Oggi volevo scrivere un articolo diverso dal solito. Non volevo andare ad indagare gli aspetti più nascosti del calcio e la psicologia dei calciatori. Non volevo narrare la storia di un calciatore del passato. Non perché non ne abbia voglia, ma perché semplicemente oggi preferisco andare ad indagare nei mie ricordi che, come grotte profonde e buie, rimangono spesso inesplorati.
Perché, nonostante sia molto giovane, il calcio mi ha già fatto vivere molti momenti felici e almeno altrettanti tristi. In fondo, è questa la bellezza del calcio: esso ti fa provare emozioni straordinarie, facendoti letteralmente “volare” sulle ali della felicità, ma allo stesso tempo può sbatterti violentemente per terra, lasciandoti triste e malinconico.

In altre parole, il calcio è una metafora della vita di ogni uomo: se è gol, si esulta. Se la palla scivola fuori, si ha la possibilità di rimetterla dentro. Se si sbaglia a porta vuota, si ha sempre la possibilità di rifarsi. Ora però non vorrei annoiarvi parlando di questo aspetto vagamente filosofico, ma voglio ricordare alcuni momenti che hanno piantato in me le feconde radici di una passione che tuttora ho e che sono sicuro mi porterò appresso per sempre.
Auguro una buona lettura a tutti coloro che decideranno di prendersi qualche minuto del loro tempo per farsi i ca...voli miei.

  • Una vittoria inaspettata

Correva l’anno 2016, o forse il 2017. Non mi ricordo, sinceramente. Del luogo e del periodo, però, sono sicuro: mi trovavo in Slovacchia ed era estate. Un estate calda, afosa, quasi italiana direi. I più “vecchi” (non me ne vogliate!) si chiederanno: “Ma che ca...volo facevi in Cecoslovacchia?”. E io preciserò che mi trovavo in Slovacchia, vicino a magnifici monti Tatra, e mi trovavo lì perché mia madre è slovacca ed io acquisito la doppia cittadinanza. Tutto bello, quasi vantaggioso per un eventuale futuro lavorativo, si potrebbe dire: all’epoca lo pensavo anch’io.
Ogni estate andavo e tuttora vado lì, dai miei nonni, dai miei zii e soprattutto dai miei amici. Se fino a qualche tempo fa, però, poteva essere considerato una vacanza, oggi non lo è più: più tempo passa e più sento un pino sradicato dal luogo dove è nato. Insomma, non mi sento a casa.
All’epoca, però, non era così. Avevo molti amici e ogni anno ne conoscevo di nuovi. Con questi passavo giornate intere a giocare a calcio nel campo di una scuola del posto.
Oggi quel campo è stato rimesso a nuovo, con un bellissimo prato sintetico. L’ha pagato la città e ha anche imposto degli orari abbastanza stringenti. All’epoca, però, non era così. Il campetto, perché aveva e ha tuttora le dimensioni appena giuste per giocare 5 contro 5, era veramente “brutto”: il materiale era sempre sintetico, ma non vi erano gommini fra i fili d’erba, bensì sabbia. E chi di voi ha mai giocato in un campo del genere può immaginare e sentire sulle proprie gambe il dolore di una scivolata. Insomma, non è che fosse molto diverso dal cemento, però mi piaceva. Dava l’idea di essere familiare, vicino ai noi ragazzi. Non era il campo bellissimo e quasi “proibito” che è oggi. Era nostro, dei ragazzi e ci si poteva fare quello che si voleva, nel bene e nel male.
Ogni tanto arrivavano i “grandi” e fumavano, bevevano e poi giocavano con noi ragazzini. Ogni tanto riuscivamo a batterli, ma alcuni erano veramente forti. La maggior parte delle volte, però, eravamo solo noi ragazzini.
Altre volte ancora, invece, ero lì da solo e giochicchiavo tra me e me, con il mio pallone degli Europei del 2012. Le porte erano più piccole di quelle regolamentari, costruite di tubi di acciaio inossidabile e prive di rete. Il campetto era delimitato da delle protezioni: dei muretti alti circa un metro di plastica e acciaio, che servivano a non far uscire la palla. In più vi erano delle enormi reti di protezioni dietro alle porte, per evitare di far cadere la palla nel fiume che scorreva a circa 15 metri dal campo. Purtroppo la rete era bucata e capitava che noi ragazzi dovessimo avventurarci in improbabili cacce al pallone, mentre questo scorreva lentamente verso il depuratore che si trovava 200 metri più avanti. Per fortuna ne ho perso solo uno in questo modo, ma ogni singola volta il mio cuore aveva un momento di scoramento, perché ogni pallone perso equivaleva ad un pezzo della mia infanzia che se ne andava per sempre. Lentamente, ma se ne andava e non sarebbe più tornato.

