Gianni Agnelli diventò presidente della Fiat nell'aprile del 1966. Solo anni dopo, col senno di poi, ammise che: “fu un errore esitare così a lungo: avrei dovuto farlo un anno prima”. Diventava padrone in casa sua, assumeva la gestione di una società di cui era il principale azionista, si potrebbe dire, “impropriamente”, della sua società. Eppure, l'operazione non era stata facile, e l'aveva affrontata con trepidazione.

Molti avevano creduto negli anni precedenti che avrebbe continuato la sua spensierata esistenza, lasciando ad altri il compito di dirigere la Fiat; invece era maturato in lui, a poco a poco, il proposito di salire in plancia, di assumere il comando. In un’intervista, a precisa domanda di Piero Ottone sul perché lo fece, egli diede una spiegazione candida, di tipo riduttivo. Cominciò a raccontare, come in una favola: “dirigevo la RIV, una società controllata che produceva cuscinetti a sfera, e vivevo contento”; tuttavia, anche in seguito ad alcuni articoli usciti in merito a quella che fu definita “l’anomalia del rapporto tra Fiat e RIV”, di cui lui stesso si rendeva conto, ne parlò con Valletta l’allora capo assoluto di Fiat, e decise di vendere la RIV. Così Agnelli si trovò privo della sua occupazione. Ne consegue che si riprese la Fiat.

È una versione interessante, e in molti sensi credibile: la distrazione per quanto riguarda i rapporti fra le società; la pronta decisione di intervenire quando qualcuno attira l'attenzione su una certa anomalia, perché: “bisogna sempre fare le cose nel modo giusto, e rimediare alle distrazioni”. Infine il passaggio dalla RIV alla Fiat. In proporzione, come a dire da una barca a remi a una corazzata!

Deciso quasi per caso, per risolvere un problema esistenziale. Ma è una spiegazione riduttiva, obietta Vittorio Chiusano, che fu uno dei collaboratori più stretti di Agnelli, “non si può ricostruire la storia in questo modo”. E allora, come va scritta? Chiusano esita: “Agnelli è presidente della Fiat per ragioni dinastiche”. Perché sentiva che la posizione della famiglia doveva essere ristabilita; perché era naturale che lo facesse. Vi era, insomma, forse all'insaputa dello stesso protagonista, una necessità storica nell’avvicendamento.

Doveva succedere. Certe cose accadono semplicemente perché devono accadere. Poi, qualcuno spiegherà perché; intanto si fanno. Non fu facile, comunque. Vittorio Valletta era il caso tipico di un dirigente aziendale che, senza possedere un'azione aveva assunto il controllo effettivo e totale della società.

L'autobiografia di Lee Iacocca, italo americano che ha avuto successo nell'industria automobilistica d'oltreoceano, ha descritto in modo efficace una situazione analoga, che si era creata alla Ford: il numero uno, il principale azionista, era Henry Ford, nipote del fondatore di terza generazione, anche lui, come Gianni. Ma Iacocca aveva in mano la società. Ford decise di licenziarlo all'improvviso perché temeva che Iacocca lo mettesse in ombra. Questa è la versione di Iacocca. Agnelli spiega qualche cosa in più: Ford era malato, temeva di morire, era sicuro che Iacocca sarebbe diventato il numero uno se lui fosse morto; e non lo riteneva adatto a guidare, da solo, la società.

Nel caso della Ford, Henry aveva qualche preoccupazione a proposito della sua autorità, eppure era già stato al comando per vario tempo, aveva dimostrato di essere un uomo capace, la posizione di Agnelli, nel 1966, era molto più difficile. Non aveva ancora potuto dimostrare quel che valeva. Alcuni, specie tra gli estimatori di Valletta, pensavano che, come industriale, valesse poco. Aveva 45 anni e ancora non aveva mostrato grande attitudine o assiduità nel lavoro.

Dall'altra parte c'era un uomo, Valletta, fuori del comune. Al quale la Fiat doveva la sua straordinaria espansione, la sua dimensione internazionale. Con quale animo poteva Agnelli dirgli di farsi da parte? La sostituzione di Valletta presentava un problema aziendale, e un problema umano. L'azienda, o meglio il gruppo di aziende, l'impero industriale, con ramificazioni del mondo con allora 130 mila dipendenti al centro di difficili rapporti sindacali, presentava un groviglio di problemi, di difficoltà, di trappole; per uscirne indenni occorreva doti eccezionali. Valletta le aveva.

