Consiglio di leggere qui la prima parte a chi non ne avesse avuto la possibilità. Buona lettura!

Ritorniamo al nostro Garrincha: ci troviamo esattamente nell’anno 1958, subito dopo la grande rivincita del calcio brasiliano su tutto il resto del mondo. Tutti ammirano la Selecao, capace di dominare le più organizzate formazioni europee delegando tutta la “tattica” ai giocatori talentuosi.
Il magico “passero” era ormai nel pieno della sua maturità calcistica e proprio in quegli anni nacquero alcuni fenomeni che avrebbero avvolto la sua carriera di un manto quasi leggendario: si diceva che il grido “olè” fosse nato durante un’amichevole fra Botafogo e River Plate, in cui Garrincha aveva dribblato ripetutamente il terzino avversario, scaldando a tal punti i tifosi presenti alla stadio da far loro intonare il coro che oggi è un tutt’uno con il gioco del calcio. Nel 1960 poi si rese protagonista di un gesto quasi anacronistico per l’epoca: un giocatore avversario aveva avuto uno stiramento muscolare e si era accasciato per terra in preda al dolore e Garrincha, invece di proseguire a giocare come se niente fosse accaduto (e come farebbero molti giocatori tuttora), calciò il pallone fuori dal rettangolo di gioco per permettere ai medici di soccorrerlo. A dimostrazione che la sportività non va mai di pari passo con l’intelligenza di una persona, perché le emozioni le possono provare. E forse il “passero”, con la sua mente da bambino di quattro anni, aveva conservato ciò che crescendo molti di noi perdono: la purezza, la capacità di non vedere solo il brutto in una cosa. Insomma, il calcio è un gioco, bisogna divertirsi, bisogna pure vincere. Ma se si vince senza divertirsi, che gioco è? È solo un lavoro. Garrincha invece si divertiva, e soprattutto voleva che anche gli altri si divertissero, compresi i suoi avversari. Un po’ infantile come ragionamento, eppure dovrebbe stare alla base della cultura dello sport. Purtroppo così non è nemmeno oggi.

Ma gli anni che vanno dal mondiale “ingrato” al mondiale “sin troppo grato” non sono stati solo “rose e fiori”: nel 1959 l’ala brasiliana si sarebbe dovuta sottoporre ad un’importante intervento chirurgico alle ginocchia, che avrebbe finalmente risolto i problemi che affliggevano la cartilagine. Alla fine, però, Garrincha non si presentò nemmeno, convinto dalla “sciamana” del Pau Grande, che gli aveva predetto un futuro senza calcio. Qua, invece, il forte senso mistico-religioso e la mancanza di senso critico di fatto preparano il terreno ideale per un finale di carriera ai limiti del drammatico, in cui l’ala brasiliana dovette giocare ricorrendo a frequentissime infiltrazioni di cortisone, che non fecero altro che indebolire le sue ginocchia già distrutte.

Nel 1962, poi, alla vigilia del match che avrebbe deciso il campionato carioca, Garrincha decise di protestare e di non scendere in campo perché pretendeva uno stipendio più alto: un comportamento che oggi sarebbe ampiamente criticato da ognuno di noi, per quanto legittimo possa essere. Alla fine, l’ala venne convinta da degli amici e scese in campo, propiziando tutte e tre le reti della propria squadra e facendo così vincere al Botafogo il suo secondo campionato carioca di fila. A dimostrazione di come la sua squadra non poteva fare proprio a meno della fantasia del “passero”, che contestualmente a questi eventi cominciò a bere sempre con maggiore frequenza. La cachaca ormai si poteva definire un suo pensiero fisso, e non vi era serata, nemmeno la vigilia della partita più importante, in cui ne faceva a meno. Stesso discorso per le amate sigarette e per le ancor più amate donne.