Quel giorno stavamo giocando a calcio fra amici, ed erano arrivati anche alcuni ragazzi che conoscevo solo di vista ed erano tristemente noti per essere quasi dei “delinquenti”: non avevano nulla di sbagliato loro, ma le loro famiglie non se ne curavano, lasciandogli giorni interi a vagare per le strade della città. Per sopravvivere erano costretti a rubare. Io, però, questo non lo sapevo all’epoca: per me erano solo dei normalissimi ragazzini che volevano giocare a calcio e il bello era proprio questo. Nessuno sapeva niente dell’altro, e ci andava benissimo così. Gli adulti, invece, sospettano sempre del prossimo e non vogliono che nessuno li disturbi quando giocano. Un po’ triste, no? Poi dipende: talvolta sono prevenuti, talvolta sono semplicemente sospettosi nel miglior senso del termine.
Allora, c’erano questi ragazzi che volevano giocare e io li avevo accolti. Erano divisi in due gruppi: i più grandi, che avevano circa la mia età, e i più piccolo, che avranno avuto massimo 10-11 anni. Questi ultimi erano presi di mira dei più grandi, e diciamo che non è che gli trattassero troppo bene. Ogni tanto partiva qualche calcio, e purtroppo io poteva farci ben poco. Cominciammo a passarci la palla, giusto per riscaldarci prima della partitella che avremmo giocato. I piccoli ovviamente non erano dei fenomeni, ma non erano neanche scarsissimi. I grandi, invece, dall’alto dei loro 160 centimetri si passavano la palla con colpi di tacco e con altre giocate “fighe”.
Dopo circa 20 minuti venne il momento di fare le squadre: io ero il capitano insieme a uno dei grandi, David (nome di fantasia, ndr), e dovevamo scegliere le rispettive squadre. Lui cominciò e ovviamente scelse i “grandi”, lasciando i piccoli a me. Non che ne fossi entusiasta eh, perché partire con una squadra obiettivamente più debole non è mai bello, figurarsi poi con ragazzini che non conosci nemmeno: però dissi a me che se avessi vinto sarebbe stato soprattutto merito mio, e questo in un certo senso mi tranquillizzò.
Eravamo in 4, compreso me: Viktor, Samuel e Daniel, fratello di David. Nessuno di loro giocava a calcio, e nemmeno io all’epoca, perché a causa della mia salute abbastanza cagionevole ero stato costretto a passare al tennis tavolo (non chiamatelo ping pong!). Ciononostante ero un discreto portiere, uno dei migliori che giocavano lì al campetto.
Prima di partire però ci prendemmo un po’ di tempo per abbozzare una tattica primitiva, e dato che ero il capitano decisi di giocare con un 1-2-1, in cui io, da portiere, giocavo anche da difensore centrale. Chiarì subito ai ragazzini cosa fare e come farlo, mettendo i due più bravi sull’esterno, mentre a quello più piccolino e meno bravo, Daniel, dissi di fare il numero 9. Doveva semplicemente tirare in porta e fare, nulla di più. Niente movimenti sull’esterno. Doveva solo tirare o al massimo passare la palla ai due esterni.
Andai un secondo fuori dal campo per prendere la bottiglietta d’acqua, bevvi un sorso per placare la mia sete e mi misi i guanti della Pro Touch, acquistati qualche mese prima. Devo dire la verità: erano terribili, ma non tanto per il design o per la qualità dei materiali, che comunque era più che discreta per quello che li avevo pagati, ma avevano lo strappo brevissimo, che quindi non fasciava assolutamente la mano. Benché li odiassi, erano comodi e non troppo grandi, per cui sembrava quasi di non averli.

