La mia “carriera calcistica” iniziò a 9 anni, quando cominciai a giocare a calcio in uno società dilettantistica della mia provincia. Non ero un portento, tutt’altro, soprattutto perché avevo cominciato relativamente tardi e soprattutto ero un bambino paffuto, leggermente più robusto del normale. Per questo motivo facevo un po’ di fatica a correre e, nonostante fossi tutto sommato bravo con il pallone, decisi di giocare in porta. E devo dire che me la cavavo: spesso giocavo, ma mi allenavo poco o niente. Definire la mia salute cagionevole sarebbe usare un eufemismo, perché spesso mi assentavo da scuola anche per mesi: adesso, per fortuna, tutto si è sistemato, da quel punto di vista.

Giocavo, mi divertivo, ma mi ammalavo. Il mio corpo, come spesso accade, non voleva seguire la mia mente. Piano piano crescevo, rimanevo paffuto ma miglioravo in porta. Ero tra i migliori della mia città, fin quando, a 12 anni, non cambiai sport e passai al tennis tavolo.
Non fu una decisione facile, perché il calcio era lo sport che amavo. Per me il calcio era lo sport, l’unico che avrei voluto giocare per il resto della mia vita: inseguire quel pallone mi dava una carica incredibile e non avrei mai voluto smettere. Purtroppo la mia salute non la pensava come me, e fu proprio questa ad obbligarmi a passare ad uno sport “indoor”.

Uno sport che era completamente diverso rispetto al calcio, ma che mi ha aiutato dal punto di vista dei riflessi e dell’agilità. Anche qui non ero male: qualche soddisfazione, tra trofei e medaglie, me la sono pure tolta. Stavo per andare anche ai nazionali, ma i miei genitori, iperprotettivi e assolutamente riluttanti nel vedermi giocare ad alti livelli, bloccarono tutto. E vi chiederete, giustamente, cosa ve ne possa fregare. E avete anche ragione, anzi, fino ad adesso ho semplicemente descritto la mia vita fino ai 15 anni, quando terminai anche con il tennis tavolo.

Semplicemente volevo giocare a calcio, la mia vera passione, lo sport che amavo alla follia. La maglietta del Milan non mancava mai durante le partite, quando Sportitalia andava a mille nella mia camera. Sì, perché Sky, fino ad un anno fa, non l’’aevo, e quindi ripiegavo su trasmissioni che commentavano le partite, come appunto Sportitalia, o La7 Gold. Insomma, sennò come avrei fatto ad innamorarmi del mitico Tiziano Crudeli?

