“Non mi parlate più di calciatori africani! Li prendo solo se mi firmano che rinunciano alle competizioni in Africa”. Sono le ultime dichiarazioni - fuori dal mondo e in pieno delirio di onnipotenza - rilasciate in un evento streaming del proprietario del Napoli, Aurelio De Laurentiis. Non contento della gaffe, appena, fatta il buon Aurelio ha rincarato la dose, lasciando tutti increduli e imbarazzati: "Siamo gli idioti che pagano gli stipendi, solo, per mandarli in giro per il mondo a suonare per gli altri?". Apriti cielo - Dicette 'o gallo: meglio l'uovo ogge ca 'a gallina dimane -  a Napoli è scoppiata la solita tragedia per un Presidente mai amato -  almeno non completamente - da una delle tifoserie più calde e passionali del mondo. Caro Aurelio, quali sarebbero gli strumenti utilizzati dai calciatori napoletani in giro per il mondo? Sono diversi da tutti gli altri? Ma chi è Aurelio De Laurentiis?  Spregiudicato, egocentrico all’estremo, amante del paradosso all’infinito, costruttore di sogni ma soprattutto manager di successo. Una persona molto discussa, finita più volte nell'occhio del ciclone - e nel mirino dei suoi tifosi e non solo - soprattutto per i suoi gesti abbastanza “scenici” in occasione delle assemblee di lega, per le sue baruffe con i tifosi, per alcune sue “uscite” poco felici, per non parlare di alcune decisioni prese - nel corso degli anni - abbastanza discutibili, questo è tanto altro è il Presidente del Napoli Calcio, Aurelio De Laurentiis. Una figura dal valore eclettico, forse anche troppo per un ambiente “infuocato” come quello di Napoli che sa essere tanto caloroso quanto critico, tanto gioioso quanto triste, tanto entusiasta quanto amareggiato ma soprattutto eccessivamente ingeneroso nei confronti del suo numero uno.

Nonostante i tanti meriti avuti dal presidente De Laurentiis per aver mantenuto il Napoli a grandi livelli per tutti questi anni, il malcontento che si è venuto a creare - già da parecchio tempo a dire la verità - all'interno della stessa tifoseria azzurra non si è praticamente mai placato spaccandola letteralmente in due tra gli aurelioti - non troppo convinti - e gli antiaurelioti - invece - super convinti. Anzi crescono, aumentando giorno dopo giorno, sempre di più le contestazioni - tra i ritiri di Dimaro e Castel di Sangro - forse andando anche fin troppo oltre in vista di una stagione che ancora deve cominciare e in un mercato - come quello di quest’anno - piuttosto bloccato per la maggior parte delle squadre di serie A. A fine agosto forse in tanti hanno dimenticato che saranno 18 gli anni passati dalla presidenza De Laurentiis alla corte di Napoli per far finta di non conoscerlo ancora per bene. Forse amarlo è chiedere troppo quando in una città come Napoli le persone veramente amate si possono contare sulla punta delle dita. Però quantomeno accettarlo per quello che è, soprattutto per il livello in cui ha portato la squadra azzurra in tutti questi anni sarebbe anche logico se non addirittura sensato. E quindi basta con l'ipocrisia, l’illusione, i retropensieri è sempre lecito esternare le proprie emozioni - da pubblico pagante come direbbe De Gregori - quando si è contrari ad una decisione presa da altri ma dopo un rapporto così duraturo nel tempo - che supera anche l'età dell'innocenza - il pubblico di Napoli dovrebbe concedergli - se non riconoscenza - quantomeno fiducia su quello che sta per mettere in atto in questa ennesima stagione vissuta all’ombra del Vesuvio. Ma l’incomunicabilità e l’ingratitudine - si dirà solo da parte di qualche “imbecille” - tra i tantissimi tifosi del Napoli e il Presidente rimane oggi davvero un caso da affidare ai più bravi sociologi di tutto il mondo. Perché il bilancio della quasi ventennale reciproca “coesistenza” è colmo di risultati esemplari per una squadra che - per storia e tradizione - non ha quasi mai potuto lottare ad armi pari con le grandissime della prima classe.

