un mio problema. Sta di fatto che è meraviglioso.

Ritornando all’oratorio, mi stavo mettendo gli scarpini, quando Marco mi urlò di sbrigarmi. Ma io, da grande menefreghista qual ero, tirai lentamente fuori dalla zaino i miei pantaloncini e la mia maglietta del Milan, rigorosamente senza stampa, perché io non sono emulo di nessuno (certo, ma non mi dispiacerebbe avere nemmeno un decimo del talento dello scarparo Ricardo Rodriguez). Allacciati gli scarpini e alzati i calzini, corsi in campo, senza nemmeno riscaldarmi, come nostro solito. Così, a fine partitella, ogni volta si torna a casa patendo le pene dell’Inferno, perché ci si è stirati o si è presa una botta al polpaccio dopo un intervento alla Felipe Melo dell’amico frustrato.

Cominciai subito a giocare: mi misi nella squadra del Marco, perché dopotutto lui non era male come giocatore. Svariai un po’ su tutto il campo, dando pochi riferimenti e cercando sempre di crossare proprio per il mio amico, che era uno dei più alti del gruppo. Qualche gol veramente bello lo segnammo, ma purtroppo dovemmo arrenderci di fronte ad un destino inesorabile: l’altra squadra era composto quasi solamente dai giocatori del Rovereto, i più forti della città, e purtroppo la partita finì 19-5. Un risultato ingiusto, per quello che avevamo dimostrato in campo: ma si sa, il calcio non è un gioco giusto. È solo un gioco, nulla di più, nulla di meno. Un gioco in cui conta divertirsi. E in quella partita io mi ero decisamente divertito (calcione alla tibia scoperta escluso, ovviamente).

Rimessi gli scarpini al loro posto, andammo a prenderci una pizza, tutti insieme. Io e il Marco, intanto, da bravi aspiranti giornalisti sportivi, stilavamo le pagelle del giorno. “Mah, tu ti prendi un 6 di incoraggiamento. Devi tirare meno di punta e più di collo, c...cavolo!” gli dissi con tono scherzoso, ma lui apparentemente non colse l’ironia. Solo apparentemente, per fortuna, perché mentre stavamo aspettando la pizza fuori dal locale, all’ombra di un bel palazzo ottocentesco, tolse finalmente quella faccia arrabbiata. E mi tirò un bel lopez (una ginocchiata alla coscia, per chi non fosse del posto).
Io, dolorante, mi accasciai a terra con l’abilità di un Neymar in formato 2018 Coppa del Mondo, ma il problema era che faceva veramente male.
In mezzo a tutto questo disordine, si continuava a scherzare sui pagelloni che io e il Marco aveva stilato: chi si lamentava per il voto troppo basso e chi se la tirava per quello troppo alto. Il Luca, ad esempio, che era notoriamente uno scarparo, non si capacitava del suo 5-, mentre il Jacopo ci guardava tutto impettito per il suo 8 tutto qualità e quantità.
In tutto questo, ovviamente, nessuno sembrava curarsi dei mali che affliggono il giorno in ogni singolo istante. Di tutto ciò che strappa al pianeta Terra una vita. Ma ripeto, ciò è normale: dopotutto, vedere oltre il proprio microcosmo è difficile anche per un adulto, figuriamoci per un ragazzo che ha passato l’infanzia a correre dietro ad un pallone, fregandosene completamente del mondo. O meglio, tutti sappiamo tutto, ma la negazione, in fondo, è quello che ci fa andare avanti senza preoccuparsi di morire colpiti da un aereo che si schianta dopo un attentato terroristico. Quando una disgrazia, però, tocca il proprio microcosmo, tutto viene come scosso da un violento terremoto. E questo accadde quella sera...

Improvvisamente, un nostro amico sbiancò in volto. La sua bocca si fermò per un istante, che poi divenne un minuto, due minuti, tre minuti... non parlava più, ma fissava il cellulare. Eppure era spento. Sembra guardare il profilo del suo viso. Ad un certo punto, una lacrima gli rigò il volto. Lacrima che divenne ruscello, che poi divenne fiume in piena, fino ad essere tempesta oceanica. Noi ci zittimmo, ma nessuno riusciva a capire il perché di quel comportamento stranissimo. La tipa lo aveva lasciato? E amen, ne avrebbe trovata un’altra. Ma no, non era quello. Il suo migliore amico, Pietro, lo scosse e lo accompagnò in disparte, per parlarne: ritornò solo lui, mentre il nostro amico se ne andò a casa, a piedi. A testa bassa, mentre lasciava dietro di sé minuscole goccioline di tristezza.

Il Pietro ci venne incontro e inizialmente sembrò avere un nodo in gola: poi la voce gli si schiarì e pronunciò parole di una semplicità unica, che però fecero un male immenso. “suo fratello è morto”. E lì, il nostro pranzo si fermò. A nessuno fregava del pizzaiolo che urlava i numeri dello scontrino. A nessuno importava che il tempo scorresse per tutti, che ogni secondo passato era un secondo vissuto. Perché? Perché non ce ne poteva fregare di meno. Era morto un ragazzo che aveva appena due anni più di noi, che non era solo il fratello del nostro amico, ma era anche uno del gruppo. Uno che appena due giorni prima avevamo invitato a fare un giro per la città. Uno con cui avevamo condiviso di tutto. E ora, per un fatale scherzo del destino, questo uno non c’era più. Dissolto, come cenere.