A 15 anni ricominciai a giocare a calcio. Il primo giorno di allenamento ero entrato nello spogliatoio, rivedendo un paio di ex-compagni di squadra: una strana nostalgia pervase il mio corpo, che si sentì investito da un’energia nuova, che non sentivo da troppo tempo. La magia del calcio.
Estrassi i guantoni della Reusch dallo zaino, indossai la maglietta e i pantaloncini della società e allacciai gli scarpini della Nike. A dirla tutta, mi sentivo proprio un bambino al suo primo giorno di calcio. Ed era una sensazione incredibile.
Cominciai ad allenarmi con costanza, senza ammalarmi, finalmente. Tutto sembrava perfetto, ed in effetti lo era: ero felice, finalmente, dopo anni passati a guardare al calcio come ad un qualcosa di proibito. Enorme era la mia voglia di rivalsa, e per fortuna non avevo il posto da titolare assicurato: un bel dualismo con l’altro portiere della squadra ha contraddistinto i miei primi mesi, spronandomi a fare sempre meglio, fino a metà novembre.
Mi stavo allenando con il preparatore dei portieri: stavo eseguendo dei tuffi a mezza altezza, quando, caduto per terra, feci una fatica incredibile a rialzarmi. Il problema non erano i miei muscoli: infatti non avevo assolutamente nessun crampo. Nemmeno le ossa del ginocchio: nessun crack o qualche tipo di instabilità. Semplicemente, qualcosa era andato storto nel mio ginocchio sinistro. Sentivo che non rispondeva, ma faceva un male indescrivibile, come se qualcuno avesse messo dei chiodi fra la mia rotula e l’interno del ginocchio. Nulla che avessi mai provato prima.
Cercai di continuare con l’esercizio, ma era tutto inutile: il ginocchio non ce la faceva, nonostante io volessi che ce la facesse. Dovetti uscire dal campo e sedermi, da quanto faceva male. A dirla tutta, stavo per scoppiare in lacrime. E forse, inconsciamente, qualche gocciolina d’acqua avrà scavato il mio viso arrossato dallo sforzo e dal freddo.
Un dolore lancinante mi impediva di piegarmi anche per raccogliere una semplice monetina caduta. Arrivai a casa e spalmai nel punto preciso del dolore del gel, ma nulla, non passava. “Cazzo, passa!”, furono le parole che sussurrai con rabbia al mio maledetto ginocchio.
Pensai che sarebbe stato un male passeggero, qualcosa che sarebbe con un po’ di riposo, ma dopo quasi due mesi, in cui l’unico mio esercizio fisico era stato svolto durante l’ora di educazione fisica a scuola, tutto era esattamente come prima. Anzi, era anche peggiorato: ora non solo non potevo nemmeno piegarmi, ma faceva male anche quando camminavo. Una male che, ripeto, era indescrivibile.
Quindi andai dal mio medico di base, che mi disse di riposarmi ancora, dicendo che probabilmente era un’infiammazione, o forse solo una botta.
Io ero frustrato. Non riuscivo a capacitarmi di un dolore tante forte e immotivato: domande inutili e senza risposta albergavano negli antri della mia mente, che ormai cercava ogni tipo di giustificazione possibile per questo male apparentemente senza via d’uscita.
“Se non è passato fino ad ora, passerà mai?” continuavo a ripetermi. Una domanda veramente sciocca, ma per me non era così: stavo giocando una partita con qualcosa che non potevo controllare. Stavo vedendo il mio sport del cuore passarmi davanti, come se fosse una strada parallela, che puoi perfettamente vedere, ammirare, ma non toccare. Straziante, per chi ama il calcio.

Ma fino a febbraio, al quarto mese di “convalescenza”, la mia frustrazione non aveva ancora raggiunto i livelli di rabbia che poi avrebbe. Decisi che era ora di ricominciare ad allenarmi: non ce la facevo più a stare seduto in casa senza fare nulla, era più forte di me. Come se dentro di me vi fosse una pulsione innata che mi portava al calcio. Il mio ginocchio si sarebbe adeguato, dicevo. Nessuno aveva osteggiato questa mia scelta, ritenendo che il mio male sarebbe passato.
Purtroppo dovetti ben presto decidere di cambiare la mia posizione in campo: in porta servono riflessi pronti e ginocchia sveglie. Quelle che purtroppo non avevo più. Decisi quindi di giocare da terzino, ruolo nel quale mi vedevo abbastanza bene.
In campo, com’era prevedibile, apparivo spaesato, ma a livello atletico non ero nemmeno messo troppo male. Giocai una manciata di minuti in un paio di partite, ma il dolore rimaneva identico. Non riuscivo nemmeno a camminare dopo un allenamento, nonostante fossi soddisfatto di me stesso.
Le notti passavano tristi: la sera e la mia ragazza erano le confidenti delle mie paura più intime. Avevo paura di dover smettere, un giorno. Di dover definitivamente abbandonare lo sport che amavo e che tuttora amo.