L’apice del declino
Ciononostante fu proprio questo “uomo sregolato e senza nessuna apparente morale” a rendere il Botafogo una delle squadre più forti del mondo intero, portando a casa trofei su trofei, e non a caso per il Mondiale del 1962, nonostante Garrincha fosse ingrassato parecchio e la sua forma fisica non si potesse dire ineccepibile, venne convocato. E anche questa volta rischiò di mandare tutto in fumo: quando tutti i giocatori si erano sistemati in hotel, lui risultava intracciabile. Tutti si chiedevano dove fosse finito e l’opinione pubblica cominciò a sospettare il peggio, ma così non era. Garrincha era semplicemente andato a giocare una partitella con i suoi amici, fregandosene di tutte le speranze che la sua gente riponeva in lui. O meglio, forse non è che non gliene fregasse, ma per lui, in quel determinato momento, era più importante stare con i propri amici, condividere un momento di pausa dalla frenetica vita del calciatore. Insomma, ritornare per un poco ad essere un uomo normale era e rimane tuttora il sogno di quasi tutti i personaggi famosi.
Infatti, come pensate che lo trovarono i membri dello staff inviati per recuperarlo? Mezzo ubriaco, con una bottiglia di cachaca tutta da finire. Garrincha non smentiva mai sé stesso, perché voleva rimanere sé stesso. Ma alla fine, nemmeno contro-voglia ma proprio contro-natura, andò in Cile con tutto il resto della squadra.

Il Brasile, per la prima volta nella sua storia calcistica, si presentò come campione del mondo in carica. Le aspettative erano altissime, come altissima era la qualità di tutta la rosa del Brasile, una delle più “anziane” di tutto il torneo: i giocatori erano in larghissima parte gli stessi del grandioso mondiale precedente, ma la ginga era stata potenziata dalla tattica e soprattutto dalla reciproca conoscenza che ogni giocatore aveva maturato nei confronti degli altri.
Garrincha arrivò in Brasile con la nomea del dribblomane ostinato e prevedibile, ma imbattibile, e se ne andò con il titolo di “angelo dai piedi storti”. Nessuno nella storia dei mondiali, tranne Maradona, seppe condurre con così tanta abilità la propria squadra alla vittoria.

Ma ritorniamo al principio: il Brasile si ritrovò in un girone decisamente complesso, con Cecoslovacchia, Spagna e Messico. I cecoslovacchi, in particolare, erano maturati molto rispetto al mondiale precedente e potevano vantarsi di avere in rosa uno dei migliori centrocampisti al mondo, Masopust.
Nella prima partita del girone la Selecao affrontò il Messico, battendolo per 2-0 con le reti di Zagallo e del fenomeno Pelè, che era passato dall’essere un “signor nessuno” all’essere considerato il giocatore migliore del suo Paese. Ma il sogno di un secondo mondiale da protagonista si dovette interrompere terribilmente presto, perché già alla seconda partita, con la Cecoslovacchia, Pelè si stirò il muscolo e dovette stare fuori fino alla fine del torneo. Un colpo che fece tremare le gambe ad un’intera nazione, che ora si trovava senza una guida a cui aggrapparsi: Garrincha, però, non la pensava allo stesso modo e prese in mano la situazione. Quel giocatore “analfabeta, storpio e leggermente in sovrappeso” era diventato un fenomeno assoluto, ma pochi lo consideravano veramente tale. Nella mente della maggior parte delle persone era rimasta impressa un’ala capace di far benissimo una sola finta, che riusciva sempre grazie alla sua impressionante esplosività, ma in Cile si presentò un giocatore con un ampissimo bagaglio tecnico e soprattutto dotato di un tiro a effetto senza precedenti. Merito delle sue gambe “storte”. Un difetto che l’avrebbe consegnato alla storia come l’ala destra più forte della storia.
Nella partita decisiva del girone, contro la Spagna, Garrincha, quando il risultato era fisso sull’1-1, diede un assaggio di quello che sarebbe stato il torneo migliore della sua vita: Didi lanciò lungo per l’ala del Botafogo, che scattò palla al piede, dribblò tre avversari e arrivò sul fondo. Un’azione alla Garrincha, potremmo dire. Da qui, proprio come contro la Svezia quattro anni prima, crossò e il pallone venne messo in rete da Amarildo. Il Brasile era passato e un’intera nazione poteva tirare un sospiro di sollievo, ma il “passero” non aveva assolutamente finito di deliziare il pubblico.

