Dopo aver regalato a Blazevski la dovuta fama, nel mio articolo sui gol più belli nelle coppe europee, ho sentito il bisogno di scrivere riguardo a quei calciatori che pur essendo forti non hanno mai ricevuto il dovuto riconoscimento. Alcuni per scelta, altri per sfortuna, altri ancora per qualche strano destino che gli ha sempre allontanati da top club. Eppure, guardandoli giocare, non si può che ammirarli: il loro talento è limpido come l’acqua di un torrente di montagna, candido come la neve alpina, ma nessuno se ne è accorto, come se vi fosse uno spesso banco di spessa nebbia che li rende inaccessibili a coloro che non riescono ad apprezzarli veramente.

Immaginate di trovarvi a fondo valle, lungo la catena alpina. Ad un certo punto scorgete le pendici di un monte, e vi chiedete quanto possa essere alto. La cima, però, è coperta da una foschia che vi impedisce di vederla, rendendola di fatto inaccessibile. Subentra quindi l’immaginazione umana, che prova a raffigurare nella vostra mente quella cima invisibile: essa può essere stupenda, altissima, con un panorama degno del Viandante sul mare di nebbia. Allo stesso tempo però essa può essere rocciosa, talmente impervia da essere irraggiungibile, e ciò vi fa rimanere un po’ delusi dalla vostra lunga scampagnata. Poi c’è chi anche potrebbe immaginare una cima bassissima, magari un altopiano, e qui cade la fantasia.

Ecco, i giocatori di talento che qui troverete elencati sono proprio così: magnifiche cime che nessun esperto scalatore ha avuto il coraggio (e la voglia) di esplorare. Per ora, almeno.


Dani Parejo

Carriera
Pensi Parejo, pensi Valencia. Un binomio indissolubile che sembra far risalire la sua origine ai tempi più antichi (del calcio, si intende, non stiamo mica parlando di Giulio Cesare), benché il talentuosissimo centrocampista spagnolo sia diventato un pipistrello solo nel 2011, dopo essersi fatto tutta la trafila nelle giovanili del Real Madrid, che nonostante un’ottima stagione con il Castillo, la seconda squadra, non lo volle portare fra i grandi, preferendo mandarlo in prestito in Inghilterra, al QPR, dove però gioco poco e male.
Parejo ritornò quindi a Madrid, nella speranza di poter dare il suo contributo alla causa blanca: dopotutto era uno dei migliori talenti spagnoli, ma le troppe speranze riposta in lui non gli fecero che male, caricandogli le spalle di troppe e soprattutto inutili pressioni per un ragazzo appena 20enne.
Dopo 6 mesi di panchina, infatti, decise di trasferirsi definitivamente al Getafe, lasciandosi definitivamente alle spalle una parte della sua carriera che avrebbe voluto volentieri dimenticare.
Forse, pensava, la sua vocazione non era quella di rappresentate dei potenti, e quindi dei principeschi madridisti, quanto quella di uomo del popolo, ovvero quel giocatore che avrebbe potuto apportare la sua classe aristocratica ad un mondo (calcistico) che altrimenti ne sarebbe rimasto privo.
Una sorta di Giulio Cesare post litteram (Accademia della Crusca neologismo in arrivo), che, pur rimanendo occultamente legato ad una nobiltà troppo potente per essere messa da parte, si sarebbe fatto fiero portavoce di ideali quasi anacronistici per l’epoca.
Al Getafe, infatti, tutto andò per il meglio e Parejo fece presto a trovare estimatori in tutta la Spagna: nell’estate del 2011, poi, aveva anche vinto l’Europeo Under 21 con la Roja, e benché non fosse titolare la vittoria di questo titolo ne aveva fatto aumentare il valore.
Perciò il Valencia si mosse prima di tutti gli altri club e si assicurò le sue prestazioni per soli 6 milioni di euro, anche se il Real Madrid si intromise nella trattativa e decise di inserire una clausola di recompra, che tuttavia non esercitò mai, complici anche le difficoltà di Parejo nelle prime stagioni con la maglia del Valencia.
Già nella seconda e in particolare nella terza, però, qualcosa sembrava essere cambiato e finalmente il centrocampista spagnolo stava riuscendo a dare continuità alle sue prestazioni, nonostante il Valencia avesse concluso la stagione con un misero ottavo posto: il suo talento, che fino a quel momento era sembrato trattenuto a forza da delle catene infrangibili, stava mostrarsi in tutto il suo accecante splendore.
Il Valencia infatti voleva ritornare a competere per le posizioni più alte della classifica e per questo aveva esonerato Pizzi, assumendo Nuno Espirito Santo, che, in linea con il suo nome, fece un “miracolo”: i pipistrelli conclusero la stagione al quarto posto e Parejo, diventato anche capitano dopo l’addio di Ricardo Costa, giocò una stagione che definire da urlo sarebbe un eufemismo.
11 gol e 8 assist furono i numeri che lo consacrarono da centrocampista centrale e raramente da trequartista. Parejo poteva dirsi un giocatore completo, ora, a 25 anni.
I tifosi del Valencia lo avevano adottato: per loro era un figlio, il figlio che li avrebbe condotti in alto, forse. Lui stesso era all’apice delle sue potenzialità e sul suo cammino si aprivano due strade: provare definitivamente il grande salto o rimanere fedele alle gente che aveva sempre creduto in lui. Parejo, saggiamente, o forse no (lo decideranno i posteri questo), decise di rimanere a Valencia, dove fino ad oggi ha continuato ad incantare a suon di giocate straordinarie, andando sempre in doppia cifra (gol+assist) e vincendo, nella stagione 2018-2019, la Copa del Rey.

