Oggi non parlerò di Inter, di Antonio Conte, di blogger o di cantanti. Avrei scritto ugualmente questo testo, per tenerlo nel metaforico cassetto dei ricordi, ma ho pensato fosse giusto condividere ciò che mi è accaduto qualche giorno fa, in quanto mi ha colpito molto e sento il bisogno di raccontarlo in qualche modo. In genere, non mi piace scrivere di vicende personali, figuriamoci se si tratta di condividerle. In questo caso, però, voglio fare un'eccezione. Chissà, magari alla persona protagonista di questo racconto potrà far piacere leggere tutto ciò.
E se lo meriterebbe tutto.
I contenuti dei dialoghi che leggerete sono stati rielaborati per rendere fruibile la lettura, ma sono assolutamente autentici e aderenti a quanto accaduto nella realtà.

TEMPO PRESENTE

- Domenica 13 dicembre

Intorno alle 15, esco di casa per recarmi in uno dei punti vendita di un'importante catena di negozi di abbigliamento situato nella centralissima piazza in città. Uno di quelli che conoscono tutti, con un marchio riconoscibilissimo (va beh, chi se ne frega). Entro, e cerco di trovare il reparto di mio interesse. Sono un pò spaesato, forse ho bisogno di un caffè, e quindi per sicurezza chiedo ad un addetto di indicarmi la strada. Lui, molto cordialmente, mi manda... nel posto giusto. Vado avanti, guardandomi intorno, e poco prima di giungere al reparto di mio interesse, noto una ragazza. Capelli ricci, non eccessivamente alta, carnagione scura. Insomma, caratteristiche tutto sommato comuni, ma intravedo in quel profilo qualcuno di conosciuto.
«No, aspè», dico tra me e me (o forse l'ho detto a voce alta, non lo so)
«Ma quella è lei. Come è possibile?»
Insomma, mi avvicino, sperando di non sbagliare e soprattutto di non passare per un malintenzionato. Arrivo a pochi passi, mantenendo il distanziamento obbligatorio, e finalmente alza lo sguardo. Non avevo torto: è lei. Non ci posso credere.
«Eva!» (nome fittizio della persona in questione)
«Indaco32!» (nome vero, falso, non si capisce più ormai)
«Ma scusa, cosa ci fai qui?» (tipica frase idiota che fuoriesce ogni volta che incroci una persona per caso)
«Sono salita qualche mese fa, in realtà. Tu lo dovresti sapere, scusa, hai visto su *nome social network* le mie foto» (salita: modo di dire tipico di noi originari del Sud Italia che significa essersi trasferiti in qualche località del Nord Italia)
«Cazzo, hai ragione, ma non avevo capito ti fossi proprio trasferita definitivamente. Per lavoro, immagino»
«Ovviamente»
«Ti accompagno alla fermata?»
«Sì, prendo queste due cose e usciamo»

ANTEFATTO

- 1° Anno Accademico

Io e Eva ci siamo conosciuti tra i banchi dell'Università ormai circa un decennio fa. L'Inter era una squadra ancora con i contro*****, Instagram non sapevamo neanche cosa fosse e mai avremmo creduto di poterci ritrovare in un negozio del centro cittadino di un'altra città come due sconosciuti.
Non dopo quanto vissuto.
Lei era sempre in prima fila, già dal primo giorno. Arrivava alle 8:30 per seguire la lezione con inizio fissato alle ore 9. Io, invece, avevo spesso difficoltà nel rispondere presente alla sveglia mattutina, al punto da prendere posto appena in tempo per l'avvio. L'aula era abbastanza grande, ma ci notammo abbastanza subito. O, perlomeno, io la notai velocemente. Un giorno, terminata una lezione di Economia Aziendale fissata nel pomeriggio, mi incamminai verso casa, e mi sentii chiamare.
«Ehi, ma tu studi Economia Aziendale, vero?»
«Sì. Anche tu, ti ho vista seduta davanti. Ma vivi nei dintorni?»
«Sì, vivo nel quartiere "X"»
«Minchia (modo di dire... va beh, questo lo sapete tutti), ma pure io. Possibile che non ci siamo mai incrociati?» (domanda idiota)
«Infatti!»
Insomma, da quel momento, dopo quattro chiacchiere, ci scambiammo i contatti e mi convinse dopo pochi giorni ad avanzare. Dalla difesa
all'attacco. Voleva che seguissi le lezioni dal primo banco. Io non ero molto sicuro, ma lei sosteneva che l'apprendimento sarebbe stato migliore, che sarei stato più vicino alla lavagna e compagnia bella.
Va beh, non avevo molta scelta: finii al suo fianco, e pian piano divenimmo praticamente inseparabili compagni di corso.
Col passare del tempo, conoscemmo altre persone, creando un bel gruppo, tanto di studio quanto di cazzeggio. Eravamo semplici colleghi, appassionati di economia, di numeri, di calcio, di giochi da tavolo, di musica, di cinema... e tante altre cose. Fatto sta che questa combriccola di persone si trasformò in una brillante compagnia di amici. Sembra un passaggio scontato, ma non è affatto così. Quanti colleghi conosciamo, universitari e nel mondo professionale, che possono definirsi realmente amici? Quante persone frequentiamo per anni con le quali non entriamo mai in uno stato di confidenza tale da poterci permettere di essere sinceri?
Io e lei, ma anche insieme a tutti gli altri ragazzi, vivemmo spensieratamente quella avventura, facendoci assalire dalle ansie pre-esame (ti ricordi Statistica, Eva?) e cercando di non sprecare mai neanche un solo attimo di quella vita da campus.