Quindi un giorno decisi che di agire: convinsi la mia famiglia a prenotare una visita per fare dei raggi al ginocchio sinistro, sicurissimo di trovare la causa di quei mali e di porvi fine. O almeno sicuro di mettere pace alla mia irrequietezza, che agitava il mio animo come una tempesta agita il calmo oceano. Mi sbagliavo.
Dopo circa tre settimane dalla visita arrivarono i risultati, che non avevano trovato assolutamente nulla. Il castello di carte che mi ero costruito, tutte le mie aspettative riposte in una visita era andate distrutte, frantumate come un gioiello di vetro che cade per terra.
Ma non tutto era perduto, rimaneva ancora una possibilità: i raggi non riescono a “vedere” le lesioni cartilaginee o muscolari. E il ginocchio è formato in larga parte proprio da muscoli, tendini e cartilagini.
Questo mi diede un po’ di fiducia. “Almeno non mi sono rotto un qualche ossicino, quelli sono ben più bastardi”, mi dicevo, ben sapendo che le complicazioni a livello muscolare erano ben più rognose. Ma si sa, l’essere umano deve vivere nella convinzione che andrà tutto bene, altrimenti, che vita è?
Quindi andai a fare questa ulteriore visita: una risonanza magnetica. Mezz’oretta nel tubo e via, mi sono detto. Adesso tutto andrà per il meglio. Nonostante tutti mi avessero avvertito che sarebbe stato terribile e claustrofobico, non sentii paura. Era una sensazione strana, lo ammetto, ma quasi piacevole. Ovvio, avrei preferito non avere nessun problema e non trovarmi lì, ma già che c’ero me lo sarei fatto piacere. Uscito dal “tubo” mi vestii, salutai il dottore e me ne tornai a casa.
Erano le sei, più o meno, e il nero buio aveva cominciato a prendere il posto dell’azzurro cielo. La nostra macchina, una Toyota familiare, sfrecciava (per modo di dire) sulla strada di Loppio, in Trentino Alto Adige, mentre nella mia mente, con lo sguardo fisso nel finestrino, riflettevo su quello che sarebbe potuto essere: e se nemmeno questo esame avesse trovato qualcosa? Cosa diavolo avrei fatto?

Passò qualche settimana, finché l’esame non arrivò e andammo dal ortopedico, che analizzò attentamente il referto. In quel momento la mia ansia era salita al massimo e ormai speravo solo in una risposta. Una risposta che avrebbe risolto almeno i miei dubbi.
La sua risposta fu tagliente come una lama appena forgiata. “Non hai nulla”, disse. “Solo una gonalgia da sovraccarico, che verrà e se ne andrà a seconda dei momenti. Dovrai portare una ginocchiera prima di compiere quello sforzo”. Inizialmente quelle parole mi sembrarono decise: insomma, avevo quello e avrei dovuto agire per limitare quello. Forse avrei dovuto riposarmi ancora ma poi sarebbe tutto passato, e il mio ginocchio sarebbe tornato quello di prima.
Purtroppo non era così: non ci può essere nulla di più generalizzato di una gonalgia da sovraccarico. In pratica soffrivo di mal di ginocchio perché mi ero sforzato troppo, benché non mi non l’avessi mai fatto in termini assoluti. In rapporto alle mie capacità forse sì, ma non credevo e tuttora non credo che quello che ho fatto fosse sbagliato o esagerato. Non ero di certo un professionista ed era già una fortuna se mi allenavo due volte in una settimana.
Da quel giorno, in pratica, avrei dovuto convivere per tutta la mia vita con un dolore atroce al ginocchio sinistro. Ovvio, non era sempre presente e non sempre aveva la stessa forza: talvolta, dopo quella maledetta visita, mi svegliavo che sembrava tutto normalissimo, riuscivo tranquillamente a correre e fare tutto ciò che volevo. Il giorno dopo, magari, era la stessa storia. In quei momenti straripavo di gioia, di felicità, come se un qualche miracolo avesse guarito il mio male. E questo poteva andare avanti per giorni, fin quando, una mattina, non mi sarei svegliato in preda a dolori lancinanti al ginocchio: un dolore talvolta articolare, talvolta pungente, come se ci fosse un chiodo conficcato dietro alla mia rotula. Eppure non era nulla, mi dicevo. O meglio, ero costretto a dirmelo, se non volevo sprofondare in una scura malinconia.