I quarti di finale vedevano opposte le “nazioni fondatrici” del calcio: l’Inghilterra e il Brasile. Da un lato i classici gentiluomini che bevevano il tè delle cinque e avevano fra i loro hobby una partita a golf (ovviamente si steoreotipizza!); dall’altra dei “matti”che ogni giorno si ubriacavano e ballavano a ritmo di samba. Da un lato un calcio troppo elegante per essere vero, dall’altra un calcio così bello da non sembrare vero. In questo scontro fra due mondi completamente diversi ebbe la meglio la fantasia dei brasiliani: al 30esimo minuto si portarono in avanti con un gol di Garrincha. E detta così, cosa ci si può aspettare se non una delle sue micidiali serpentine concluse con un potente tiro? Beh, se è questo che pensate, siete nel torto. Quel gol lo segnò di testa, su calcio d’angolo, con un inserimento degno del miglior attaccante, andando a sfatare tutti i miti che si erano costruiti sulla sua figura quasi leggendaria. Gli inglesi riuscirono a pareggiare, ma già al 53esimo Vavà aveva segnato il gol del 2-1, dopo che il portiere avversario non aveva trattenuto un potente calcio di punizione del “passero”. La partita era saldamente nelle mani dei sudamericani e Garrincha volle avere l’onore di finire quel “corpo morto”, come un gladiatore che ne uccide un altro. Quindi, trovandosi in una posizione insolita, l’ala prese palla e, invece di cominciare a dribblare per avvicinarsi il più possibile alla porta, tirò a giro cercando il secondo palo: il portiere provò ad arrivarci, volò quasi all’incrocio, ma alla fine la palla si insaccò e tutto il Brasile poté esultare sfrenatamente. Lo storpio li stava conducendo in finale, questa volta senza che Pelè ne potesse oscurare la stella. O meglio, la cometa: perché quel mondiale rappresentò per Garrincha l’apice di una carriera che da quel momento sarebbe stata uno sprofondamento continuo verso le tenebre della depressione. In un tempo relativamente breve l’ala destra più forte di tutti i tempi, che nessuno era riuscito a fermare, sarebbe stata brutalmente fermata dall’alcol.

In Cile, però, non si intravedevano i segni di un possibile decadimento: tutto lasciava presagire il meglio. Un finale di carriera brillante in cui guadagnare qualche soldo in più, magari in Europa o negli Stati Uniti, benché nella testa di Garrincha, probabilmente, quei paesi rappresentavano un mondo di cui non avrebbe mai voluto far parte. E poi già stava pensando alla semifinale contro i padroni di casa, quindi era meglio non turbarlo con notizie che avrebbero potuto fargli completamente perdere la testa.

Ecco, la semifinale fra le due superpotenze sudamericane era tra le partite più attese di tutto il torneo: i cileni erano stati protagonisti di un mondiale sicuramente sopra le aspettative, soprattutto grazie ad alcune “sviste” arbitrali molto dubbie, che erano costate l’eliminazione all’Italia e all’Unione Sovietica, due “squadroni”. Qualche favoritismo nei confronti dei padroni di casa c’era stato, ma c’erano anche dei meriti, come il gioco duro e spregiudicato e la capacità della squadra di mettere nelle migliori condizioni possibili gli attaccanti Ramirez e Sanchez. Dall’altra parte c’erano i brasiliani, che non avevano sicuramente bisogno di presentazioni. L’Estadio Nacional era strapieno di tifosi cileni entuasiasti. Giustamente tutti si aspettavano una finale “caliente”. E così fu.