C'era il pericolo che l'impero, guidato male si sfasciasse. Che figura avrebbe fatto il successore di Valletta se, dopo averlo sostituito d'autorità, non si fosse mostrato all'altezza del compito? Poi c'era l'aspetto umano della vicenda. Valletta era vecchio, ma lucido, attivo, e la Fiat era la sua vita; togliergli la Fiat voleva dire toglierli la vita. Si rischiava di ucciderlo. Anche per questo esitava. Egli non era sentimentale; ma detestava le scene drammatiche.

Il colloquio fu tra i più difficili della sua vita. I due uomini erano  arrivati finalmente all'appuntamento di cui sentivano da tempo l'ineluttabilità, ma al quale avevano cercato di pensare il meno possibile. Erano, per mentalità ed educazione, diversi l'uno dall'altro, che più diversi di loro non si poteva essere. Valletta aveva trascorso la sua esistenza negli uffici, ogni giorno, da mane a sera, compreso la domenica, Gianni aveva trascorso una parte considerevole del suo tempo tra belle ragazze e tavoli da gioco. Valletta riteneva che la Fiat avesse diritto di esigere dai suoi capi una devozione monastica, di un dirigente aveva detto una volta allo stesso Agnelli: “è bravo, però la sera va a teatro”. Perché gli sembrava che andare a teatro la sera fosse una macchia. E ingenuamente l'aveva detto proprio ad Agnelli, per il quale una serata a teatro equivaleva a una serata casta e morigerata, a uno sforzo di buona condotta. Ma erano anche accomunati da molte esperienze, dal ricordo del vecchio Agnelli, dalle vicende alterne del dopoguerra e dal mito della Fiat, che tutti e due sentivano, anche se ciascuno in modo diverso.

Accade perché doveva accadere. Ma come ci si arrivo? L'esistenza di Agnelli non fu mai pianificata; le sue tappe si spiegano, non come singoli stadi di un unico grande progetto, ma piuttosto come la conseguenza di naturali tendenze. Oggi si direbbe: di pulsioni, dovute alla sua personalità. E sulla sua personalità hanno agito influenze familiari di due diversi tipi, una borghese, l'altra aristocratica. Uno di operosa diligenza, l'altro di gioiosa dissipazione.

Il borghese era il nonno. Fondatore della Fiat; un borghese non certo noioso. Era stato ufficiale di cavalleria, aveva una grande passione per i motori, e fondò la Fiat in compagnia di alcuni eccentrici aristocratici nella Torino familiare di fine Ottocento. I confini fra l'alta borghesia e l'aristocrazia non erano netti, ma col passare degli anni Giovanni Agnelli si era immedesimato nel lavoro, perché aveva trovato nella gestione della società, il suo sviluppo, il gioco che lo appagava, e che riempiva tutta la sua esistenza, senza lasciare posto ad altre attività, tantomeno agli svaghi. Una volta Gianni raccontava di un industriale che aveva fatto fortuna perché aveva corteggiato una ricca eccentrica che era andata in visita nella tua fabbrica e l'aveva sposata. “A mio nonno” commentò “non sarebbe potuto accadere”.

Il nipote aveva molta ammirazione per il nonno, e il nonno aveva simpatia per il nipote, l'impronta dell'anziano sul giovane era dovuta, oltre che ai cromosomi, alla forza della personalità; dopo la morte di Edoardo, padre di Gianni, i rapporti tra nonno e nipote si erano fatti anche più stretti, ma poi c'era la dissipazione del ramo materno: la madre Virginia Bourbon del Monte era figlia del principe di San Faustino e di un americana Jane Campbell, da tutti chiamata Princess Jane.