In quei stessi mesi cominciai a scrivere su VivoPerLei: purtroppo, o per fortuna, potevo partecipare solo qualche volta agli allenamenti, e quelle volte ero veramente felice, benché dopo, a casa, ne pagassi ampiamente le conseguenze. Un gesto sconsiderato, ma l’ortopedico m’aveva detto che non sarebbe più passato, quindi perché aspettare un qualcosa che non sarebbe arrivato mai?
Irresponsabile, mi definirei. Molto irresponsabile. Infantile, quasi. Ma io dal calcio non riuscivo a staccarmi. Non sempre eh: talvolta non avevo proprio voglia di andare a correre sul campo, e allora me stavo a casa. Quando invece volevo giocare, dovevo giocare: era una questione di principio: se non andavo ad allenamento, ero giù tutta la serata, perché in un semplice pallone riuscivo ad ammirare tutte le mie speranze. Vi riponevo tutti i miei pensieri negativi, e li calciavo lontano, ad infilarsi sotto al sette.

Comunque, scrivevo su VivoPerLei. I primi articoli andarono benino tutto sommato, per essere le prime volte. Scrivevo del Milan, di Suso, di Calhanoglu e del Borussia Dortmund. Insomma, un giornalista provetto, no? Poi sono diventato quello che sono oggi: talvolta un indagatore della mente calcistica, talvolta un cantastorie, talvolta un analista... ma sono rimasto un sognatore, quello sì.
E sogno tuttora che il mio maledetto ginocchio guarisca. E continuerò a sognare.

Ma torniamo indietro: mi allenavo ogni tanto, giocavo qualche partita, ma verso la fine di aprile fui costretto a smettere perché non ce la facevo più. Intanto il dolore si era diffuso anche il ginocchio destro: non so come, non so perché, ma era così. Anche solo a passare la palla il dolore si faceva ingestibile, infondendosi in tutta la gamba, fino a costringermi a stare seduto. Eppure anche così faceva un male terribile.

Ciò che però più mi frustrava era il comportamento delle persone intorno a me: nessuno sembrava comprendere quanto stessi male, tranne la mia ragazza. La maggior parte dei miei compagni di squadra pensavano che mi inventassi tutto per attirare l’attenzione, o che fossi semplicemente uno scarsone che aveva bisogno di una scusa per giustificarsi. Dopotutto, entrando nella mente di un adolescente medio, li capisco: uno che aveva ricominciato a giocare dopo tanto tempo, che non era sto grande fenomeno e che aveva “un male da sovraccarico” alle ginocchia era ben poco credibile. Probabilmente se mi fossi rotto il crociato avrebbero anche detto “vuoi che ti venga a trovare in ospedale?”. Così, invece, a nessuno importava, perché io non avevo assolutamente nulla di lampante.
“Mettiti il gel!”. Sì, come non l’avessi già fatto. “Usa la ginocchiera!”. Sì, come se funzionasse. “Smetti di giocare!”. Sì, troppo facile da dirsi quando tu potrai continuare a rincorrere quella dannata palla e io invece dovrò sedermi, stanco, su una fredda sedia.
In questi momenti imparai una cosa: mai giudicare una persona da ciò che ti sembra avere, ma immedesimati in lei e comprendi ciò che sta provando. Ascoltala per ore, nel caso ci fosse il bisogno. Ma non pensare “a ma sta roba è una cazzata”, perché ogni persona è diversa, e per questo il mondo è un luogo meraviglioso e allo stesso tempo estremamente complesso in cui vivere.
Pure il mio allenatore ormai non mi credeva più, quando rimanevo a casa. Ero diventato quello con il mal di ginocchia, quello da prendere per il culo. E io, intanto, mi sentivo impotente, perché non poteva dimostrare nulla.

