Che peccato, che di quello che ci capita ogni giorno di sentire o di vedere, rimanga sempre così poco, e in modo così confuso!
Ci sono cose, dette o fatte durante la giornata, che nel momento stesso in cui le senti dette, o le vedi fatte, ti sembrano inverosimili: ti sembra impossibile che siano state davvero dette o fatte.

Tu sei lì, in un lì generico, ostinatamente impegnato, e per nulla scoraggiato, nella quotidiana sfida, persa in partenza, contro il torpore mattutino, che proprio quando sembrava ci fosse speranza di sconfiggerlo, anche grazie a qualche provvidenziale caffè, cede il passo a quello postprandiale, per poi arrendersi definitivamente, dopo una lotta impari, a quello del calar delle tenebre, indotto, (seguitemi bene, perché è senza dubbio questo l’aspetto più paradossale e controverso di tutti) da provvidenziali goccine, senza le quali non chiuderesti occhio.  

Lotta quotidiana, dicevamo, dall’esito scontato. Vero! Verissimo! Ma se questa scontatezza dovesse urtare la suscettibilità dell’immancabile cultore del principio di autodeterminazione del proprio destino, che in gruppi di almeno cinque persone sembra ormai debba essere presente per legge, come le quote rosa in parlamento, basterebbe davvero poco per mettere in riga l’eventuale “dissidente”, ricordandogli che nel medio e lungo periodo saremo tutti, lui, beffardamente, prima di te, passati in uno stato di grazia, dove tutto quest’affannarsi nel voler avere ragione sarà diventato l’ultima delle nostre preoccupazioni.

Lotta combattuta a suon di un-duè un-duè, un-duè, recitati sottovoce, ed intercalati, di tanto in tanto, da un ettre-eqquattro-eccinque-essei, utili per prevenire l’insorgenza di ipertrofie cerebrali asimmetriche, dovute all’interessamento, nel corso della giornata, sempre delle stesse regioni del cervello, a discapito di altre.

Un’alternanza, dicevamo, di Un-duè un-duè, un-duè, totalmente deprivata ormai di ogni intento marziale o bellicoso (ammesso che ce ne sia mai stato davvero uno) utile senza dubbio a rendere la falcata più ampia e regolare, senza però riuscire anche nell’intento di renderla meno… ondivaga, meno barcollante. Ma, come si dice? Cammino, ancorché barcollando, ergo sum!

E sebbene senza dubbio la cosa più importante sia il “sum” appena citato, non sarebbe male, di tanto in tanto riuscire a non perdere, magari appuntandosele, strada facendo, con pazienza, delle vere e proprie chicche, che dovrebbero anch’esse entrare di diritto nel novero delle frasi, delle situazioni o degli aneddoti talmente “particolari” da meritare di essere considerati e tutelati come patrimonio culturale mondiale dell’umanità.

A proposito di affermazioni o situazioni paradossali, e dell’impossibilità spesso di poterle appuntare anche solo con una matita su un pezzo di carta, per poi sperare di ricordarle o ricostruirle in un secondo momento, per riderci su, o per farne una raccolta di inconsapevoli aforismi, mi trovavo l'altro giorno in coda, fuori dall'ufficio di medicina legale dell'Inps, in attesa di essere chiamato per essere esaminato.
Ero lì, in piedi, stanco e in attesa del mio turno ormai da un po’.
Tra me e me mi chiedevo che senso potesse mai avere far stare le persone per strada, ad aspettare il proprio turno, paradossalmente, proprio per entrare nell'ufficio dove una commissione aveva il compito di stabilire se e quanto fosse alta la percentuale di invalidità da attribuire al malcapitato di turno.
Oppure
, a pensarci meglio, il fatto di dover farci stare in piedi per così tanto tempo, in attesa di essere chiamati, avrebbe potuto già essere di per sé quello, un modo per smascherare, coloro tramite videocamere e microfoni ambientali che un trucco del genere non se lo aspetterebbero, e che quindi, con la disinvoltura di chi di quei posti è un habitué, allegramente chiacchieravano con altri compagni di finta invalidità, in attesa di trascinarsi come fossero in fin di vita, solo una volta sentitisi chiamare, uno ad uno, dall’usciere che aveva la lista degli aspiranti invalidandi.

Ma al di là di queste vere o presunte strategie di selezione, tornando a ciò che dicevamo all’inizio, a proposito di ciò che spesso ci tocca sentire o vedere, a fianco a me c’era una donna dall’età indefinibile, di quel tipo di persone venute al mondo con tali caratteristiche di bruttezza da avere, in comparazione col resto del genere umano, solo la possibilità, con la complicità del tempo, di migliorare.
Una preoccupazione in meno, la loro
, che all'inizio è ben poco apprezzata, ma che con l'andare dei lustri e dei decenni si rivela essere tutt'altro che disprezzabile. Chi infatti ha assaporato gli agi della ricchezza, così come quelli della bellezza, e ne viene privato soffre molto, molto più di chi nasce povero (di denari, come di bellezza) e vede intorno a sé, nell'arco della propria esistenza, tutte quelle che in gioventù l'avevano disprezzata, assomigliarle sempre di più.