La partita cominciò, con noi in possesso del pallone. Il triangolo che creavano gli esterni e la prima punta era molto utile in fase di costruzione, e io passai subito la palla sull’esterno, ma Samuel si trovò con due uomini addosso e fu costretto a passarmi la palla. Io la presi, fintai un rinvio lungo e la ripassai sempre a Samuel che si era finalmente ritrovato libero. Provò ad avanzare, ma venne subito ripreso da un altro dei nostri avversari, che lo spinse e lo fece sbattere sulla protezione in plastica. Tuttavia il nostro avversario non buttò fuori il pallone e continuò a giocare, arrivando agilmente fin quasi alla nostra porta. Daniel, però, aveva fatto un recupero straordinario fino alla nostra porta, e ora gli stava impedendo di andare avanti: lui, innervosito, provò a segnare, ma io ero preparato sul primo palo e respinsi la palla, prima di tuffarmi per prenderla. Quando gli avversari si erano allontanati e ci avevano lasciato respirare, io provai ad avanzare, alla portiere volante, ma appena mi accorsi che il mio sarebbe stato un assalto assolutamente insensato, quasi una sorta di guerra pirrica, ritornai suoi miei passi e passai la palla all’esterno. Viktor riuscì a dribblare il suo diretto marcatore e arrivò sul fondo: lì, appoggiatosi alle protezioni di plastica, si era girato verso l’esterno del campetto e ormai tutta l’azione sembrava finita, dato che due avversari accorrevano a marcarlo. Lui, però, in un momento di puro istinto calcistico, calciò con forza il pallone contro il muretto, e questo si ritrovo al centro dell’area di rigore, dove si trovava il “piccolino”. Bastava appoggiarla dolcemente, e il portiere non ci avrebbe potuto fare niente: li avevamo sorpresi, eccome se li avevamo sorpresi.
Tutto così romanzato, quasi quasi mi sembrava di essere in un episodio di Inazuma Eleven (i più giovani e spero anche i meno giovani capiranno). Il problema è che lì davanti non avevamo un Pippo Inzaghi, e infatti sbagliò clamorosamente, tirando la palla addosso al portiere.
La delusione fu tanta, ma anche la voglia di rivalsa. Il “piccolino” cominciò letteralmente a ringhiare sulle caviglie degli avversari, non lasciandoli nemmeno un momento. E grazie a lui non soffrivamo più come prima, perché pur non essendo chissà quanto forte i nostri avversari si preoccupavano di marcare lui e non gli esterni. Uno di loro, Samuel, segnò pochi minuti più tardi, con un bel tiro a giro.
I grandi, però, non ci stavano e continuavano ad usare la forza bruta per segnarci: io, però, da vero Mark Evans quale ero, riuscì a parare di tutto. Ad un certo punto, per esempio, David aveva ricevuto la palla dalla fascia destra e aveva calciato di prima intenzione: io ero stato preso in contro tempo e il tiro, preciso e forte, sembrava inesorabilmente destinato a finire in rete. Io, però, non ero tanto d’accordo, e con un riflesso felino mi tuffai alla mia sinistra per deviare il pallone. E ci riuscì.
Non potete capire (o forse gli ex-portieri sì) quanto fu importante per me quella parata. In pratica scoppiai in un urlo liberatorio e noi cominciammo ad attaccare sempre con maggiore convinzione. Samuel scartò un giocatore, poi un altro, fino a ritrovarsi alla fine del campetto senza alcuna possibilità di segnare: con la coda dell’occhio vide Viktor, a cui servì un filtrante delizioso che dovette solo appoggiare in rete.
La partita era nelle nostre mani, ora. I grandi non riuscivano più a starci dietro e il triangolo offensivo funzionava alla perfezione: anche il “piccolino” si faceva valere, mettendo l’anima in ogni singolo passaggio. Faceva fatica, era chiaro, poi i “grandi” non è che fossero proprio gentili con lui, anzi. Lo riempivano costantemente di insulti, lo spintonavano, ma lui rigava dritta, ignorandoli e giocando a calcio. Finché, come farebbe un Davide per finire Golia, segnò il gol decisivo: un gol banale, a porta vuota, ma pur sempre un gol.
I nostri avversari si guardarono attoniti. Noi, invece, eravamo felicissimi. Avevamo vinto ed io, un semplice ragazzino un po’ cicciottello, ero riuscito a tirare fuori da ognuno dei piccoli tutte le loro qualità. In quel momento, inutile dire, mi sentì un Guardiola, nonostante non avessi vinto niente.
Alla fine tutti ci separammo salutandoci come farebbero degli amici di vecchia data: è questa la magia del calcio.
Da quel giorno una partita del genere non l’ho più giocata. E i ragazzini non li ho più visti