Qua, però, devo aprire una parentesi importante, perché non vorrei che fraintendeste il tipo di giocatore che Parejo effettivamente è: non stiamo parlando di un Iniesta, o di un Luis Alberto, assolutamente. La tecnica è quella, ma l’apparenza è ben altra, perché il centrocampista del Valencia non è un giocatore che fa divertire sul momento. Non è un gladiatore sanguinario che si diverte a straziare l’avversario solo per il gusto di sentirsi idolatrato dalla folla. No, Parejo è un’artista vero, che viene apprezzato solo a fine stagione, quando si vedono i suoi numeri e si può arrivare solo ad una conclusione: è fortissimo.
Lo spagnolo infatti è un centrocampista “tuttofare”, perché sa sia impostare sia interdire. Allo stesso tempo sa anche segnare e far segnare. Così, però, sono ancora troppo generico e probabilmente non riesco a far capire a coloro che non lo conoscono (o che semplicemente non guardano La Liga).
Ecco, immaginate Xavi. Togliete una parte del suo talento e della sua tecnica e aggiungeteci un fisico leggermente più robusto. Prendete il tutto (sembra una ricetta per la paella, che in questo caso chiameremo pareja) e mettetelo in un club come il Valencia: mescolate il tutto fino ad ottenere un giocatore bravissimo nei lanci lunghi, bravissimo nello stretto, bravissimo sui calci piazzati e bravissimo nel mantenere alta la concentrazione per tutti i 90 minuti. Insomma, un giocatore completo e straordinariamente dotato, che però fa della semplicità una sua dote imprescindibile: ogni sua giocata, ogni suo dribbling, infatti, non vuol mai far trasparire l’alegria de Espana, quanto la concretezza e il cinismo, caratteristiche che da un punto di vista antropologico (e stereotipico) non sono mai associate a persone spagnole.
In altre parole Parejo è un giocatore poco spagnolo, ma estremamente funzionale e utile a qualsiasi tipo di gioco, essendo un giocatore imprevedibile nella sua semplicità. Purtroppo questa sua utilità spesso porta la squadra alla totale dipendenza dalle sue geometrie, come visto, per esempio, nel doppio scontro contro l’Atalanta, in cui Parejo era apparso sottotono, e di conseguenza quasi tutto il Valencia lo aveva seguito nel baratro.

Livello di rimpianto
Sicuramente sono molti, moltissimi i top club (e non solo) che rimpiangono le potenzialità di Parejo: Inter e Fiorentina avevano cercato di prenderlo nel 2015, mentre il Barcellona si era fatto avanti più volte, anche l’anno scorso, prima che lui rinnovasse il contratto con il Valencia, inserendovi una clausola di 50 milioni.
Eppure, nonostante non abbia mai potuto giocare con continuità ad alti livelli e nemmeno con la Roja, il suo talento rimarrà per sempre un patrimonio della meravigliosa città di Valencia, che dovrebbe, secondo me, erigergli una statua per la fedeltà dimostrata ai colori della squadra cittadina. Parejo ha avuto la capacità mentale di caricarsi sulle spalle il centrocampo di un’intera squadra e allo stesso tempo ha dimostrato una libertà mentale imparagonabile, dipingendo calcio con pennellate invisibili, che, quando deciderà di appendere gli scarpini al chiodo, ci avranno lasciato un quadro di una bellezza straordinaria. E in quel momento, i tifosi dei blancos, forse, rimpiangeranno di non averlo amato come meritava.