Al nono minuto la infiammò Garrincha, con un vero e proprio golazo di mancino, uno dei pochi a dire il vero segnati con quel piede: dopo un tentativo di rovesciata del suo compagno di squadra la palla era finita al limite dell’area di rigore, e il “passero” non ci aveva pensato su due volte a insaccarla all’incrocio dei pali, battendo il portiere sul suo stesso palo. 20 minuti più tardi l’ala segnò il secondo gol della sua squadra, ancora una volta di testa, sempre su calcio d’angolo di Zagallo e sempre sul primo palo a seguito di un gran taglio. Il Cile però non si arrese e riuscì ad accorciare, fino a quando il solito Vavà non riportò a due i gol di vantaggio della Selecao, ma per poco, perché al 61esimo Sanchez da calcio di rigore rimise tutto in bilico. Lo stadio si infiammò di colpo, tutti i tifosi cominciarono ad inveire pesantemente contro i calciatori brasiliani e l’aria si fece quasi irrespirabile. La tensione alle stelle, ma al 78esimo ci pensò Vavà con un altro gol a spegnere i bollenti animi dei tifosi, ma non dei giocatori cileni, che anzi cominciarono a giocare ancora più sporco. All’80esimo venne espulso Landa, mentre all’83esimo, dopo una partita fatta di calci e insulti, Garrincha diede un calcio a Rojas e dovette andare negli spogliatoi anzitempo.
E fu questo che scatenò il finimondo. I tifosi brasiliani, nonostante avessero vinto e fossero approdati in finale, erano disperati. L’allenatore non ne parliamo. Insomma, non c’era una persona in tutto il Brasile che non fosse in ansia per la finale o che non gridasse all’ingiustizia. Quasi quasi si rischiava il disastro diplomatico.
Intervenne il primo ministro brasiliano, difendendo strenuamente il suo giocatore e affermando che fossero stati gli avversari a suscitare una reazione così esagerata. Infatti Garrincha era sempre stato “un ragazzo d’oro, che non aveva mai fatto male a nessuno e che si era sempre dimostrato attento al fair-play”. Insomma, le solite moine avvocatesche, che pretendono di “scarcerare” qualcuno anche quando il crimine è già stato commesso. Non che sai dalla parte dei cileni, anzi, perché personalmente ritengo che se qualcuno ti insulta e ti riempie di calci “di nascosto” per tutta la gara, tu hai pur diritto, ad un certo punto, di “vendicarti”. Con ciò non intendo dire che sia stato sportivamente corretto né moralmente giusto, ma è stato sicuramente comprensibile e non so quanti di noi non l’avrebbero fatto. Però, se l’arbitro espelle qualcuno, non può considerare tutte le variabili che stanno dietro ad un determinato episodio. E quindi in quel caso l’espulsione è giusta, niente da dire. Se oggi una società facesse così appellandosi alla “bontà” del proprio giocatore, finirebbe su tutti i giornali satirici del mondo e diventerebbe un vero e proprio meme, ma di quelli ultravirali. Sottolineo il fatto che nessuna delle precedenti squalifiche era stata revocata, per cui quello che fece lo stato brasiliano fu un vero e proprio atto di forza, o di giustizia, o di moviola post-partita fortemente condizionata. Chiamate l’episodio come preferite.
Eppure i brasiliani andarono persino dalla federazione peruviana per chiedere che quella squalifica fosse tolta, per non fare un torto “ai brasiliani e al calcio”. Alla fine (e ingiustamente), la squalifica fu revocata e Garrincha poté scendere in campo, nonostante non stesse benissimo.
La sua prestazione non fu determinante come altre volte, ma il Brasile, dopo l’iniziale spavento per il gol di Masopust, riuscì a vincere la sua seconda Coppa del Mondo di fila, con le reti Amarildo, Zito e del sempre presente Vavà. Il “passero” mise spesso in difficoltà la difesa avversaria e, anche se in quella partita non segnò, venne eletto miglior giocatore del torneo. Un riconoscimento straordinario per un uomo che fino a 10 anni prima avrebbe dovuto finire la sua carriera nel calcio per dedicarsi ad un lavoro per cui non aveva la minima passione. Per la prima volta nella sua carriera, a livello internazionale, venne esaltata la sua figura di trascinatore tecnico e, finalmente, tutti i suoi difetti psicologici e fisici finirono nel dimenticatoio, ma non del tutto, perché il soprannome “angelo dai piedi storti” derivava proprio da quelli, che però finirono per rivelarsi un vantaggio essenziale.
Garrincha si trovava all’apice ed era liberissimo di scegliere il suo destino. Contro la volontà di tutti, e forse anche contro la sua, decise di autodistruggersi.

