Uno dei pilastri grazie al quale ogni buon tifoso rossonero si è innamorato del concetto di calcio espresso dal Tecnico di Fusignano, Arrigo Sacchi, è la maniacale ricerca del possesso palla attraverso il pressing. Questo modello di gioco non è del tutto originale e si deve più alla Cultura olandese, che regalò per quasi tutti gli anni '70 divertimento e esaltazione di valori sportivi apprezzati in ogni angolo del mondo, che non a quella romagnola.
Il pressing (che potremmo chiamare Fase 1) serve per recuperare il più in fretta possibile la palla e iniziare l'azione offensiva. Il possesso palla (Fase 2) ha due particolarità: è utile per arrivare al gol ed è matematico che finché ne sei in possesso gli avversari non possono riuscire a fare altrettanto. Dunque, il pressing (arma di difesa offensiva) aiuta a ottenere il possesso palla che poi va mantenuto (per attaccare e evitare di dover difendere).

In qualunque campionato italiano di categoria questo insegnamento è stato utilizzato pedissequamente da tutti gli allenatori. Il loro mantra preferito è il calcio a due tocchi (meglio uno solo) perché il pallone deve girare in un torello infinito e spesso stucchevole. Il calciatore moderno non si può fermare a pensare ma deve calciare d'istinto verso il punto dove intravede (o sa) che c'è il compagno ad attendere il suo passaggio.
Va tutto bene finché non ci si trova di fronte a quelle che i giornalisti etichettano come "difese chiuse". Il bel castello di carte costruito fino a quel punto crolla miseramente e finisce per diventare un tikitaka (una volta si chiamava "melina") sterile e senza sbocchi. Poi, magari, in una ripartenza (chissà perché non si chiamano più "contropiedi"?) si subisce gol e il possesso palla finisce col far arrabbiare tutti i tifosi.
Allora, folgorati sulla via di Damasco, gli allenatori hanno avuto un'idea geniale. Dopo che tutti in coro hanno insegnato ai calciatori fin da bambini che scartare, dribblare, è sbagliato chiedono ai propri Dirigenti addetti al Mercato che si acquistino, per il bene della squadra, degli atleti in grado di "saltare l'uomo". No. Non si tratta di imitare Gianmarco Tamberi e con uno scatto di reni in stile Fosbury superare agilmente i due metri. Con questo idioma s'intende puntare il proprio avversario e scartarlo. Dribblarlo, insomma.
Il calcio, come si vede anche da questo piccolo esempio, è composto di una marea di opposti, di paradossi che vanno bene finché qualcuno non trova le contromisure giuste per renderli inefficaci e controproducenti.

Il Milan ha acquistato Messias (un trentenne con una lunga trafila nelle categorie minori) proprio perché è un calciatore in grado di scartare il proprio avversario e a convincere la Dirigenza a investire in questo affare sono stati i dati tecnici sui dribbling (all'americana), il gioco preferito dal brasiliano. Forse, e dico forse, se un buon numero di allenatori delle giovanili lasciassero taluni talenti liberi di esprimersi magari, idem come sopra, non ci sarebbe bisogno di andare a cercare altrove, all'estero, quei calciatori in grado di far la differenza.

Tuttavia, questo paradosso non è l'unico. Me ne viene in mente un altro che fa riferimento all'ex-Presidente rossonero che ha sempre preso spunto dai mondiali o dagli europei di calcio per annusare l'aria che tirava e costruire il Milan a immagine e somiglianza di quel credo. La nazionale di Mancini, infatti, ha mostrato che in questo momento a vincere le partite non è la qualità dei singoli ma l'abnegazione del gruppo. A tal proposito, non posso che esser contento degli acquisti funzionali che sono stati fatti dalla Dirigenza rossonera e, anche se so che diventerò impopolare per questo, se Kessie dovesse partire a gennaio non verserò neanche una lacrima. Non serve. Al Milan lui non serve. Mi correggo. Ai rossoneri serve quello umile, battagliero e altruista dello scorso anno. Se non c'è più, se si è trasformato in qualcos'altro allora è meglio che se ne vada prima di subito.
L'osceno mercato che è stato permesso al PSG ha fatto sì che i transalpini possano schierare i migliori calciatori in circolazione nel calcio europeo ma la vera scommessa non è questa. Il severo banco di prova per questa società è dato dal fatto se coi soldi puoi comperare anche lo spirito, l'essenza di un'atleta. L'Italia del 1982 in Spagna superò brasiliani e tedeschi. L'Italia di Mancini ha fatto altrettanto con l'Inghilterra e la sua ricchezza. Un italiano (Claudio Ranieri) seppe fare altrettanto contro tutto e tutti nel 2016 con il suo Leicester.

Riusciranno i petrodollari a trasformare tanti calciatori in una squadra, a dar loro una forza di volontà ferrea volta al raggiungimento di un obiettivo comune che vada oltre la pinguità del conto corrente bancario? Per un po' andrà bene. Poi, come succede spesso nella storia di questo sport, anche questa gloriosa macchina da guerra s'incepperà e mostrerà quei difetti che nemmeno tutti i soldi degli emiri saranno in grado di nascondere: il calcio, prima di tutto, è espressione e esaltazione di umanità... nel bene e nel male, il suo costante paradosso.