Un decennio dopo la notte di Wembley, in cui vinse la seconda Champions League in tre anni, i più perfidi dicono che il segreto del Barcellona di Guardiola fosse proprio… il Barcellona. Per quanto sembri ingeneroso nei confronti di una delle idee di calcio più sublimi degli ultimi venti anni, non si può negare alla provocazione un fondamento di verità. Il Barça ha infatti vinto anche dopo Guardiola, conquistando numerosi record con il povero Tito Villanova e addirittura un triplete con Luis Enrique. Guardiola ha invece faticato moltissimo a imporre il proprio calcio in Europa, nonostante abbia allenato squadre ricchissime che hanno dominato i propri campionati, anche prima e dopo di lui. Sfortunatamente per lui, però, anche il Bayern Monaco ha dominato in Europa, inanellando addirittura due triplete negli anni, uno prima e uno dopo di lui.

Dati alla mano, siamo quindi di fronte ad un fenomeno tipico del millennio digitale, che quel birbante di George Soros identificò sul finire degli anni Novanta: il “bandwaggon effect”, l’effetto carrozzone. Secondo Soros, le caratteristiche del linguaggio comunicativo e dei nuovi mezzi di informazione avrebbero favorito la creazione di movimenti di opinione legati più alla numerosità del seguito di una determinata idea che alla validità dei suoi contenuti. Per cui solenni idiozie come il “centravanti spazio” o il “tiki taka” sono state accettate come il nuovo Vangelo che avrebbe cambiato il calcio. Ma nelle successive campagne europee del buon Pep sono arrivati il Real di Ancelotti, il Barca di Luis Enrique, l’Atletico Madrid di Simone, il Monaco di Jardim, il Liverpool di Klopp,  il Tottenham di Pochettino, il Lione di Rudi Garcia e il Chelsea di Tuchel, a riaffermare quello che tutti sanno: per quanto le grandi idee possano cambiare il calcio, raramente quella stessa idea sopravvive più di qualche anno al suo inventore e alle condizioni uniche che ne hanno favorito l’emersione. Basterebbe citare Rinus Michels o Arrigo Sacchi.

Il calcio è come la vita, una lunga pazienza scandita da eterni mutamenti, a volte più lenti, a volte repentini: soggetto al caso, che a volte bacia il genio e l’impegno, a volte lo deride riaffermando l’effimera differenza tra sconfitta e vittoria. Da sabato sera i guardiolisti sono in fermento: dai politologici di sinistra delusi convertiti al calcio agli ex calciatori dai piedi fucilati, dai giornalisti un po’ panzoni agli studenti europeisti con venature ambientaliste, dai giocatori seriali di playstation agli studiosi di geometrie pallonare neo-euclidee, è tutto un levarsi nell’etere di voci disperate a difesa del nuovo Vangelo del calcio. Alla fine, dicono i seguaci del profeta, se il reietto Tuchel ho potuto bastonare l’ineffabile Guardiola 3 volte in 6 settimane, in fondo il merito è dello stesso Guardiola, che ha cambiato una volta per tutte il calcio. A nulla valga la sensazione, a stento sussurrata in tv da Fabio Capello per non ingenerare movimenti di piazza in tempo di Covid, che Tuchel abbia fatto una splendida partita all’italiana, con una difesa attentissima e dei contropiede micidiali. Nella finale di sabato scorso, sono bastati uno straordinario mediano di colore - che Boskov avrebbe definito un puma che esce da foresta - e un ordinatissimo brasiliano italianizzato a vanificare le complesse alchimie di mezzocampo dello scienziato catalano. E se al “centravanti spazio” del City non si fosse contrapposto il migliore difensore di serata dello stesso City, al secolo Timo Werner, probabilmente a fine primo tempo il risultato sarebbe stato tanto a poco per il Chelsea. Rimane sicuramente un dato, che non possiamo negare: all’11 maggio 2021, con trentuno trofei vinti in tredici anni di carriera, Pep Guardiola è il quarto allenatore più vincente della storia dietro a Alex Ferguson (49), Mircea Lucescu (35) e Valerij Lobanovs'kyj (33).

In fondo, però, Sir Alex Ferguson le sue due Coppe dei Campioni le vinse in maniera rocambolesca. Da buon conoscitore di calcio, Sir Alex sapeva come il suo destino di generale vittorioso fosse legato ai capricci degli Dei del calcio, o forse ad Eupalla, la mitica divinità riscoperta da quel losco italianista di Gianni Brera. E quindi, non si è mai vantato di aver inventato nulla.

Diremmo stamattina a Guardiola, riprendendo un proverbio indiano: se vuoi far ridere Brahma, raccontagli i tuoi progetti. I numerosi trofei vinti e l’ampio seguito di cui gode, ne fanno in ogni caso un grandissimo personaggio della storia del calcio. Purtroppo un po’ vittima della sua stessa retorica, come quando, nelle sue sfortunate campagne europee, si è lamentato degli arbitraggi, dimenticando di dovere le sue prime grandi fortune alla più scandalosa semifinale della storia del calcio, quella in cui il Chelsea fu derubato da un demone norreno di nome Ovrebo; o come nella sua recente orazione sull’importanza della meritocrazia nel calcio, dimentico di essere l’allenatore più pagato e spendaccione del campionato più ricco del mondo.

Diceva Ovidio, uno che di deliziose ipocrisie se ne intendeva: video meliora proboque, deteriora sequor (il meglio vedo e approvo, il peggio seguo).
Per cui: viva Guardiola, il guardiolismo è morto.