Adesso voglio spiegare il perché del titolo di questo paragrafo. Apice del declino... beh, non è semplice definire un mondiale così straordinario per Garrincha come l’inizio di un qualcosa di terribilmente straordinario come il suo declino. Eppure credo che sia il titolo migliore.
In quegli anni il Brasile stava cercando di ripartire, economicamente e soprattutto calcisticamente. Erano i campioni del mondo in carica, con una delle migliori rose del mondo. Nessuno avrebbe potuto fermare il loro attacco e pochi erano persino quelli capaci di battere il portiere Gilmar. In più, in tutte le partite in cui la Selecao era scesa in campo con Garrincha non aveva mai perso. 40 partite senza sconfitta, numeri straordinari, senza precedenti, che facevano capire l’importanza dell’ala destra in una squadra “strapiena” di giocatori tecnicamente eccelsi.

Un’importanza che non gli era mai pesata più di tanto, o almeno non l’aveva fatta trasparire nel suo gioco, sempre libero da tutti i vincoli tattici e fisici che hanno rovinato centinaia e centinaia di giocatori in Italia. Basta vedere lo stesso Sensi, che io considero uno dei talenti più cristallini degli ultimi anni: perché di giocatori così, ad alti livelli, c’è praticamente solo lui? Perché quella tipologia di giocatori spesso non è coltivata nelle giovanili italiane, perché non è fisicamente prestante. Si sta assistendo sempre di più ad un fenomeno che definirei “atletismo tecnico” che prevede il “reclutamento” di giocatori sia forti fisicamente che bravi tecnicamente. In pratica, giocatori che sanno fare bene molte cose, ma non eccellono in nulla.

Benché giocasse in un’epoca e in ruolo ben diversi, Garrincha rappresenta il modello di calciatore che non dovrebbe nemmeno diventare un calciatore, figuriamoci un campione del mondo. Potremmo definirlo una figura “antifisica”, che va in contrasto con “la legge del più forte” che “impera” nel mondo del calcio. Un giocatore capace di trasformare i suoi incurabili difetti in impareggiabili qualità. Ora, quanti GRANDI del calcio sono stati capaci di fare questo? Ok, Quaresma, se vogliamo definirlo un grande (e sarebbe potuto pure diventarlo), aveva i piedi leggermente “storti” e ha inventato la trivela, ma quanto è stata efficace? Il “passero” si è rivelato efficacissimo e ha vinto tutto quello che poteva vincere, pur dribblando troppo e soprattutto troppo bene.

La fragilità del talento
Fino ad adesso ho descritto il giocatore perfetto, capace di elevare la sua condizione sociale diventando l’idolo delle masse, la “alegria do povo”. In altre parole, il self made man per eccellenza.
Dentro di sé, però, cominciavano a prendere vita i primi spettri che lo avrebbero brutalmente fatto finire nel dimenticatoio calcistico: innanzitutto, nei quattro anni successivi al mondiale delle meraviglie la sua condizione fisica peggiorò ulteriormente, fino a che non fu costretto a farsi asportare i menischi. Anche se a dire il vero fu convinto, non costretto, perché il medico della sua squadra gli aveva detto che un’operazione con successiva riabilitazione sarebbe bastata. Ma Garrincha non ne voleva sapere di fare riabilitazione: lui concepiva soltanto il bere e il calcio, null’altro. Quindi si fece operare dal medico di un’altra società e venne multato dal Botafogo. L’operazione non andò come previsto e fu costretto lo stesso a seguire un lungo periodo di riabilitazione, che avrebbe restituito al mondo un Garrincha consapevole dei suoi limiti fisici, ma assolutamente riluttante nell’accettarli. Se prima proprio non gli interessavano e giocava spensierato, ora, alla vigilia dei mondiali del 1966, lo condizionavano pesantemente. Le gambe che prima gli permettevano di bruciare istintivamente tutti i difensori che gli si paravano di fronte ora facevano persino fatica a reggerlo in piedi, ma la sua testa no, quella correva sempre veloce. Dribblava ancora come una volta, benché annebbiata dall’alcol e soprattutto dall’amore. Un amore stereotipicamente brasiliano, ardente come una fiamma. Un amore che bruciò il figlio prediletto di un intero popolo. Correva l’anno 1962: Garrincha, prima della rassegna mondiale, conobbe la famosissima cantante Elza Soares. Per lei lasciò la moglie Nair con i figli, destando uno scandalo senza pari in Brasile, che perdurò anche dopo il “Mondiale delle meraviglie”. Eppure l’ala che aveva fatto sognare i brasiliani non se ne curava, pensava solo a lei e sperperava tutti soldi era riuscito a guadagnare. “Non aveva misure”, dissero poi i suoi compagni di squadra. Non tanto per la sua “fiamma”, quanto per gli alcolici e per tutto ciò che era superfluo. Garrincha non capiva il valore dei soldi, non era cresciuto in una società che glielo facesse capire. E quindi, quando anche Elza lo lasciò, lui ormai era ridotto alla brutta copia di un qualsiasi anziano, benché avesse a malapena 45 anni. Il giocatore che era stato sulla cima del mondo stava già scavando dentro di sé la propria tomba. In pratica fu quello il momento in cui tutta la fama accumulata era esplosa, rendendo un giocatore “innocente e infantile” una superstar che non sapeva come gestire tutto questo. Un problema che ha avuto, in tempi moderni, anche Mastour, solo che lui era un ragazzino, non un 30enne senza istruzione.

