Narrano le cronache dello Studio Ovale che, dopo 8 anni trascorsi a fare il bene dell'Umanità e degli Stati Uniti, la mattina del trionfo di Donald Trump, Barack Obama accolse i membri del suo staff con il viso particolarmente cupo. Ma al contrario dei suoi giovani collaboratori rampanti, non era trasfigurato dall'inatteso tracollo democratico a vantaggio di un candidato osteggiato e deriso da tutto l'establishment americano. Era semplicemente preoccupato per una riflessione maturata da tempo, che espresse a voce alta al capo del suo staff: "Non è che semplicemente non vogliono quello che stiamo dando loro?". 

Come tutti sanno, negli Stati Uniti è in corso una massiccia protesta, sfociata in violenze e saccheggi di ogni genere: tutto nasce da un episodio di violenza delle forze dell'ordine, che ha portato alla morte di un cittadino. Purtroppo, anche noi italiani abbiamo pagato questo doloroso tributo negli anni: i casi di Federico Aldovrandi, Stefano Cucchi e Giulio Regeni sono vivi nella memoria di chi non dimentica. Per nessuno di questi giovani bianchi c'è stata una sollevazione popolare: anzi, ci sono voluti anni di inchieste e di processi per cercare di far emergere la verità, almeno quella giudiziale.
Nel caso di Giulio Regeni, studente italiano al servizio inconsapevole di Sua Maestà, il tutto avrebbe potuto e dovuto avere un rilievo internazionale, ma nessun giocatore della Premier League o del mondo arabo si è inginocchiato. I coniugi Obama se ne sono stati tranquilli a coltivare l'orto biologico della Casa Bianca, Weinstein ha continuato a fare festini tra Hollywood e Roma, l'Italia a fare affari con l'Egitto, cercando abilmente di protestare senza fare nulla di compromettente. Anche quando è arrivato il cambiamento al governo, non è cambiato nulla.

Ogni giorno, mentre i giocatori della NFL incassano milioni di dollari, lo stesso sistema economico e produttivo mondiale che lo consente, porta nel mondo 7.000 bambini a morire di fame. Molti di loro sono bambini neri, eppure nella NFL si continua a giocare e i disoccupati americani continuano a spendere ogni giorno il loro sussidio statale. 
La dolorosa perdita di George Floyd, piuttosto che generare un serio dibattito intorno all'odio per il diverso, cifra caratteristica del mondo che viviamo, sembra essersi innestato sulla stessa psicosi che abbiamo appena vissuto per il Covid19. 
Una catena di supermercati in Svizzera ha ritirato i dolcetti noti come "testa di moro" per l'intollerabile vulnus razzista insito nel nome. Una nota televisione americana ha tolto dal suo catalogo "Via col Vento", declassandolo rapidamente da capolavoro a film dai contenuti socio-politici razzisti. Una nota azienda di cosmesi ha riassunto con tante scuse una modella transgender di colore, precedentemente allontanata per via dei suoi commenti razzisti all'indirizzo dei bianchi.
Si chiede esasperata la giornalista di cinema e costume Natalia Aspesi, addirittura dalle pagine di Repubblica: "Quanto ancora dovremo sacrificare all'ignoranza sull'altare del politicamente corretto?".

Ma proprio mentre eravamo assorti in questa rassegna stampa dell'assurdo, le agenzie battevano la notizia dell'ennesimo capitolo litigioso della saga Balotelli. Premettiamo che Mario Balotelli non gode affatto delle nostre simpatie: dieci anni fa ingaggiammo uno scambio di vedute col compianto Gianni Mura, che finì perfino sulle colonne di Repubblica e del Giornale. La sintesi plastica del nostro pensiero, seppur diversa nei toni e nei modi, è stata a suo tempo, troppo volgarmente, tradotta in uno striscione ultrà della curva Sud.
Mario Balotelli ha però un merito: essere rimasto sempre coerente, nelle idee e nei comportamenti. A trasfigurare in continuazione la realtà, anche la sua immagine, sono state l'informazione e l'opinione pubblica, intrise di ideologie e faziosità, che mai hanno consentito e consentiranno una serena interpretazione della realtà.
Chi scrive ha avuto il privilegio di passare una parte della sua vita in Australia, terra splendida a metà tra buonismo di facciata e razzismo di fondo: una nazione edificata su una delle civilità più claniche e tribali del mondo, quella aborigena, quasi impermeabile alle categorie del pensiero moderno, a cui si sono sommati gli eredi dei reietti delle colonie penali inglesi e gli emigrati europei, quelli che non avevano i requisiti per andare in America o in Argentina. Ne è uscita fuori una società vibrante ed efficiente, ma essenziale ai limiti della brutalità. Come mi disse un alto magistrato in uno dei primi approcci con la giurisprudenza locale: "dammi un grammo di fatti al posto di questa tonnellata di diritto". 
Come dimenticare le derisioni che spettavano al mio compagno di banco al liceo, nonostante si trattasse di uno dei cinquanta figli del ricchissimo  sultano del Brunei? O gli insulti che ricevevo sui campi di calcio in quanto italiano? O quello che mi ha raccontato mio zio Tonino, partito nel 1953 con una brandina e arrivato a 85 anni con un solido impero finanziario alle spalle? 
Non ha mai mancato una puntata di Tutto il Calcio Minuto per Minuto, mio zio. E quale emozione, per me, in una notte del 1992, la voce di Enrico Ameri in diretta dall'Italia.
Un giorno del 2014 squilla il telefono. È mio zio dall'Australia. Mi chiede: "Giova' ma uno che ha visto Prati, Riva, Boninsegna, Bettega, Rossi, Altobelli, Vialli, Vieri e compagnia cantante, può sopportare sto teatrino della Nazionale appresso a Balotelli?".
Rimasi in silenzio, perchè qualche ora prima avevo perso un migliaio di euro per aver messo, contrariamente a tutte le mie convinzioni, la scommessa "Balotelli gol" come quinta variabile di una martingala. Si giocava Italia - Costarica, quella persa inopinatamente e passata alla storia col titolo "Balotelli si divora un gol".
Mentre cercavo una risposta Tonino ha affondato il colpo: "Giova' senti a me: se fosse stato bianco, Balotelli a questi livelli non ci sarebbe mai arrivato".
L'ho presa come una battuta, ma poi nel tempo ho ripensato a tutte la occasioni gettate al vento: l'Inter formidabile di inizio decennio, il City degli sceicchi, il Milan di Galliani, la numero 9 del Liverpool che molti tifosi hanno riportato indietro, per finire via via indietro nelle periferie del calcio che conta. 
Forse ha ragione Natalia Aspesi nel chiedersi quanto sia vantaggioso il saldo tra i frutti di un capolavoro e i frutti del politicamente corretto. E forse anche Balotelli il suo meglio lo ha dato proprio quando ha dovuto dimostrare di più per reagire al politicamente scorretto.
Perchè la vita è più bella e produttiva nelle differenze e nelle difficoltà, piuttosto che nel conformismo più stagnante.