Potenzialità
31enne, una clausola da 50 milioni di euro e l’amore del popolo: le motivazioni per cui Parejo NON dovrebbe lasciare Valencia ci sono tutte, eppure qualche top club potrebbe pure fare la follia di portarlo per una volta ad alti livelli, magari spremendo l’ultima goccia di talento dal suo corpo.
Probabilmente, però, abbiamo già visto tutto quello Dani aveva da darci, benché in un top club sicuramente avrebbe avuto la possibilità di risaltare come la più luminosa delle stelle.
Voto rimpianto/potenzialità: 8.5


Lucas Leiva
Carriera
Ora, parliamoci chiaro: Lucas Leiva non è un giocatore normale, perché il lavoro che svolge in campo non è normale. Non è nemmeno un giocatore fenomenale, perché non i numeri (canonici, voglio sottolineare) per essere un fenomeno. Ma quindi, Leiva, che giocatore è?
È un giocatore molto particolare, questo sì, ma la domanda non è questa. Bisogno capire che giocatore è il centrocampista brasiliano, per potergli finalmente garantire un posto fisso e sicuro nella nostra memoria, perché di giocatori particolari ce ne sono stati moltissimi nella storia del calcio e ricordarseli tutti anche no.
Ora, cerchiamo di procedere negando ciò che Leiva non è (una sorta di teologia negativa, per intenderci), perché al momento ci risulta impossibile conoscerlo per intero:

  • Leiva non è un centrocampista capace di segnare molti gol (ne ha segnati 19 in oltre 500 partite, un po’ pochetti anche se si parla di un regista);

  • Leiva non è un centrocampista capace di far segnare, perché nemmeno gli assist sono una sua specialità;

  • Leiva non è un centrocampista fisicamente preponderante: non è un Bakayoko, allo stesso tempo non è nemmeno un Sensi, e perciò in una posizione intermedia, quasi mediocre e sicuramente molto anonima;

  • Leiva non è un centrocampista tecnicamente dotato: non è Iniesta (beh, mi sembra scontato), ma non è nemmeno Luis Alberto, e infatti né nella mediana del Liverpool né nella mediana laziale non è stato lasciato senza un giocatore tecnicamente più capace. Le poche volte che è successo ha cercato di “portare a casa la pagnotta”, ma senza eccellere. Non dico sia uno scarparo, ma è un giocatore che predilige l’ordine di un passaggio orizzontale ad una rischiosa verticalizzazione;

  • Leiva non è un giocatore dotato di garra come Gattuso: non è un giocatore cattivo (nel senso buono del termine) ma non è nemmeno un giocatore completamente privo di agonismo.

     