L’uomo Garrincha prima, e poi anche il calciatore Garrincha, rappresentarono perfettamente una parte consistente del Brasile dell’epoca. Meraviglioso, colorato, divertente, ma autodistruttivo. In altre parole, un fiore straordinariamente raro, ma anche estremamente fragile.

La fine di un’era
Torniamo al triste finale di carriera del “passero”: dal 1962 fu un costante ed inesorabile declino.
Per tre anni rimase al Botafogo, fra litigi e problemi vari, fin quando nel 1965 si trasferì ai rivali del Corinthians, che gli promise lo stipendio più alto della sua rosa: secondo una leggenda (!) i nuovi compagni di squadra non erano molto d’accordo con questo, e decisero di non passargli la palla. Garrincha, come aveva sempre fatto, si mise in proprio e mostrò al mondo le ultime fiammate prima di spegnersi. Quando tutto sembrava finito, nel 1966, la federazione brasiliana decise di convocarlo per il mondiale in Inghilterra, più per scaramanzia che per necessità tattiche: i vertici del calcio infatti ritenevano nessuno avrebbe potuto batterli con Garrincha e Pelè in squadra. Il primo avversario del girone, la Bulgaria, sembrò confermare questa tesi: la Selecao vinse per due a zero.

Nel primo tempo segnò Pelè, ma nel secondo tempo l’angelo dai piedi storti ebbe un lampo di genio, l’ultimo che seppe infiammare i brasiliani. La cometa che aveva illuminato il mondo del calcio stava per allontanarsi definitivamente, per spegnersi in qualche remoto angolo dell’universo.
Garrincha posizionò la palla. La guardò. Guardo il portiere e la barriera. Prese le rincorsa e con l’esterno destro riuscì ad imprimere una traiettoria ad uscire che si infilò esattamente all’incrocio dei pali. Tutti erano in festa, il fenomeno non si era perso, aveva solo avuto degli anni di appannamento. Ma succede a tutti, no? Purtroppo il mondiale del 1962 aveva segnato veramente il suo destino e non era stato un appannamento temporaneo. Nella partita successiva il Brasile perse, interrompendo la magia di Garrincha, e nell’ultima partita del girone, contro il Portogallo della “perla nera” Eusebio, non ci fu storia. I campioni del mondo vennero mandati in casa, e né O Rey né il passero giocarono.

Da questo momento tutto cominciò ad andare “male”, per usare un eufemismo: Garrincha ingrassò e diventò sempre più violento a causa dell’alcol. Provò a rimettersi in forma per tornare a giocare, ma nessuno aveva intenzione di tesserarlo. Andò in Colombia, anche qui senza successo. Ormai trovava squadre solo grazie alla fama che continuava a portarsi dietro. Tutti lo ammiravano ancora, nessuno lo voleva.
All’inizio degli anni settanta la moglie Elza, con cui era sposato nel 1966, si trasferì in Italia e lui la seguì, nella speranza di farsi un nome anche in Europa: si allenò con la Lazio, giocò una partita in cui realizzò quattro assist con una formazione di macellai e firmò per i francesi del Red Star, senza mai scendere in campo. Nessuno ormai lo riconosceva più: Garrincha era l’ombra di sé stesso.