Noi tutti rimanemmo impietriti: non nego che piansi, perché in quel momento troppi ricordi assalirono come soldati il mio animo già distrutto da quella terribile notizie. Le partite che avevamo giocato insieme, gli insulti che ci eravamo l’un l’altro detti, le sgambettate, ogni singolo passaggio. Tutto, da quel momento, non sarebbe più successo. Continuavo a ripetermi che non se lo meritava, che era un bravo ragazzo, che amava follemente il calcio e ancora di più la vita. Insomma, quello che direbbe qualsiasi persona di un amico appena morto.
Tutti ci stringemmo in un silenzioso abbraccio. Un abbraccio che sprigionava le malinconie di ognuno di noi, come se una tempesta si fosse appena abbattuta su un imbarcazione apparentemente forte, che si rivela essere fragilissima.

La giornata proseguì nella totale assenza. Chi cercava notizie su Internet per capire cosa fosse successo, chi invece se ne stava in disparte, a pensare a tutti i momenti che aveva passato con lui: io ero tra questi.
Eravamo sempre tutti insieme, benché ci fossimo spostati da un’altra parte. Nessuno, nessuno voleva accettare quella maledetta verità. È troppo presto, ripetevo a me stesso. Non è giusto. Eppure era successo, non ci potevo fare nulla, come non ci potevano fare nulla i miei amici. E non ci poteva fare niente nemmeno lui, che ora si trovava sì solo, ma sicuramente in un posto migliore, dicevo.

La sera tutti rientrammo nelle rispettive case: Marco e io percorremmo insieme la strada, in un silenzio che sembrava aver ucciso anche noi. Nessuno sembrava avere il coraggio di rompere quel sacro e maledetto silenzio, ma decisi che non era quello il modo di affrontare la morte. Pensavo di essere forte, ma il mio inconscio mi suggerì di tapparmi la bocca, perché in quel momento parlare del più e del meno sarebbe stato un insulto alla memoria di quello che consideravo un bravo ragazzo e un ottimo calciatore. Arrivati alla fermata, ci salutammo: io svoltai, lui andò dritto. Sembrava una scena da film, in cui due personaggi si dividono per non rivedersi più. Per fortuna che lui, Marco, l’avrei rivisto il giorno dopo. Non come lui.

Tornato a casa appoggiai lo zaino subito all’ingresso, mi tolsi le scarpe e andai diretto sotto la doccia, senza neanche pensare di accendere il riscaldamento. Ma cosa me ne poteva fregare, sinceramente? Finita la doccia, presi il cellulare, che vibrava violentemente. Era il Marco. Risposi. Lui mi disse di andare a leggere l’articolo che mi aveva inoltrato su Whatsapp. Io risposi che l’avrei fatto. La discussione finì qua, senza nessun l’aggiunta di un qualsiasi altro aneddoto accaduto quel giorno. Giorno maledetto, sottolineo.

Lessi l’articolo, da cima a fondo. Lo rilessi un’altra volta. E un’altra ancora. Non riuscivo a capire perché fosse morto in quel modo. Era finito in strada a recuperare il pallone che un altro (immagino Francesco) aveva calciato fuori dal campo: in quello stesso momento un suv verde militare aveva appena svoltato e l’autista non era stato abbastanza rapido di riflessi nel frenare. Morto, sul colpo. La testa aveva battuto violentemente contro la strada e non c’era stato verso di rianimarlo.

Chiusi la notizia, spensi il cellulare e mi vestii con una maglietta ed un paio di pantaloni da casa. Mi sdraiai sul letto, che è casa. Anche se in quel momento era solo un freddo corpo estraneo, senza alcun legame con il mio corpo, stanco, freddo. Ripresi in mano il cellulare. Mi vidi pallido, dal riflesso sullo schermo. Lo stesso pallore della mattina. Ma io, apparentemente, stavo bene.

Mi assalì un improvviso ricordo. “Il calcio è vita. Ma c’è chi, questa vita, l’ha persa correndo dietro ad un pallone.”. Questo aveva pronunciato l’ombra nel mio sogno. Accesi il cellulare e andai di nuovo sulla notizia. Il luogo era lo stesso dove sarei dovuto andare io. Il momento lo stesso in cui io avrei dovuto giocare.
Quella persona morta, ora, potrei essere io. In quello stesso istante capii che il calcio è vita. Ma c’è chi, questa vita, l’ha effettivamente persa correndo dietro ad un pallone.
Come il mio sogno mi aveva detto.
E da quel momento, il calcio, per me, è solo calcio. Non è correre dietro un pallone. Calcio è tutto quello che può essere definito calcio. Come vita è tutto ciò che può essere definito vita. E in questo momento, uscire non equivale a vita. Perché chi esce, per questa vita, rischia di perderla.

 

Federicoz