Fra Borghesi e aristocratici, nella famiglia, non c'era mai stata grande armonia; il nonno aveva scarsa comprensione per princess Jane, e per sua figlia Virginia. Ma Gianni imparava dagli uni e dagli altri; ammirava il nonno, come si è detto, ma amava princess Jane, ed ereditava uno stile di vita bizzarro, disinibito, sciolto dalle regole del conformismo, tutto teso all'avventura, all'emozione, ovviamente al piacere, purché le avventure, le emozioni, i piaceri fossero originali e, soprattutto, eleganti.

L'educazione, il modo di vita durante l'infanzia e l'adolescenza furono quelli tipici delle famiglie di grande ricchezza, e la sorella di Gianni, Susanna, ne ha offerto una descrizione rapida ed efficace in un libro di grande successo: “Vestivamo alla marinara”: vita esclusiva nel palazzo scuro e solenne di via Matteotti a Torino, con un appartamento in soprannumero che era stato affittato a certi De Benedetti. La villa di Villar Perosa fra i boschi, l'estate a Forte dei Marmi, l'istitutrice inglese, col suo Refrain: “remember you are an Agnelli”.

Poi, superata l'adolescenza, ormai libero di vivere come voleva, Gianni comincio a muoversi per conto suo; il suo teatro di azione preferito fu la Costa Azzurra che era, in quegli anni, un punto di incontro esclusivo, come la Crimea ai tempi della Russia zarista; frequentata da miliardari e da scrittori, con alberghi massicci e varie ville nascoste nel verde; non c'era il turismo di massa, rimanevano ancora differenze essenziali tra i divertimenti dei ricchi, e quelli degli altri.

Agnelli passava il tempo tra feste, tavoli da gioco, automobili veloci, yacht o aeroplani; e fra uomini e donne particolari, fuori dal comune, o per il nome che portavano, o per le cose che facevano. Preferibilmente eccentrici, imprevedibili, sempre pronti ad andare oltre il confine, o ignari che i confini esistessero. Si affinava allora in lui, fra occupazioni sporadiche a Torino, e piaceri assidui sulla Costa Azzurra o in giro per il mondo, una maniera di vivere che sarebbe poi rimasta in seguito, anche negli anni di lavoro intenso.

La maniera di vivere la vita come una recita, nella quale egli partecipava per il suo piacere e per quello degli altri, con una parte di primo piano, sempre sorprendente, il più possibile di stile. Magro e teso, con il profilo aggressivo, era un attore estroverso, brillante, naturalmente vanitoso come tutti gli attori, desideroso di essere visto e di essere applaudito; però anche curioso dei giochi altrui, e senza altra ambizione, che quella di giocare bene.

C'era poi una parte che gli piaceva assumere in modo sempre più netto; ed era la parte del principe, del monarca che viveva in una sua sfera particolare, lontano dal resto degli uomini. Accudito da servitori efficienti e silenziosi, circondato da amici devoti, che costituivano la sua piccola corte, e frequentato da personaggi suoi pari, da altri monarchi ed altri principi, di cui gli piaceva far collezione, perché era ansioso di conoscere tante persone famose, tante persone insolite e fuori dal comune.

Vi è nel mondo un numero ristretto di individui, per lo più eredi di grandi famiglie, il cui modo di vita, per il genere di abitazione, per il numero dei domestici, per i mezzi di trasporto, è totalmente separato dal resto dell'umanità, e paragonabile soltanto a quello dei principi e dei monarchi superstiti; lui aveva deciso di essere tra questi. O forse gli veniva spontaneo di esserci, senza quasi rendersene conto.

La vita era una recita, e infatti lo attirava il mondo dello spettacolo. Il passaggio al lavoro, fino ad assumere la presidenza della Fiat, fu graduale, e uno di coloro che lo seguirono più da vicino fu Vittorio Chiusano, uomo dai capelli chiari, con lo sguardo intelligente, di personalità e di maniere assai diverse da quelle del suo presidente, essendo egli uomo dalla vita tranquilla, amante della montagna e della meditazione piuttosto che dei giochi e delle avventure frenetiche. Ma con una caratteristica in comune: abituato anche lui a dire quel che pensava.