Nel 1972 tornò in Brasile, firmando con l’Olaria, ma giocò solo 8 partite. Nel 1977 la moglie lo lasciò, dopo che lui l’aveva violentemente percossa. Il periodo d’oro era solo un lontanissimo ricordo.
Gli venne persino proposto di allenare una squadra di ragazzini, e lui accettò, ma la bottiglia di cachaca non lo abbandonò nemmeno in questo caso.
Qualcuno lo definì “la perfetta rappresentazione del calcio dionisiaco”: un calcio sempre oltre al limite, senza un ordine preciso. Il contrario del “calcio apollineo”, di cui si era fatto portatore Pelè. Altri avevano voluto cancellare questa definizione e avevano considerato sia O Rey che il “passero” il riscatto del popolo sui prepotenti.

Eppure, fra Dioniso e Garrincha c’era più di qualche somiglianza. Ironia della sorte. Ecco il perché del titolo. Il dio greco amava il vino e ne era un gran bevitore: Garrincha amava altrettanto follemente la sua acquavite. Dioniso era la divinizzazione dell’estasi, di quei moti dell’animo, come orgie o danze sfrenate che nella vita di tutti i giorni gli antichi greci ripudiavano, considerandole “aberranti” e soprattutto tossico per l’ordine divino di cui doveva essere permeata una società civilizzata e non barbara. L’angelo da piedi storti è stato, per circa un decennio, il distruttore della tattica, colui a cui questa non serviva per raggiungere l’apice. Se lui poteva passare la palla o dribblare, sicuramente sceglieva la seconda opzione, indipendentemente dalla situazione. Garrincha ha deciso, involontariamente, di andare contro tutte le imposizioni dell’epoca. Ha deciso di essere sé stesso, di essere naturale. E ha vinto, pur non essendo immortale come un “dio”.

L’ultima sua foto risale al 17 febbraio 1980. All’epoca cerca di guadagnare qualche soldo mettendosi in mostra sui carri del carnevale di Rio. Qualche soldo che non serve per pagargli la clinica dove viene sempre più spesso ricoverato, perché qualche anno prima gli è stata diagnosticata la cirrosi epatica. Probabilmente lui non sa nemmeno quanto sia grave il suo stato di salute.
In quella foto il suo sguardo è perso. Guarda un punto non definito nell’immenso spazio. È vestito come quando giocava a calcio. Eppure nessuno, non conoscendolo, direbbe che quello è stato un calciatore. I suoi occhi, vuoti, sembrano sul punto di scoppiare in un pianto disperato. Ciaola, quando esce dalla cava, dopo anni, e vede la luna, piange. E Garrincha sembra che stia per fare lo stesso, in un attimo di folle lucidità: due coppe del mondo, decine e decine di donne, quattordici figli. Ormai non gli rimane più nulla, se non il proprio talento, una bottiglia di cachaca e il rimpianto di una vita che poteva essere meravigliosa. Anche qui, forse, un richiamo alla mitologia greca: lui ha scelto di vivere come Achille, sempre sul confine fra la vita e la morte, solo che, alla fine, la sua è stata una morte ingloriosa, figlia dei vizi che l’hanno tormentato per tutta l’esistenza.

Il 19 gennaio del 1983 tornò a casa completamente ubriaco. Non si reggeva nemmeno in piedi, colui che prima aveva fatto tremare le difese più forti del mondo. La moglie chiamò l’ambulanza, lui venne internato.
Poco prima che l’Alba dalle rosee dita l’abbracciasse con la sua dolcezza, la morte l’avvolse e portò la sua anima nell’Ade.

Così l’uomo che aveva fatto gioire e sognare un intero popolo se ne andava per sempre.
Questa volta facendolo piangere.

 

 

 

Federicoz