Si fa fatica oggi a ricordare da dove viene quel Napoli costruito Da De Laurentiis: dopo una veloce risalita dalle macerie del fallimento in cui la squadra azzurra non era nemmeno più una società - versando 28,5 milioni di assegni - mentre altri imprenditori napoletani fuggivano sperando di prendere il Napoli senza spendere nemmeno un centesimo, ci si dimentica - anche tra i tifosi - quando loro stessi prima di godersi le notti da “Champions” riempivano in 55 mila il San Paolo per vedersi la prima giornata di serie C contro il Cittadella. Ci si dimentica spesso che il Napoli è quasi sempre - in pianta stabile - nel giro delle competizioni europee, ci si dimentica spesso come la squadra azzurra abbia sfiorato l’impresa di vincere tre scudetti e soprattutto che è una delle poche società in serie A ad aver onorato sempre i suoi impegni economici e finanziari come ad esempio uno stipendio o un acquisto pagato nei termini e nei tempi prestabiliti in sede di trattative oltre ad aver respinto ogni tentativo di infiltrazione con presunti ambienti criminali che oggi fanno sì che il Napoli calcio sia una società modello non solo in Italia ma anche in Europa. E allora perché viene così tanto disprezzato? De Laurentiis è in fondo un imprenditore che mai ha ceduto alla retorica napoletana, cioè a quella arte mistica e impareggiabile che può diventare nella migliore delle ipotesi una magica epica di popolo, nel male un vittimismo perenne tendente all’autolesionismo. In De Laurentiis quindi molti avvertono l’opportunismo, la spettacolarizzazione, a tratti per l’appunto la ruffianeria e la spavalderia tipica di chi disprezza Napoli e soprattutto i napoletani. A tutto ciò va aggiunto anche la sacralità della napoletanità ed è per questo che di conseguenza a un presidentissimo napoletano vengano richieste almeno una fra due onorevoli virtù: l’attaccamento viscerale alla città e al suo popolo oppure la signorilità tipica della tradizione napoletana. Cose che non apparterrebbero a De Laurentiis o che sarebbero interpretati a suo piacimento dall’alto della sua finta “napoletanità”.

Ma diciamoci la verità i tifosi napoletani forse vivono ancora eccessivamente nel mito di un’epoca probabilmente irripetibile, e cioè quella degli scudetti, della Coppa Uefa e di conseguenza in quell’incancellabile immagine del Napoli Maradoniano che ancora oggi è capace di attrarre anche i ragazzi che non l’hanno potuta vivere per mere questioni anagrafiche. Di conseguenza tutti si aspettano sempre il grande colpo di mercato, gli arrivi plebiscitari in pompa magna a Capodichino, il “Maradona” dei giorni nostri che non esiste e che non esisterà forse mai! Ma nessuno comprende appieno che De Laurentiis è invece coetaneo di un calcio che sacrifica la passione ai bilanci, che antepone il profitto alla vittoria, l'incasso allo scudetto, il mecenatismo presidenziale degli anni Novanta alla crudeltà del calcio business di oggi che impone di fare delle scelte anche dolorose ma necessarie per mandare avanti la “baracca”. Viene accusato di nepotismo, di arricchimento personale sulle spalle dei napoletani, viene definito un “pappone” per aver trasformato i tifosi in meri consumatori vuoti di passione, di non investire sulle strutture e soprattutto di non essere napoletano ma un romano impiantato quasi abusivamente in un ambiente che disprezza - quando dice ad esempio di preferire la pizza romana a quella napoletana - e in cui viene disprezzato quasi a pari merito. Si sa la riconoscenza nel calcio non conta nulla soprattutto quando si ha anche la capacità di contestare presidenti che hanno vinto 18 trofei in appena un decennio e in ben altri contesti, dunque, figuriamoci a Napoli dove il pubblico si è stancato di “vivere” tra il limbo della mediocrità assoluta e l’apoteosi dell’olimpo del calcio. Si dice “Vedi Napoli e poi muori!” sarà pure così, ma questo detto però non sembra valere per De Laurentiis che invece: “Vende a Napoli e poi risorge”!

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