Adesso, forse, abbiamo capito che giocatore è Leiva, o forse no. Rileggendo i punti che ho argomentato ne emerge un giocatore tremendamente anonimo, senza alcuna qualità particolare e completamente privo di un fondamentale che lo faccia eccellere nel calcio di oggi, che rende immortali quei giocatori che combinano un ottima tecnica ad un ottimo fisico (Pogba, per esempio).
Eppure, Leiva non ha mai voluto eccellere e proprio per questo, secondo me, è uno dei giocatori più sottovalutati degli ultimi 15 anni: all’inizio della sua carriera, però, non è stato così.
Leiva era uno dei migliori centrocampisti del campionato brasiliano ed era stato persino eletto miglior giocatore del 2006, ma quando l’anno dopo si trasferì al Liverpool per 10 milioni di euro tutto cambiò. Quel centrocampista che sapeva anche segnare diventò uno dei migliori registi-mediani d’Inghilterra, benché non eccellesse in nessuna qualità.
O meglio, Leiva non ha mai avuto una qualità chiara, ma è sempre stato il motore occulto delle squadre in cui ha giocato: merito della sua straordinaria intelligenza tattica e del suo incredibile senso della posizione. In altre parole, il centrocampista della Lazio è stato e tuttora rimane uno dei più grandi equilibratori del calcio moderno, uno di quei giocatori tanto fondamentali quanto bistrattati e mai riconosciuti per il loro immenso valore tattico più che tecnico.
Forse è questo il problema del calcio moderno: la tecnica, spesso, prevale sulla tattica, e questo vuol dire che giocatori intelligenti vengono spesso messi in ombra da giocatori più tecnici, a tratti più istintivi. Non dico che sia sbagliato, assolutamente, perché uno dei miei giocatori preferiti è Pogba, che è il simbolo del centrocampista moderno. Si tratta semplicemente di una naturale evoluzione che ha prediletto giocatori capaci di fare la differenza da soli e ha relegato a specie protetta i “grandi complementari” come Leiva.
Tatticamente parlando, vi immaginate una Lazio senza Leiva? Io no, perché la tecnica e la capacità offensiva di Milinkovic Savic e Luis Alberto andrebbero a creare un buco difensivo enorme nel centrocampo biancoceleste, generando numerose occasioni da rete per gli avversari. Allo stesso tempo, però, non è possibile immaginare un Leiva senza quei due (o qualsiasi altro centrocampista tecnico), perché così facendo perderebbe il suo valore di equilibratore (non avrebbe nessuno squilibrio tattico da colmare).
Per questi motivi il brasiliano è come un formaggio francese: o lo apprezzi nei piatti giusti e nei momenti giusti o lo odi senza concedergli alcuna possibilità di rivalsa. Che poi, scusatemi, come si fa a non amare un giocatore che nel 2020 indossa ancora gli scarpini neri?
Tornando alla sua carriera, abbiamo visto il suo passaggio in Inghilterra e la sua trasformazione in un giocatore anonimo ma fondamentale: al termine della stagione 2010-2011, a dimostrazione che i tifosi del Liverpool qualcosa capivano di calcio, è stato eletto miglior giocatore dei Reds. L’unica sua sfortuna è stata quella di giungere in uno dei club più vincenti d’Inghilterra in uno dei suoi momenti meno vincenti: in 10 anni infatti ha vinto una sola coppa inglese. Alla faccia della Champions League e della gloria imperitura!
Nel 2017, poi, il sempre attentissimo Igli Tare (che non riesco a non ammirare per il suo incredibile fiuto nell’acquistare giocatori apparentemente finiti e farli rinascere) l’ha pigliato per meno di 5 milioni di euro. I tifosi della Lazio, se inizialmente potevano anche essere felici di aver preso un centrocampista titolare del Liverpool, appena lessero le sue statistiche su Transfermarkt o su qualsiasi altro sito di sicuro non gridarono di gioia: in 10 anni aveva segnato 7 gol e fatto qualche assist. Altro che Gerrard, avranno detto. E non li biasimo affatto, peccato che adesso si siano completamente ricreduti (spero per loro), perché l’importanza e l’imprescindibilità di Leiva negli schemi di Inzaghi è chiara quanto è vero che mi chiamo Federico.

Livello di rimpianto
Tanto, sicuramente tanto è il rimpianto nei confronti del centrocampista brasiliano, ma non da un punto di vista prettamente egoistico. Mi dispiace proprio per lui, perché nonostante sia un grande giocatore non ha mai avuto alcun tipo di riconoscimento particolare, né coi club né con la nazionale. Della sua occulta importanza hanno scritto alcuni siti famosi e meno famosi, ma mai nessuno ha pensato di rendergli un tributo degno.
Ciononostante e non credo che lui rimpianga ciò che ha fatto, poiché ha avuto una carriera di ottimo livello e ha avuto la possibilità di giocare con grandi giocatori. Allo stesso tempo ci ha mostrato tutto il suo repertorio tecnico, non ampissimo ma nemmeno così ristretto.
Peccato solo che non l’abbiamo visto in azione in squadre come Barcellona o Bayern Monaco, dove forse avrebbe avuto un’importanza senza precedenti e avrebbe sicuramente dato nuovo lustro al ruolo dell’equilibratore.

Potenzialità
33 anni e gioca nella Lazio: gli ingredienti per non vederlo più in alcun altra squadra ci sono tutti, a meno che non arrivi una coppia di pazzi come Fassone e Mirabelli (che voglio ricordare spesero 20 milioni di euro per un 31enne Biglia). In ogni caso, la Lazio potrebbe essere un ottimo club in cui concludere la sua carriera e magari togliersi anche lo sfizio di vincere il campionato italiano (speriamo!).
Bisogna dire che Leiva anche se si trasferisse da qualche altra parte non darà di più quello che ha dato fino ad oggi. Per questo in potenza è un giocatore inesistente e già la stessa attualità, per lui, è potenza.
Voto rimpianto/potenzialità: 7,5

 

Questa è la prima parte parte di una raccolta di quattro racconti da due giocatori ciascuno.
Vi ringrazio per la lettura e mando un abbraccio virtuale a tutti.

Federicoz