Che vergogna! Esplose all’improvviso, l’essere senza età di cui sopra, tanto da spaventarmi.
Pensavo si riferisse al fatto che fossimo lì in piedi, fermi da almeno mezz’ora, ma la signora, a ben vedere, non sembrava affatto stanca, né sembrava preoccupata di come stessi io: era evidentissimo che non gliene potesse fregare di meno. Il suo sguardo e la sua attenzione andavano oltre.
Nonostante la stanchezza, che, qualsiasi cosa succedesse attorno a me, dopo pochi istanti riportava il mio pensiero a concentrarsi sulla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa a cui appoggiarmi, o su cui sedermi, disinteressandomi di tutto il resto, incuriosito, mi girai dall’altro lato per capire con chi ce l’avesse, quale fosse la causa di cotanto sdegno, e capii che si riferiva ad un’aiuola tutt’altro che in ordine.

L’aiuola, effettivamente, non si presentava al meglio delle sue potenzialità estetiche, su questo non v’erano dubbi, e l’opera di un giardiniere non sarebbe stata fuori luogo. Ma il commento espresso dalla signora, a meno di ulteriori motivazioni pregresse a me sconosciute, mi era sembrato decisamente eccessivo.
Consapevole del mio stato di intontimento mattutino, con l’aggravante della stanchezza, non avevo ancora abbandonato l’ipotesi che la signora non stesse parlando SOLO dell’aiuola, ma di qualcosa di più ampio e complesso. Tuttavia dovetti subito ricredermi quando la signora completò il suo pensiero:
E continuano a farli arrivare, non li affondano mica i barconi!
Non riuscivo a cogliere il nesso tra le aiuole in disordine e il fenomeno dell’immigrazione dei barconi, e in silenzio cercavo di capire se ce ne fosse uno. Ovviamente mi guardavo bene dal chiederlo direttamente alla signora: il rischio infatti di finire impantanati in una discussione che per me non aveva la minima ragion d’essere, era altissimo. Ma anche volendo immaginare un “lieto fine”, ossia che ci si chiarisse, e scoprissi di aver capito male, volevo evitare in ogni caso potenziali attaccamenti di bottone, ai quali, da buon misantropo quale ammetto d’essere, sono da sempre allergico.

Passavano i minuti, ma nonostante gli sforzi, un nesso non riuscivo proprio a trovarlo, anche perché, al di là della trascuratezza dell’aiuola, non c’era nessuna traccia di immondizia, che inducesse a pensare all’utilizzo di quest’ultima come “bivacco” notturno, o altro utilizzo improprio del prato su cui si era inspiegabilmente concentrata l’attenzione prima della signora e poi di tutti.

La conseguenza di tutto questo teatrino, in un contesto “normale” sarebbe stata l’essere riusciti finalmente a svelare almeno la tipologia di disabilità di cui la signora era evidentemente affetta: trattavasi di disabilità mentale.
Con tutto il rispetto per questo tipo di patologie, il cui impatto sulla vita di chi ne è affetto risulta spesso ingiustamente sottovalutato, continuavo caparbiamente, con quel po’ di energie che ancora mi animavano, a rifiutarmi di accettare che si trattasse solo di patologie, e non, molto più prosaicamente, di ignoranza bue, di razzismo bello e buono, e null’altro!

Ero ormai molto stanco, e le frasi che venivano pronunciate risuonavano in me come attutite, ma la capacità di discernere tra un’affermazione dettata da problemi psichiatrici e un’altra dettata da inaccettabili problemi di ignoranza, ne ero certo, era ancora tutta lì a sostenermi.

Questa dobbiamo dirla a Barbara D’Urso! Dovrebbero farla vedere a Barbara D’Urso!”.
Sempre più frastornato, continuavo a non capire, ma mi rendevo conto che la discussione stava assumendo contorni sorprendenti, paradossali, impensabili… scegliete voi l’aggettivo che più vi sembra adatto.
Quella mattina mi sarei semplicemente dovuto recare presso un ufficio dell’INPS, per svolgere degli accertamenti. In tutto ciò non era affatto previsto che ad un certo punto della mattinata mi sarei trovato catapultato in una realtà da teatro dell’assurdo, a cavallo tra finzione scenica e onirica fantasia.

Ad un certo punto, quando ormai non mi ricordavo neanche più cosa ci facessi io lì, sentii l’usciere pronunciare il mio nome. La tortura era terminata, ma prima di seguire l’usciere con le poche forze residue che ancora mi erano rimaste, e nonostante io sia tra le persone più pacifiche che conosca, non riuscii a trattenermi dal volgere verso di lei lo sguardo, scuotendo il capo con tutto lo sdegno di cui ero capace. Non lo dissi, ma sono sicuro che lo capì comunque, che a vergognarsi doveva essere lei.

Ma non sono solo per fortuna cose tristi, quelle che vorrei ricordare!
Tante volte mi capita (e sarà senz’altro capitato anche a voi) di ascoltare o di pensare cose che trovo talmente comiche da ripropormi di ricordale. Me lo dico e me lo ripeto: “Piccio, questa è troppo bella, questa devi ricordartela! Non permettere al demone che vive dentro di te di disperderla! La mia è quasi una supplica, vorrei tanto ricordare per poter poi raccontare, ridere con gli amici, davanti alla macchinetta del caffè, o a casa nei rari momenti in cui ci ricordiamo che la vita non è eterna.

Se fosse possibile, vorrei tanto riuscire a non perdere per strada neanche un granello della comicità involontaria di cui sono giornalmente testimone.
Sarebbe davvero divertente: potrei davvero raccontarvene di tutti i colori, ed ogni volta, insieme a voi, riderne o rifletterne.
Che peccato, che di quello che ci capita ogni giorno di sentire o di vedere, rimanga sempre così poco, e in modo così confuso!