Ora che Dio si è ripreso la mano e l'Inghilterra si è messa il cuore in pace, i giornali si riempiono di immagini di Diego Maradona, mentre i Napoletani si riversano in strada per il lutto cittadino. Non c'è che dire, è morto un grandissimo campione dell'arte pedatoria e forse in questo caso acquista ancora più significato quanto scritto da Oscar Wilde: "sono i piedi di argilla a rendere prezioso l'oro dell'idolo".

Genio e sregolatezza o sregolatezza in quanto genio?
Maradona aveva i piedi d'oro e la testa d'argilla, anche se la sua fragilità, fatta di polvere, gli dava quell'aura di genio del pallone, assoluto, inarrivabile, e proprio per questo idolo. Le nefandezze della disperazione non scalfivano quel talento puro che non poteva svanire dai suoi piedi. Non era un santo, era un uomo con contraddizioni evidenti, così chiare che facevano quasi tenerezza. E lui sapeva di essere il migliore, anche se davanti a Pelè si chinava e diceva di essere un giocatore normale. Chissà quanto durerà quella rivalità  tra i due calciatori più grandi della storia. Chi l'ha visto giocare, sa che la morte sopraggiungerà prima di rivedere un talento simile, un provocatore, un funambolo che conosceva solo l'equilibrio del campo. Disegnava traiettorie come Leonardo immaginava traiettorie di treni non ancora inventati, come tutti i suoi tifosi che disegnavano nella mente profondità abissali, perché con Diego anche l'inconscio chiedeva spazio per palesarsi. Povero Freud, uno che davanti a questo genio argentino si sarebbe messo le mani nei capelli in cerca di improbabili soluzioni.

Alda Merini diceva  che "la cattiveria è degli sciocchi, di quelli che non hanno ancora capito che non vivremo in eterno", cosa che aveva ben capito Maradona, consolandosi con l'idea che comunque sarebbe diventato mito e che come ammonisce Umberto Galimberti: "i miti devono essere considerati con molta attenzione, perché non sono racconti, favole, pure invenzioni di fantasia. Nei miti c'è scienza, c'è sapere" e nei piedi di Maradona resterà il sapere eterno del gioco del calcio.

Mi hanno colpito poi le parole di Pino, Human Resources Manager di Agos, che sulla chat del calcetto ha detto che con "Diego se ne va un pezzo della nostra infanzia, quella delle partite interminabili sui campetti sterrati, dei calzettoni di lana, dei palloni incastrati sotto le auto, delle gionocchia sbucciate, del "chi segna l'ultimo, vince", del..." e chi più ne ha più ne metta. E' vero, con Maradona finisce un periodo, il nostro periodo, il periodo di una malattia, quella del calcio, quella di chi litigava con i genitori perché un pallone tra i piedi era meglio che un libro di scuola, quello delle sfide interminabili, dell'aria aperta, della pioggia sulla pelle e della nebbia che sfidava la nostra resistenza perdendo sempre. Era la vita che chiamava altra vita, dello sport contro l'eroina, che in quegli stessi anni sfidava i più fragili di noi. 
Per molti il calcio è una perdita di tempo, un correre inutile dietro il pallone, ma chi ha conosciuto la vita dentro lo sport comprende quanta salvezza ci sia in quel pallone.

Riposa in pace, caro Diego, questo è il grazie che ti deve la mia generazione; e ricorda: Dio forse non sa giocare a pallone, ma sarà sempre il campione della misericordia.