  • Febbre a 40 e dormite clamorose

Qua torniamo ancora più indietro nel tempo. Ma torniamo veramente tanto indietro nel tempo, credo fino all’estate dei Mondiali in Sudafrica. Sì, quei mondiali in cui l’Italia perse con la Slovacchia e venne estromessa già a gironi. Quell’estate in cui un’Olanda stratosferica arrivò per l’ennesima volta a centimetri dal titolo mondiale. Quei mondiali di cui all’epoca me ne fregava più di quanto si potesse immaginare per un ragazzino di 7-8 anni. Perché, nonostante ai miei genitori non importi nulla del calcio, io me ne sono subito innamorato. Credo sia stato mio nonno a passarmi questa passione: il mio nonno che sta in Slovacchia, lontano ma sempre vicino. Lui, negli anni 50, era un calciatore quasi professionista. Era bravo, nulla da dire, e amava il calcio. Giocava per la squadra della fabbrica di calze dove lavorava, in cui era caporeparto. Aveva dovuto lasciare il mondo del calcio abbastanza presto, a circa 28 anni, perché si era sposato e aveva bisogno di stare più a casa, per aiutare la moglie. Le sue ginocchia già all’epoca non erano particolarmente in forma e quando arrivai io faceva abbastanza fatica a camminare, ma ciò non gli impediva di portarmi a fare lunghe passeggiate per i boschi che si trovavano a poche centinaia di metri dai nostri condomini dallo stile socialista. Passeggiate che tuttora ricordo con una felicità innata, che trascende dallo stesso ricordo materiala e si fa astrazione pura: non nego che una lacrima, scrivendo questo, mi abbia rigato il volto. Eppure ha fatto anche tanto altro, il nonno: mi ha sempre portato con lui in Chiesa, instillandomi una fede che forse mai avrei avuto. Non una fede come vorrebbe lui, forse, ma una fede a mio modo ce l’ho, e devo ringraziare lui se è così. Inoltre, il nonno, mi ha sempre fatto vedere insieme a lui le partite che guardava e mi ha sempre, ripeto sempre, portato a vedere le partite della squadra cittadina: talvolta vedevo in lui una stanchezza profonda e innata, ma lui non voleva darlo a vedere. Dovevo essere fiero, del nonno. E lo ero più di ogni altra cosa.

Quel giorno, però, il nonno non era direttamente presente, o almeno lo credo, perché forse mi stava guardando da una delle finestre che si affacciano sul campetto. Mi spiego meglio: prima ho parlato di un campetto sintetico, che si trova in una scuola oltre un fiume. Ora ci troviamo in una spazio diverso, distante circa 200 metri dall’altro luogo. Siamo in una sorta di piccolo parco di forma rettangolare, lungo circa 40 metri e largo 20. Sul lato lungo, da una parte c’è un piccolo marciapiede e una fila di condomini alti e colorati, dall’altra invece c’è una strada e un’altra fila di condomini alti e colorati. Condomini degli anni 70, colorati giusto per non rimandare agli anni del socialismo. Il mio è rosa, ma se ne trovano facilmente anche di verdi, azzurri e altri ancora non sono nemmeno dipinti. A lati corti troviamo rispettivamente un enorme quercia, alta ben più dei condomini, verde e forte, e un freddo e grigio marciapiede.
Un signore, che chiamerò Dimitri, aveva deciso di trasformare questo parchetto in una sorta di campetto da calcio, per permettere a tutti noi bambini di giocarci. Lui aveva tre figli, di cui uno della mia età, ed ero amico di tutti e tre. Giocavamo a calcio intere giornate, in quel campetto con le porte in legno. Quando parlo di porte in legno, però intendo vere e proprie porte costruite con tre tronchi assemblati, fissati al terreno con del cemento “homemade”. Insomma, un qualcosa di estremamente artigianale, ma a suo modo magico.