- 2° Anno Accademico

Durante il secondo anno, sarà stato il mese di novembre o comunque in piena stagione autunnale, mi chiama.
«Non puoi capire che ho fatto oggi pomeriggio»
«Non mi dire che alla fine ... » (devo censurare)
«Idiota, no. Ho fatto richiesta per entrare nella squadra universitaria»
«Ma che cazzo dici? Non ci credo che lo hai fatto»
«Ti giuro»
«No, allora, se è uno scherzo vedi che mi incazzo. Se è seria... dove sei che ti offro subito da bere????? Dobbiamo brindare immediatamente!»
Me lo diceva già dall'estate, ma era una cosa che pensavo rimanesse tra le migliaia di fantasie che ci raccontavamo, del calibro di «Ragà, l'anno prossimo andiamo tutti insieme in Grecia. Tutti, però, mi raccomando» oppure «Però, dobbiamo giurarcelo: non ci perderemo mai. Qualsiasi cosa succeda, anche quando finiremo di studiare, saremo sempre in contatto. Non possiamo perderci». Ovviamente, non è andata così, tanto per il primo caso, quanto per il secondo.
Ma il punto era un altro: Eva aveva fatto richiesta di entrare. Non voleva dire che l'avessero automaticamente presa, ma ero comunque felice perché aveva fatto un passo importante. Se ne era fottuta dei pregiudizi imbecilli del tipo: «Ma che devi fare? Il calcio è uno sport per soli uomini!». Una roba che mi faceva rabbrividire già anni addietro, figuriamoci quando sento ancora oggi qualcuno sparare una bestialità simile. Insomma, a lei non interessava un tubo: era appassionata di calcio e voleva giocare. Punto.
Alla fine dei conti, la inserirono nella squadra universitaria di calcio a 5. Inizialmente, si allenava solamente. Sappiamo come funziona: si entra in punta di piedi, si suda, si sgomita e poi arriva l'occasione di disputare una partita. Peccato che quell'anno accademico ciò non accadde. Sette mesi interi di allenamento, qualche trasferta (mi viene in mente quando il giorno prima del test di Diritto Tributario eri fuori sede e sei tornata la sera tardissimo. In più, non avevi giocato ed eri delusissima. Ti ricordi?) ma zero e dico zero minuti. Onestamente, ci rimase male. Non lo ha mai detto, ma so che è così. Nel frattempo, gli studi procedevano, qualche esame lo lasciammo «per la sessione di settembre» perché «tanto studiamo quest'estate». Aahahhahahahahahhahahah.
Ridevamo, ma poi ci prendeva il panico e studiavamo sul serio ad agosto. Che estate quella.
Gli Europei del 2012 visti insieme, con un tale amico di Adriano (nome di fantasia, il nostro "Re di Briscola", per intenderci) che dalla foga spaccò la porta di legno di casa sua al gol di Balotelli e noi che non sapevamo se godere del vantaggio o ridere di gusto per la sua faccia di stucco.
Quanto mi mancano quelle sensazioni!