Chiusano incontrò Agnelli per caso, in sostituzione del capo di segreteria che si era dovuto assentare e l'incontro diede luogo ad una collaborazione più che ventennale. Agnelli seguiva gli affari della Fiat con curiosità, con attenzione, e con molte perplessità. Chiusano era accanto a lui, e l’aiutava a inquadrare in modo razionale le critiche che in Agnelli erano innanzitutto istintive; perché lui era un uomo di azione, l'altro uomo di studio.

Agnelli osservava, giudicava, con perspicacia. Però si accontentava di osservare. Era nella sua natura. Ascoltava con educata attenzione, la fronte corrugata, lo sguardo fisso, ad un certo momento esclamava: ho capito: lei vuole dire questo. E riassumeva in una battuta sintetica e chiarificatrice quel che l'altro aveva espresso, magari in modo prolisso, allusivo e oscuro. Poi taceva contento. Sembrava che a lui bastasse l’aver capito. Una volta capito, allentava l'attenzione e non aveva alcuna voglia di interloquire, di controbattere, di discutere.

La vita era per lui una recita. Ognuno recitava la sua parte, e lui guardava tutti con interesse, Come si guardano gli attori, senza interferire col copione, perché lo spettacolo o era interessante così com'era, o non interessava fatto. E non valeva la pena di entrarci e metterci le mani. Non meravigliava sentirgli dire che se non fosse stato Agnelli, gli sarebbe piaciuto fare il giornalista.

A Chiusano non bastava l’aver capito, lui voleva agire per cambiare, per migliorare la Fiat e, con la Fiat, il mondo intero. Chiusano credeva nel dialogo; credeva nella necessità di rinnovare l'Italia. Ci credeva anche Agnelli; Ma perché non agiva? L’attesa era disperante. È difficile dire se Chiusano abbia avuto un peso nel determinare il momento del passaggio alla presidenza. Può darsi che quel momento sia stato deciso dalle circostanze, dalla ineluttabilità delle cose. Ma certamente egli fu vicino ad Agnelli nella lenta marcia di avvicinamento, e lo sostenne, e lo rincuorò nei momenti di esitazione, dovuti ai dubbi della cui natura abbiamo prima detto, e poi dal dubbio fondamentale, se valesse la pena di sobbarcarsi un impegno del genere, e di cambiar vita, e di gettarsi in un mare di guai.

Ci furono anche colloqui notturni, momenti difficili. La bella sicurezza ostentata sul palcoscenico della vita, non rimaneva inalterata in solitudine o fra gli intimi, dietro le quinte. Poi venne il gran giorno. Infinitamente più tranquillo di quanto non si fosse previsto. La Fiat, grande organismo vivente, con una personalità ben distinta nel suo modo di essere, di parlare e di pensare, si adeguò prontamente a un Agnelli al posto di comando, contenta di avere di nuovo, un rappresentate della dinastia in Corso Marconi.

Un uomo ancora giovane, elegante, rapido e dinamico, che si muoveva sempre in fretta nonostante la gamba ferita da un paio di incidenti. Era sempre cortese e conciso, portava Insomma uno stile di gran signore in un'azienda che era stata pervasa, fino a quel momento, da un’atmosfera a metà strada fra la disciplina dei militari e la minuziosità dei ragionieri. Agnelli, con volto abbronzato e il passo veloce, forse reduce da Cap Ferrat, o da Montecarlo, o da New York o da una serata con Anita Ekberg.

Fu accolto bene anche perché non cambiò molte cose, comandava in maniera soft, senza dare ordini; riusciva a far fare alla gente quello che voleva senza impartire istruzioni; un metodo da salotto piuttosto che da azienda industriale. Introdusse alcune regole sui limiti di età che rinnovarono i massimi vertici e spazzarono via la vecchia guardia vallettiana, almeno in parte, ma non fece molto di più, e Chiusano continuava a essere impaziente, cominciando a parlare per metafore, il che, a quanto si diceva, era un pessimo segno: “non basta conquistare la cittadella”, diceva. E quando gli chiedevano che cosa bisognasse fare dopo la conquista, diventava vago, forse non sapeva neanche lui con esattezza quello che voleva, però gli dispiaceva che tutto o quasi tutto rimanesse com'era.

Tutto cambiava, in realtà, ma gradualmente, in silenzio, perché Agnelli detestava gli scontri, i traumi, le tragedie.