Non voglio però parlare di una partita qualsiasi, ma del torneo che si era svolto per inaugurare quel campetto. Probabilmente non riuscirò a rendere l’euforia che provavo, perché ero veramente felicissimo quel giorno. Mi sembrava di essere un calciatore professionista, con tutto il vicinato che ci guardava giocare. Ero tra i più piccoli nella mia squadra, ma tutto sommato non me la cavavo male in porta. Ovvio, non che fossi un fenomeno, ma avevo 7 anni. Purtroppo perdemmo la prima partita e anche la seconda. I nostri sogni di gloria si erano infranti anzitempo, ma ciò non aveva minimamente spento il fuoco che avvampava dentro di me. Poi, scusatemi, c’erano tre bottiglie di bevande oltremodo zuccherose e tre pacchetti di caramelle che attendevano i vincitori: chi non avrebbe fatto di tutto pur di accaparrarseli?
Ora ci aspettava l’ultima partita, che avrebbe deciso la nostra posizione in classifica. Potevamo finire o terzi o quarti, e in quest’ultima caso non avremmo vinto niente. Diciamo che era una prospettiva abbastanza infausta ma, detta sinceramente, non me ne fregava niente. Volevo solo giocare a calcio.
Forse il nonno mi stava guardando, forse no. Forse era fiero del suo piccolo calciatore, o forse stava imprecando per quanto fossi scarso. In ogni caso, perdemmo ancora una volta. Questa volta 4-0. C’era un ragazzo, di cui non mi ricordo il nome, alto, riccio e slanciato: era veramente fortissimo. Una tecnica straordinaria. Dopo quell’anno non lo rividi più, perché sua nonna, che abitava in uno di quei condomini, morì e lui non ebbe più alcun motivo per tornare in un posto che gli avrebbe solo riaperto le vecchie ferite.
In più aveva cominciato a piovere quando mancavano circa 20 minuti al termine della partita. Vi era una sola nuvola in cielo e tutt’attorno c’era un cielo di un blu intenso come gli occhi di un Husky. Eppure, come nei migliori film comici, da quella nuvola era scesa una pioggia impressionante, che ci aveva “mizzati” completamente. Mia madre, data la mia salute cagionevole, avrebbe voluto che mi fermassi, ma io sto ca...volo che mi sarei fermato a metà partita e anzi giocai con più foga.
A fine partita mi sentivo felice, benché fossi bagnato, ma già il pomeriggio stesso mi venne la febbre, che nella notte arrivò a circa 40 gradi. Bollivo, letteralmente. La ca...non c’è un termine decente per definirla, l’avevo fatta. E ne avrei pagato le conseguenze, stando in casa per più di due settimana, con la febbre che andava su e giù senza darmi tregua un attimo. Ciononostante ero felice. Anzi, ero veramente felicissimo di aver giocato quel torneo e di averlo perso. Mi ero divertito come poche volte in vita mia e mi ero sentito parte di una squadra, mentre il mio allenatore, il nonno, mi guardava dalla finestra.

Piccolo aneddoto di quell’estate che riguarda i Mondiali e a suo modo mi fa sorridere tuttora per la sua innocenza: era l’11 luglio 2010 e si stava giocando la finale fra Olanda e Spagna. Era stata una partita equilibrata fra due squadre tremendamente forti e personalmente tifavo per gli Oranjes. Non so perché, credo perché ero e sono milanista, e diciamo che i tre olandesi non si scordano facilmente. O magari è solo perché il gioco della Spagna era una versione ammodernata del totalvoetbal olandese.
Sta di fatto che l’avevo vista TUTTA fino al minuto 110. Aveva 7 anni, e questa si poteva dire un’impresa degna di essere decantata negli anni a venire. Purtroppo, a esattamente cinque minuti dal gol di Iniesta, mi addormentai. Fu un sonno profondo che durò appena 20 minuti, il tempo di svegliarsi e vedere la Spagna esultare. Fu una beffa, per me. E mio nonno scoppiò in una risata liberatoria.
Io, invece, tuttora non ho visto quel gol e non voglio vederlo.
L'immagine è una provocazione voluta, in cui io, giovanissimo, mi pongo come un nonno che racconta le sue avventure al nipote. Ecco, in questo caso rischia di essere che il nipote racconti le proprie avventure al "nonno".

Spero di dare un seguito a questa raccolta di racconti, ma al momento non mi vengono in mente altri ricordi degni di essere decantati. Eppure, fidatevi, li troverò.

Federicoz