- 3° Anno Accademico

Insomma, arriva il nuovo anno, bisogna fare sul serio. Sia tra i banchi, e sia sul campo.
Lei viene confermata, ma stavolta le viene garantito che avrebbe cominciato a giocare, complici alcuni addii di alcune calciatrici che avevano (presumibilmente) terminato gli studi.
Stavolta, è il momento.
Mi presento con Luca (nome di fantasia, il nostro "Amico di teatro", per capirci) al Centro Sportivo e siamo pronti ad assistere alla partita, consci che probabilmente non avresti mai giocato.
E invece, finalmente, scesi in campo.
Sì, Eva aveva finalmente messo piede sul terreno di gioco. Ricordo che Luca fece una foto, tu eri emozionatissima e infatti sbagliasti un appoggio semplice spedendo il pallone fuori. Eva, concentrati! Qualche minuto, poi il richiamo nuovamente in panchina.
Fu così che andò quell'anno, con te che entravi sempre con la voglia di spaccare il mondo ma con quel timore che ti faceva trattenere. Hai fatto anche qualche gol, ma mentirei se dicessi di ricordare cosa feci esattamente. Probabilmente festeggiai in modo moderato, oppure avrò guardato male il primo criticone o, più semplicemente, ti avrò fatto un applauso. Meritato.
Mi ricordo più i tuoi errori che le tue reti. Non so perché, ma forse è una questione umana. Se chiedi di Baggio, si ricordano tutti del rigore di Pasadena, molti meno di quello che ha fatto con tutte le maglie indossate. No, non ti sto paragonando al Divin Codino (sei un amore, ma non scherziamo), ma certo che vederti giocare mi ha fatto bene. Un'amicizia vera, che sembrava potesse durare in eterno.
Non è andata così, e lo sappiamo bene, visto che ho fatto fatica anche solo a riconoscerti.
Ma credo che non importi più di tanto, adesso.

TEMPO PRESENTE

- Domenica 13 Dicembre

Siamo di nuovo al presente.
Usciti dal punto vendita, passeggiamo per un lungo tratto fino alla fermata dei mezzi.
Io ti confesso di essermi probabilmente innamorato seriamente di una persona in questo momento della mia vita e tu quasi vorresti dirmi che non ci credi. Lo so, ma sono passati anni, ti giuro che stavolta sento qualcosa di diverso per una donna, te lo garantisco. Un sentimento vero e autentico.
Tu mi guardi e anche se non me lo dici per non darmi soddisfazione sei fiera di me. Finalmente sono cresciuto, almeno in questo.
Esaurito questo argomento, parliamo delle solite amenità: lavoro, lontananza dalla terra di origine. Ci ho pensato dopo, Eva: ti rendi conto come il tempo cambia le dinamiche? Io e te ci fidavamo l'uno dell'altro, io mi sono rifugiato a casa tua dopo quella serata che ricordiamo bene entrambi, e tu hai fatto altrettanto, svelando a me i tuoi segreti più intimi, quelli che non puoi rivelare se non stimi una persona e se non sai che quelle parole saranno più che al sicuro. E ora, dopo tutto questo tempo, ci ritroviamo a parlare con una mascherina addosso, distanziati e con contenuti degni di una conversazione che può nascere quando si crea la fila alle poste (o si creava, per dirla meglio).
«Giochi ancora a calcio?»
Qua, forse, ho sbagliato. Ho visto il cambio del tuo sguardo. Ho percepito subito quale fosse la tua immediata risposta, e ho cercato di dirottare la conversazione, ma mi hai anticipato.
«No, Indaco32. Non gioco più, e non solo quello, perché... sono stata male. Non fisicamente, chiariamoci, ma di un male che ti fa svegliare presto, solo che non hai voglia di rimetterti a dormire e tantomeno di alzarti per fare colazione. È quel male che ti lascia scorrere la mattinata come fosse infinita, mentre dovresti fare mille cose inutili e invece ti ritrovi a non aver neanche preparato il pranzo. E allora, sai che c'è? Utilizzi una delle innumerevoli applicazioni per la consegna a domicilio. Divertente, vero? Scegliere il menu, decidere cosa prendere. E invece, no, non vedi l'ora di selezionare il primo piatto e di chiudere quel dannato telefono. Ti annoia anche solo fare le scale per ritirare i prodotti dal rider. Ti distrugge sapere di non avere impegni, ma nello stesso tempo hai il terrore anche solo di udire la parola «lavoro». Non vedi l'ora che arrivi sera per rimetterti a letto, ma quando lo fai ti risale il veleno e pensi ad un'ennesima giornata buttata nel cesso. E allora vorresti piangere, ma non lo fai, perché non hai neanche la forza di prendere un fazzoletto per asciugarti. Il solo pensiero di alzarti dalle lenzuola ti devasta. E allora chiudi gli occhi, ti metti un film per addormentarti ma non ti fa prendere pace. Allora cerchi di seguirlo, ma non ti prende. Ti metti le cuffiette, ma sei distrutta e le getti il più lontano che puoi. E ricominci nuovamente a piangere, non capendo più dove ti trovi, che ore sono e quanto manca all'ennesima giornata di merda».