 

Il tempo passava, i pensieri gli stessi.
“Cazzo, ma vuoi passare?”. Di fatto avrei dovuto smettere, benché non volessi. Quindi arrivò l’estate: niente scuola, niente pensieri, solo fidanzata e calcio, mi dissi. La seconda opzione, nonostante tutto, non la volevo scartare. E perseveravo. Cercavo di non curarmi del pensiero altrui, ma è complicato in una società che in pratica si rifà all’arcinota “etica della vergogna”: tu devi dimostrare agli altri che vali, altrimenti non vali. Nella nostra società, concretista fino ai massimi limiti della razionalità umana, devi sempre dimostrare qualcosa. La fiducia, o la compassione, sono “cose vecchie”.
Verso la fine di luglio, partimmo per la Slovacchia e il viaggio in macchina fu un disastro: il ginocchio, non potendosi distendere, si bloccava e ogni volta che ci fermavamo ad una stazione di servizio dovevo “sbloccarlo” come se fosse un meccanismo poco oleato. Arrivati a casa, potei finalmente distendermi. E non sapete che gioia! Gioia passeggera, però, perché nelle due settimana successive continuò a dolermi come poche volte aveva fatto. Maledissi me stesso e il mio fisico. Non era possibile, mi ripetevo. Perché a me?
Ciononostante, appena potei, cominciai a correre e ad allenarmi di nuovo. Volevo tornare in forma, per dimostrare, in Italia, che non ero uno scarsone da nulla. Giocai alcune partite con la squadra della mia città, là, nella lontana Slovacchia, e tutto sembrò essere sistemato. Le ginocchia non facevano più male, o meglio, cercavo di stringere i denti e non sentire il dolore. Sentivo di aver indossato un paio di ali, come Icaro. Sentivo di poter volare sempre più in alto. Me lo sentivo, semplicemente. Purtroppo, come nel mito greco, ero destinato a schiantarmi. Di nuovo, con ancora più forza. Eppure mi sarei rialzato. Sono uno testardo, dopotutto. Il pensiero delle altre persone, le mie ginocchia, le mie paure non possono scalfire i miei sogni e la mia speranza.
Eppure, un giorno, quel maledetto giorno in cui capirò che le mie ginocchia vanno preservate, metterò da parte i sogni e penserò alla mia salute.
“Rosicherò”, questo sì. Mi roderà moltissimo vedere altre persone stare benissimo e non fare nulla, mentre io, che vorrei fare qualsiasi cosa, dovrò stare fermo. Sarà frustrante, mi dovrò farlo.
Ritornai in Italia e ricominciai ad allenarmi, questa volta in campo. Ero diventato anche bravino, ma il dolore, quel cazzo di dolore, non se ne andava. E tuttora non se n’è andato.

Oggi, 28 aprile, fa un male terribile il ginocchio destro, mentre il sinistro se ne sta docile da una parte. Mi alzo per prendere una mela, ma per sbaglio faccio cadere una matita. Purtroppo non riesco nemmeno a piegarmi “normalmente” e devo fare una sorta di flessione per prenderla. Insomma, non proprio il massimo. Anzi, proprio per nulla il massimo.
Vorrei solo poter tornare indietro e cambiare ciò che ho fatto di sbagliato, ma è impossibile.
Il dolore, in sé, non è dei peggiori in assoluto. Ciò che è frustrante è il pensiero comune delle persone, che non capiscono ciò che tu hai perché non è completamente invalidante: ripeto, se mi fossi il crociato ora tutti mi crederebbero. Ma visto che non è così, io sto bene. Eppure non sto bene ed è frustrante. Mi sento vicino a tutti quei calciatori che sono stati incolpati di essere scarsi solo perché non avevano un fisico che riusciva a stare dietro al pensiero. Eppure, vorrei non sentirmi vicino a loro. Vorrei stare bene.
Fa male. Prima di tutto al cuore, e poi alle ginocchia.

 

Ringrazio chiunque si sia preso la briga di leggere questo racconto autobiografico lunghissimo, ma sentivo di dover raccontare la mia esperienza nel mondo del calcio. Magari sarò di conforto ad altre persone, altri giovani, altri meno giovani.
I termini volgari usati rispecchiano ciò che dissi, perciò non li ho censurati.
Grazie a tutti, un abbraccio

Federicoz