Come ho scritto sopra, ho dovuto adeguare il testo, ma vi posso assicurare che il tenore dei contenuti è stato esattamente questo.
Io rimango basito. Sono sempre a mio agio quando devo ironizzare, quando devo offrire un parere, ma quando sento il dolore altrui, sebbene passato in tal caso, vorrei trovare una soluzione immediata per porre rimedio.
Solo che non sempre c'è.
La guardo fissa negli occhi, ma gli occhiali che avevo poggiato sopra i capelli mi cadono giù. Forse è un bene.
Ho detto quello che dovevo dirle.
Lei mi ha rassicurato sul fatto che quel periodo è divenuto solamente un cattivo ricordo, anche se a volte una piccola ombra risale, ma sotto controllo.
Dopo, ha preso il mezzo, e io mi sono ritrovato naturalmente a non so quanto distante dal dove dovevo andare. Maledizione, e non ho neanche preso quello che dovevo in quel negozio di abbigliamento!

- Eva, la mia calciatrice preferita

Eva, io spero che tu possa tornare a giocare il prima possibile, ma solo se ne avrai voglia. Non agonisticamente, sia ben chiaro, ma solo per il gusto di tornare a fare ciò che più ti piace.
Sono felice che tu abbia trovato un lavoro, che tu stia nuovamente ritrovando te stessa.
Lo so, entrambi odiamo le banalità, ma cosa potrei dire di diverso?
Io non so più nulla di te, se non di questo tuo periodo fortunatamente ormai passato. Non so che fine hanno fatto "gli altri", non so come ci siamo ritrovati ad essere estranei. So solo che mi ha fatto piacere incontrarti in un modo rocambolesco, che non avrei mai potuto immaginare. Non so se ti voglio bene ancora, così come tu non puoi dirlo a me. Sono anni che ci scambiamo solamente distratti auguri in occasione delle festività, e non ricordo neanche più quando ci siamo visti realmente davanti a un cappuccino o a una tavola imbandita.
Mi è venuto in mente, dopo che te ne sei andata, un dubbio. Non sono mai riuscito a levarmelo dalla testa: ma quel bacio che ci siamo dati durante la notte bianca, all'interno del campo da basket del centro sportivo universitario in cui abbiamo fatto a gara di canestri e in cui ovviamente io ho fatto la mia solita pessima figura, è esistito davvero? Io e te ci siamo realmente baciati o me lo sono immaginato?
Non che importi, ora, ma mi è rivenuto in mente quell'episodio così curioso, così particolare. Un bacio che sapevamo entrambi non avrebbe mai potuto portare da nessuna parte, che entrambi non volevamo che divenisse il punto di partenza di altro. Ma quel bacio... beh, è stato comunque bellissimo. Che sia esistito o meno, volevo che lo sapessi.
Io mi auguro che tu possa tornare ad essere felice e se questo potrà passare dall'indossare nuovamente una tenuta da calcetto... ben venga.
Mi piacerebbe pensare a te, con la maglia numero 7 (o 6, non mi ricordo, scusa la gaffe) che entri in campo e sbagli l'ennesimo pallone spedendolo fuori. Tu farai una faccia crucciata per un attimo, ma poi ti rimetterai a giocare sul serio. E tu, se vorrai, mi immaginerai ancora come ai tempi dell'università, seduto in tribuna, mentre mi distraggo quando segni un gol.

Non so se ti voglio ancora bene, ma ti auguro di cuore che tutto ciò che mi hai superficialmente raccontato possa essere sempre più lontano da te.
Se ci rivedremo non lo so, ma questo... conservatelo.

Un abbraccio
Indaco32